Italia - Orazione detta la sera del 13 marzo del 1917 al Teatro Adriano in Roma

Sem Benelli

1917 Indice:Italia. Orazione detta la sera del 13 marzo del 1917 al Teatro Adriano in Roma.djvu Italia. Orazione detta la sera del 13 marzo del 1917 al Teatro Adriano in Roma Intestazione 7 novembre 2021 100% Da definire


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SEM BENELLI

ITALIA

ORAZIONE

detta

la sera del 13 marzo del 1917

al «teatro adriano» in roma

edito

a cura della

banca italiana di sconto

mcmxvii

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La Banca Italiana di Sconto, per meglio far capaci gl’Italiani del loro dovere, in quest'ora in cui la Patria, tutta in armi, chiede il denaro per la Vittoria, ha pregato il Poeta-Soldato di dire una parola robusta ed alata e s'è rivolta a lui, convalescente per una ferita gloriosa.

Egli ha accolto l’invito ed ha parlato esaltando il popolo risorto ed ha cercato di accendere, ancor meglio, il senso del proprio dovere nella borghesia e nell’aristocrazia italiana, discorrendo intorno ad un tema ampio come un destino di eternità: Italia! [p. 5 modifica]


Una notte di maggio in Roma, notte agitata come l’intemperia primaverile, coloro che aspettavano le decisioni di chi meglio di tutti poteva giudicare se necessaria l’attesa o necessaria l’azione, sentirono finalmente l’Italia.

Di fra la gente immersa in un brusio di pecchie, raggruppata a capannelli presso i ritrovi dell’Urbe si fecero luogo improvvisamente alcuni uomini carichi di manifesti.

Parve che la piena paurosa di un gran fiume — il fiume eterno di nostra gente — rompesse gli argini e per lo smotto si buttasse il gorgo, impetuosamente dirompendo, con grande urlo prima, poi con solenne possanza.

Io ero nell’Urbe quella notte: v’ero da più giorni e, se può importare il mio sentimento d’allora, io vivevo trepido ma fermo a questo proponimento: aspettare la decisione di coloro che sapevano, avendo in una mano la bilancia e nell’altra la spada.

Io fui tra i primi a leggere il manifesto che un uomo oscuro, seguìto e sospinto dalla folla come un travicello dalla piena, impastò sul muro. [p. 6 modifica]

Lessi rapidamente e scorsi subito, con emozione ignorata prima, il numero che segnava l’anno della mia nascita.

Un uomo accanto a me, ignoto e povero nell’aspetto, tutto agitato mi disse: — Vai sotto anche tu?

— Sì, anch’io — risposi.

Ed egli: — Andiamo, andiamo. — E mi trascinava con lieve violenza.

Ma io non lo seguii poi che una domanda più vasta riempiva il mio cuore:

— Chi è costui? Non è egli finalmente il popolo nostro, che interviene? Quale destino antico, eterno si compie in quella sua risoluta fermezza serena?

Si smarrì fra la gente che ripeteva con ansia, con la gola tesa, col petto gonfio:

— Ci sei? — Ci sono, ci sono! — Anch’io! — Anche tu?!...

A me pareva nuotare in un vortice.

Quanti giungevano, quanti accorrevano erano tutti chiamati, e con le loro mosse inaspettate pareva che già combattessero, qualcuno pareva già cadere sorridendo.

Accorrevano: la fiumana delle parole si riversava nei campi dell’azione. Era scritto! Correvano: imparavano il comandamento e si raggruppavano poi, fra loro sconosciuti, ma già fratelli: e quasi nessuno conosceva l’arte delle armi. Dolcissimo era essere ignorato fra loro e sentirsi dare del tu.

Questo accadeva quella notte in Roma, in Roma... Ma Roma dov’era? Nella sua maestà eterna, che diceva?

Io non potei quella notte concedere al mio [p. 7 modifica]spirito il riposo di un’ora. Le ombre di secoli e di secoli apparivano a me ritiratomi nella notte in alto sul Capitolino, a guardare il foro, ad assaporare la ineffabile commozione dell’ora possente, che fluiva da un destino, che si perdeva infinitamente nell’oscurità del passato, a un destino lampeggiante di bagliori e misteri; ma chiaro nelle sue prossime forme.

Giungevano dal cuore della Città i canti di guerra dei chiamati alle armi ed erano i canti dei vecchi; e pareva quello il primo legame col passato che io rivedevo fra le rovine, fra i boschi sacri, nel cerchio sacro di Roma.

Mi apparvero allora due maestà, due sostanze di un tutto talora armonico, talora diviso, talora sperduto, in una confusione sacrilega: — Italia — Roma.

Un più alto canto mi giunse distinto nella notte come un multanime grido di riscossa; ed io, quasi fossi preso alla gola dalla potenza della solitudine e dalla presenza della patria, che sentivo intorno a me ed in me, forse come non mai, gridai nella notte sacra: — Italia! Italia! Italia! Prima di Roma e dopo Roma, in eterno!


Il canto della patria empivami di sussulti. Il ricordo così armonioso fraterno ed umano di quel figlio ignoto del popolo, mi era diletto all’anima e mi rendeva ansioso di risalire il corso di quella potenza che si risvegliava un’altra volta, ed intera. [p. 8 modifica]

Un destino mirabilmente tragico e luminoso nella sua purificazione accompagna la nostra vita!

Anche il suolo stesso della patria è nato dal tragico amore dell’Alpe col Dio Sole.

Pensai che nessun poeta aveva cantato il mirabile dramma geologico; e, stando presso la rupe Tarpeja, mentre un incerto chiarore illuminava di terribile grandezza il Colosseo, vidi la terra della patria, la terra del dolore e dell’amore, apparire nell’alba di sua vita, vidi il suo nascimento incomparabile di bellezza.

Mi apparve l’Alpe, l’Alpe prima che l’uomo vi fosse.

Sono ignudi paurosi scheletri che sorgono direttamente dal mare, il quale occupa il posto delle pianure, delle colline, dei laghi. C’è la madre Alpe; ma Italia non c’è.

In alto, fra le guglie brune, è vita frastagliata: strilli d’aquile, mugghi di belve. Ai piedi il mare spumeggia e corrode di baci frementi la roccia, illuso, inconsapevole del suo destino. Il Mediterraneo, il letto dove il miracolo italico si compirà, comprende quasi tutta l’Africa settentrionale e le sponde del Mar Nero: è un Oceano.

L’Alpe purissima ingenua amoreggia col sole perchè dall’amore nascerà la terra d’Italia.

Ed ecco si compie il miracolo.

Ecco il candore materno che vela la fronte della madre Alpe abbandonata incinta dal sole che si allontana da lei per un divino perchè: perchè Italia nascesse.

La fronte increspata di passione dell’abbandonata [p. 9 modifica]si copre di neve e di ghiaccio, si fa distesa, levigata. Brividi materni corrono per le sue vene già tenere che si adamantificano. Intorno è tutto gelo di morte e la neve cade sul ghiaccio e tutto si gela e si ammassa per formare la soffice coltre di lei che sente staccarsi il meglio del suo essere, una coltre che tutto ricopre e circonda, che tutte serra le cime, strato su strato, e assorbe le rupi.

Ed ecco il dramma d’amore comincia a dare il suo frutto: tutto dall’alto si scoscende, tutto dirupa e riempie e piomba sui formali ghiacciai, e il gelo di morte persegue. Silenzio senza aliti e poi scoppi di rovine, moli immani che si sfaldano e cigolando precipitano.

Finalmente gl’immani ghiacciai scendono svariando di colori nell’ora mutevole: bianchi, azzurri, di zaffiro, ametista.

Scendono e trascinano il dono della madre con loro; calano con la lentezza del dolore che non si dimentica e premono e pesano e poggiano e comprimono arricchendosi di ciò che assorbono: le rupi sono divelte, spiccate via, le selve sono ingoiate, sradicate; tutto arricchisce l’offerta; le belve sono travolte e ammassi di scheletri sono serrati nelle tombe adamantine. Tutto è sepolto nelle visceri del ghiaccio che cammina, cammina traendo la rovina dei monti e che finalmente — tutto riempiendo — si ferma e si fa ponte su cui nuove moli passano sobbalzando leggere e, a volte, scivolanti come saette che saltano le valli e creano alture su alture di gelo, procedendo sempre. [p. 10 modifica]

Cammino gigantesco di moli immani, che recano i doni divini:

Ed ecco il padre. Ecco il sole che torna!

La compagine dei ghiacciai per il nuovo calore si apre e le fangose fiumane recano mille succhi, mille tesori e metalli elaborati dal divino prodigio. La fiumana ricca s’inoltra e getta le fondamenta dei delta e delle pianure che nascono dalle onde arricchite dalle offerte che i messaggeri candidi non cessano di recare dalle altitudini. E le pioggie scendono e più lievemente e più dolcemente distendono la congerie: si forma come un succedersi di pènsili giardini; poichè, sulla terra donata e vittoriosa del mare, crescono le piante gigantesche che si riflettono nei laghi azzurri; e le pianure si coprono di frutti: gli aceri, i pini, gli olmi, i bossi, le magnolie, i tassi, gli abeti, i castagni, le querci ridono al padre sole nel variopinto giardino. Corrono liberi gli animali e si moltiplicano; e sui piani nascenti tra i ghiacciai e il mare allontanato, pascolano i cervi i buoi i cavalli. Il dono della madre è sfolgorante di ogni maraviglia poichè il sole ha respinto il gelo nel seno delle alte montagne.

L’Italia è sorta: nessuno la chiama ancora, forse l’uomo non c’è che la chiami, non son giunti forse gli abitatori col toro che le dette nome; ma ella è sorta: il miracolo è compiuto. Il mare deluso s'è ritirato in sè stesso. Tra le Alpi e l'Appennino è la pianura. Il mare ha perduto i monti ai quali si giunge più dolcemente con più lieve salita che aspetta l’uomo. Le valli sono percorse dai fiumi. I torrenti precipitano dalle vette ancora nevose spumeggiando tra i vertici: [p. 11 modifica]le colline sono argentee di olivi nell’intrico della vite. Alla nuova terra si può approdare giungendo per mare e, maraviglia sacra, il fuoco, uscendo liberato dal cuore della nuova creatura, saluta il miracolo. L'Italia è nata!


È nata: esiste la reggia: esiste il teatro che, sorto dalla tragedia d’amore, accoglierà l’uomo più fattivo che sia mai nato.

Questo teatro di tanto portentoso stupore non poteva non educare la creatura ragionante alla maggiore virtù: alla poesia; e poesia è bontà. Prima ancora che egli sapesse parlare, prima che avesse nome, prima che si chiamasse Aborigeno o Pelasgo o Etrusco o Romano, l’Italiano fu poeta, poi che visse in contemplazione della sua terra ossia del dono maggiore che l’Ignoto, il quale già lo turbava, avesse potuto concedergli.

I resti degli uomini primi ritrovati da noi sono ossa disposte con tal religione, che significa come, fra i primi sentimenti, ebbe l’Italiano il sentimento dell’Immortalità. Dono che gli dette la madre con lo stupore maraviglioso e tragico di sua bellezza, il quale ha sempre reso i suoi figli ammoniti d’ogni presunzione ed è stato il movente d’ogni loro culto. E come il tuono e il fulmine hanno fatto credere altri popoli in un dio punitore, questa misteriosa beltà della patria ha fatto sentire agli Italici in ogni tempo un dio in loro stessi, i quali, quando poterono [p. 12 modifica]spontaneamente decidere del bene e del male, commossi dall’armonia del creato intorno a loro, furono sempre buoni e giusti.

In tal modo noi vediamo già i primi popoli considerare la vita come una bella vanità che non va disprezzata, ma che è necessario vivere col maggiore impegno, senza credere però che da lei venga la maggior consolazione. Così le statue funerarie etrusche c’insegnano il vero, raffigurando con arte somma il morto che allontana da sè la coppa, quasi dica, porgendola a chi incomincia a vivere: — Ho bevuto: ora bevi tu. — Oppure la donna che allontana languidamente ma placidamente composta, lo specchio da sè, come per dire: — Eccoti lo specchio: io mi son vista: ero un’ illusione!

Questo fondamento naturale di dolore è sostanzialmente proprio dell’anima italiana ed è nato, e fu certo così anche negli uomini primi, nei padri: è nato dal sentimento della propria piccolezza che prende il cuore di chi contempla il cielo, il mare, i monti da questa terra del sacro incanto.

Di qui la necessità del perdono, di qui le fonti della giustizia.

Di questa luce soave e tersa noi troveremo illuminato ogni atto spontaneo del popolo italico: vedremo questa mistica essenza in ogni maraviglia maggiore del genio, in ogni impeto nazionale: soffocata più volte, è risorta anche dopo secoli: contrassegno mirabile di rinascita e di vittoria.

Da questo sentimento del dolore, che è aristocrazia della vita, è nata la poesia di Virgilio, di Dante e del [p. 13 modifica]Leopardi, e sono nate le leggi romane e italiche, fondamento civile del mondo.


A questa terra che è come conchiglia ed asilo per uomini eletti che ella monda ed esalta, si giunge per due naturali strade: quella dell’Alpi e quella del mare; così come per simbolo si giunge per due vie alla verità: da quella del ragionamento e da quella della ventura, cioè dell’ispirazione.

E se per secoli e secoli da capo e dai lati giunsero a questa madre le genti, vuol dire che Italia è mèta e aspirazione del mondo, poi che quando per due punti quasi opposti ci si rivolge ad uno si è perchè quel punto è manifesto scopo del cammino.

Vennero primi a questa terra dall’Asia e, per l'Oriente, valicarono le Alpi, gli uomini armati di pietre e trovarono gli antichi abitatori italici quasi simili a Dei in contemplazione dell’eternità e con loro si azzuffarono per la paura che ebbero di loro grandezza intellettuale: ma furono mutati e fatti italiani.

S'iniziava così l’opera che si può chiudere in un primo tema della tragedia italica: — Italia è prima amante di chi cerca in lei l’amore e la vita, e poi è madre difesa in eterno.

Alle risse prime successero le gare per la verità e la bellezza.

Quale êra è questa, in cui l'umanità infantile compie le più grandi fatiche? Chi le darà chiara forma d’arte?

Vengono poi, e non più dall’Alpi ma dal mare, gli uomini che recano il bronzo, recano la risoluzione [p. 14 modifica]di un problema che prima pareva insolubile: plasmare con agevolezza e rendere immutabile la materia secondo la volontà dell’uomo. Ed ecco subito nuove gare e nuovi attriti per la conquista: cresce l’irrequietudine fattiva: nasce il traffico. Italia scopre un’altra sua ricchezza fondata sul moto della vita: Italia è il ponte d’Europa. La nuova civiltà prima di giungere al Nord ottuso e freddo si ferma nella terra del sole.

Quale brulicante fermento in questo tempo, in cui si fanno mura ciclopiche e porti per bene approdare, in cui si ragiona sul cielo, si pensa all’anno, ai mesi, ai giorni; si dà valore e snellezza italica a una mole immensa di cultura che giunge dall’oriente, confusa, a questo giardino dell’amore della contemplazione e dell’eternità!


Intanto alcuni pastori accorti, ed i più esperti navigatori, intendono come si possa dare anima alata a questa gente italica; e Roma sorge in modo religioso: un solco tracciato dai bovi sacri è il cuore del mondo!

L'Italia avrà presto un nome universale e temuto: Roma. Ella scopre e tratta il ferro e con questo si impone al mondo col diritto della nuova maraviglia.

Tutto ciò che all’Italia è giunto, per secoli e secoli, finalmente produce il suo frutto: Roma, che irradia la sua civiltà e la potenza della sua giustizia. Roma ferma le liti e le contese: ha in mano la bilancia; con la spada si aiuta a dare al mondo la pace. [p. 15 modifica]

Noi abbiamo guardato più e più volte con stupore questo miracoloso impero; ma poco abbiamo scoperto della sua reale essenza.

Il segreto di tanto imperio è questo: il dominio romano non ebbe mai fondamento di tirannia; nemmeno nella decadenza.

La sua potenza quando non fu liberatrice fu giusta: non mai feroce. La virtù precipua italica era dunque in lui. Per questa ragione gl’imperi barbarici non raggiunsero mai la grandezza di Roma: nè mai la raggiungeranno.

Roma era amata da tutto il mondo ragionante. Ecco il miracolo. Sorto dal nulla: sorto da quattro case, questo impero s’ingrandisce per secoli con una facilità che pare leggenda: col procedere dell’amore. E leggende e leggende costituiscono appunto la prima storia di Roma, il che è segno della genialità dei suoi primi uomini, e tutte queste leggende hanno il fondamento della persuasione non mai della tirannia. Roma non fu mai padrona, ma sempre trasformatrice. Come il terreno tragico d’Italia creò forse per primo l’uomo ragionante, Roma per prima creò il cittadino: e l'ansia maggiore di tutte le genti era quella di diventare cittadino romano. Quando questa sete civile diventò febbre, l’impero romano, premuto dalla curiosità furibonda dei barbari, fu prima oppresso d’amore, poi stretto, poi lacerato. Tanta era la sua buona e bella possanza che molti barbari di caloroso istinto che a Roma venivano come guerrieri, da tanto splendore presi, innamorati e sedotti, non potevano bene morire senza ritornare alle torme dei loro fratelli ancora coperti di pelli e raccontare [p. 16 modifica]le maraviglie di questo paradiso: e così accendevano quella bramosia che condusse le orde alla distruzione di tanta grandezza.

Mentre Roma si riposava sul suo letto d’oro modellato con mirabile artificio, i barbari nelle file dell’esercito cooperavano alla rovina, e le porte delle Alpi furono ancora spalancate alla bramosia bestiale di godere senza diritto le dolcezze di un impero che era giunto al sommo.


Il mostro barbaro strinse la coppa del piacere e s'inebriò: e l’Italia fu per secoli la stanza di una sacrilega orgia.

Scomparsa Roma, ovunque è confusione e spavento. Centinaia di stirpi si urtano, si fondono, si amalgamano. Spenta la luce della civiltà tutta l’Europa piomba in un buio mai conosciuto.

Finchè il barbaro restò fedele al suo istinto non fece che godere della distruzione di quella bellezza che disperatamente lo dominava: il che costituisce un tema della sua tragedia.

Quando poi la romanità sembra uccisa, egli concepisce il proposito di sostituirla; si crede l’erede; e s’illude, rimanendo Ostrogoto o Longobardo, potere ricomporre l’impero.

Nasce allora il più triste tema della sua tragedia: la bramosia del dominio. Dominio senza amore, senza sostanza di vero bene e di vera civiltà, non consacrato mai dal popolo italiano non ostanti le mille [p. 17 modifica]apparenze, le mille genuflessioni e gl’infiniti tornaconti; ingorda avidità presuntuosa che in diversissimi modi tende al Mediterraneo ripetendo un destino che sembra immutabile; ma che in Roma s'infrange e si consuma in Roma, la quale fu ed è, e fatalmente oggi è per essere, per una gigantesca giustizia latina, l’eterna ampia e capace tomba dei barbari.

La tragedia è lunga: le nozze con Roma dànno un lento sfinimento: i dominatori nomadi stringono un corpo inerte, e la loro disperazione a volte riempie la volta del cielo.


Ma la civiltà romana s’era veramente perduta nel caos delle invasioni?

Non è possibile che si consumi dovunque ciò che è stato per secoli in ogni luogo.

Mentre i dominatori del nord accumulavano sui vinti le superstizioni e l’ignoranza, molti Romani non uccisi, ma tratti schiavi presso le sedi barbariche, vi seminavano gli usi e le credenze meridionali e il cristianesimo.

Ebbe principio così un periodo meno barbaro, periodo pauroso e difficilmente immaginabile, come quello che non ha lasciato ricordo, in cui il sistema feudale dominò. Creazione pienamente germanica nello spirito e nelle forme, sorto dalla necessità di conservare le conquiste, degenerò in una insolente aristocrazia che invase l’Europa intera. I contadini [p. 18 modifica]e i giumenti furon posti allo stesso grado: il delitto continuo e la paura innalzarono i castelli.

Sistema feudale che della madre Germania è figlio prediletto. Anch’oggi voi lo vedete, se pur mascherato e mutato dai tempi, essere la promessa della pace che gl’imperatori delusi promettono all'Europa e vorrebbero regalare al mondo.

Dono sostanziale della madre Germania che deve aiutarmi a far meglio intendere quello che ho chiamato e chiamerò ancora: dono della madre Italia.

Dono della madre Italia che è dono di umanità e che se recato dai prigionieri dette frutti bellissimi che non sono naturalmente riconosciuti dagli occhialuti satiri della scienza tedesca, rimasto in Italia in soggezione stette, non più nelle istituzioni di Roma, ma, rifugiato nel popolo oppresso, là dove il cristianesimo lo purificava ancor più, preparando l’ora del suo risveglio agli albori della portentosa e mistica Rinascita; che fu il nuovo pane spirituale al quale la patria nostra affidò la propria sostanza, perchè dicesse al mondo: Io vivo ancora e sono così nutriente.

Preparato lungamente dalla sofferenza sorge nel popolo il più bel fiore di gentilezza: la Carità!

Il suo interprete, il poverello d’Assisi precorrendo tutta l’arte novella cantava la rivolta dell’amore fra le creature, contro la barbarie antica:


                                        Amor di caritade
                                        perchè m’hai sì ferito?
                    .      .      .      .      .      .      .      .
                    Aggio perduto core e senno tutto,
                    voglia, e piacere, e tutto sentimento:
                    ogni bellezza mi par fango brutto,
                    delizie con ricchezze perdimento.
                    Un arbore d’amore con gran frutto,
                    in cor piantato mi dà pascimento.

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Così dolce era il succo di questo nuovo dono di bontà con il quale l’Italia rinasceva.


Se non trovate in questi albori, nè poi, purtroppo unità nazionale, voi vedete però i costumi temperati da questo sentimento di carità e di semplicità che dànno possanza. Sentimento che accompagna per un pezzo il risveglio della vita politica, la parziale libertà e l’inizio dell’opulento trionfo commerciale che renderà l’Italia fino a tutto il Rinascimento dominatrice se bene divisa e in protezione.

Da questo nasce la vita nuova dei Comuni e la Lega lombarda come era nata la cristiana cavalleria.

Sentimento che mi preme indicare come l’odoroso alito animatore della primavera italica, come la sola realtà che faceva una la patria.

L’Arte e il popolo composero il miracolo.

La virtù divina della Madre nostra non si perdeva, rinasceva, si ripeteva mutandosi.

Pareva che tra i lontani padri abitatori delle selve e delle spelonche, contemplatori della natura, innamorati dell’eternità, e certi uomini di quel tempo, fosse una segreta comunione.

Ritornando alle origini, l’arte riscontra la madre: e vi ritorna insieme con tutto il popolo. I pittori fiorentini senesi pisani lucchesi dipingevano i santi con l’umile espressione dei contadini. E che è questo se non la deificazione di un popolo? di un popolo che l’arte affermava ormai libero e diverso, nei suoi caratteri essenziali? [p. 20 modifica]

L’Angelico che così bene si transumanava, dipingeva le sue visioni paradisiache con tale armonia di colori quasi direi di suoni, che il paradiso scendeva nel cuore terreno dell’umile popolo adorante.

Mentre il popol tedesco e d’ogni sorta i barbari favoleggiavano d’eroi di grossolana virtù e di gesti sorprendenti, tutto simboleggiando con astrusa materialità, la musa italiana aveva già segnato quanto di bene e di male è nell’uomo e quanto di divino e di umano è nel suo regno di giustizia.

E se taluno poi come Sandro Botticelli potè dipingere, e lo fece con nuovo garbo, il venticello zeffiro, e accarezzare la pelle di un centauro, — dipingendo la Primavera, egli, umanissimo, le dette il segno schietto e materno della gravidanza e la cinse di un’aureola di santità.

In questo vasto e multanime periodo si delineano le tendenze delle arti e, mentre il simbolo, cioè l’enfiagione brutale e mastodontica del reale, è barbaro; l’arte italiana porgeva al mondo la schiettezza naturale dei suoi capilavori e si formava un miracolo di gentilezza, ignoto anche ai Romani, che pur ne favoleggiarono; nasceva in Italia una virtù d’arte assai maggiore della bellezza che è la bellezza della bellezza, virtù somma dell’arte italiana e che si chiama la Grazia!

La Grazia che componeva la danza senza offendere l’amore e che sposata alla bontà concedeva ai pittori di questo maraviglioso tempo raffigurare la madonna umilmente vestita e col volto rassegnato e buono di una donna del popolo, senza che per questo svanisse la devozione e la santità dell’opera. [p. 21 modifica]

Grazia che fiorisce in ogni espressione di vita, nelle industrie e nelle armi: perfino nella corruzione del cinquecento la ritroveremo: in molte etère in Pietro Aretino: nella femmina e nel ricattatore.

Verrà tempo in cui, seguendo un ideal corso storico, il periodo che va da quando Donatello, Michelangelo, Leonardo e, se bene più tardi, Galileo col loro incomparabile genio glorificarono gli umili elementi dei primitivi e dettero dell’opera degl’Italiani, rinati all'amore del tutto, segni quasi divini; — da allora, o meglio da loro, senza mai dimenticare l’alba della Rinascita, si scenderà rapidamente al Risorgimento e subito ai giorni nostri poi che troppo lenta troppo effimera fu la vita italiana, se pur notevolissima a tratti, in questo intervallo: e troppo dolorosa per noi che nel Cinquecento nutrivamo il mondo col nostro sapere, quando le famiglie italiche avevano ancora traffichi e banche dovunque e la lingua nostra era quella delle più colte persone del mondo. Troppo doloroso ci parrà questo intervallo in cui abbiamo perduto tutto l’impero che veramente lo spirito e l’intelletto della nostra stirpe, pur divagata in mille maniere politiche, aveva imposto all’intelligenza universale.


Ma se tanto perdemmo, ci fu concesso finalmente riunire in un’unica potenza tutta Italia ed ora noi siamo per dare alla patria una compagine morale necessaria più della vita; poi che, è tempo di dirlo: [p. 22 modifica]in questi pochi anni di redenzione noi fummo troppo spesso indegni di tanto bene; e forse la libertà nostra non fu da noi tanto adoperata a distruggere quel primato degli italiani che pur sorrideva ai nostri padri in catene, non molti anni sono.

Ma com’è che abbiamo potuto riscuoterci improvvisamente nell’attimo?

Per questo, o signori. Perchè il popolo, il popolo buono, ha, per la prima volta dopo la Rinascita, cooperato alla vittoria d’Italia.

Ecco perchè io vedo un segno ideale che direttamente parte di lassù e giunge a noi quasi con religione.


In questa guerra — e ormai ritornati allo scopo restiamoci — in questa guerra la Nazione italiana viene compiendo la maggior prova.

L’Inghilterra era potente ricca e difesa dal mare, del quale era signora.

La Russia ricchissima d’uomini, con un terreno sterminato che la isola come un mare, e con un popolo per la più gran parte assuefatto ai disagi, atto alla guerra per consuetudine, per esperimento recente e per abito all’ubbidienza.

La Francia era ricca e, se bene fosse avvelenata dalla rettorica come noi, aveva intatto il sentimento anzi l’ostentazione del sentimento nazionale. Chi diceva in quella prodigiosa terra di non amare la patria, era come uno che è sicuro della sua donna e [p. 23 modifica]fa l’indifferente: se qualcuno però glie la guarda, prorompe come un leone.

L’Italia era solamente in ispirito: e questa sua fiamma era anche sconosciuta.

La chiamavano una grande Nazione: ma l’inconsapevolezza del suo destino era palese in ogni atto.

L’operosità individuale e privata avevano fatto miracoli; ma come per dispetto. Dico quasi per dispetto, perchè l’invidia pareva la dea malefica più venerata.

Oltre l’invidia, la diffidenza aveva reso la macchina dello Stato arrugginita e lenta, invasa dalla rena della burocrazia.

L’Italia era; ma le avevano messo sul petto una rupe quasi avessero diffidato della sua bellezza. L’hanno trattata sempre come vecchi gelosi e diffidenti, lei giovanissima.

L’economia dello Stato fondata su criteri di estrema miopia, non ha mai lesinato nello scialacquio per alimentare gli ostacoli e le difficoltà e le umiliazioni al lavoro, alle industrie, all'attuazione di geniali propositi; ma ha invece lesinato il centesimo ogni volta che si trattava di dar valore alla nostra vita nazionale nella sua vera sostanza e anche nelle necessarie forme.

Così per le scuole dei fanciulli, così e maggiormente per le Università, alle quali si doveva provvedere il modo di studiare con ampiezza e di fare esperienze, non a seconda delle finanze; ma secondo richiede l’educazione di un popolo che ebbe sempre splendidissimo il frutto del genio: genio che poi, nella vita odierna, è fonte d’immensa ricchezza. [p. 24 modifica]

Noi ci maravigliamo, ad esempio, che la Germania domini il mondo con i suoi colori, mentre in Italia un chimico è tenuto per un tintore e l’ottanta per cento non sa nemmeno vagamente l'estensione della sua necessaria dottrina. Così delle altre scienze.

Per le stesse ragioni parecchi milioni di ettari di terra italiana è incolta e mal coltivata. I monti che nel Medio Evo erano una gloria di verde sono nudi; per la stessa ragione ricchezze e ricchezze incalcolabili, che la madre ci offre o serba nel suo seno, sono ancora da raccogliersi.

Ma a me preme restare nel mio cammino che per essere elevato ha maggior vista.

Il Risorgimento è fatto d’ieri; eppure prima della guerra egli pareva così lontano da essere dimenticato.

Anzi ricordare agli Italiani di ieri la religione verso i santi della patria poteva parere — e lo dicevano con dispregio — poesia.

Giuseppe Garibaldi — il ligure condottiero — chi lo venerava? L’ammirazione per lui veniva su su continuando per forza d’inerzia: girava ancora come una ruota uscita da una carrozza in corsa. C’erano le vie chiamate col suo nome: c’erano tanti brutti monumenti... Eppure in lui il sentimento dell’umanità ebbe una raffigurazione bella come un sogno. Egli fu poeta come un antico, generoso come l'eroe di un canto di cavalleria, modesto ed umano e geniale e forte come il popolo nostro.

Eppure il popolo nostro non lo conosceva. E se questo vi paresse doloroso, vi dirò che assai poco era conosciuto ed amato dai maggiori. [p. 25 modifica]

Che era questo popolo, prima della guerra, questo popolo italico il quale è quello che ora fa la guerra, o signori?!

Il così detto popolo evoluto covava il grande uovo di gesso della pace universale col calore dell’odio, senza sapere che non vi è pace possibile senza un alto sentimento di giustizia e di nobile colleganza fra le nazioni e le stirpi.

V’era il popolo che aveva lasciato la più bella vita che si possa sognare, la vita dei padri, l’agricoltura, che il divino Virgilio esaltò, e, senza che un solo uomo levasse la voce per dirgli: — Oh; tu vai verso la infelicità; — era corso alle officine, aveva rinnegato il sole e s'era guastato il sangue diventando preda di due vampiri indegni, il capitale mascherato e speculatore e il demagogo ignorante che anch’oggi, in questo sacro momento ben si riconosce al grifo e alla mangiatoia.

La sacra moltitudine dei contadini che poteva sapere dei destini della patria e della stirpe se ad una vera e nobile strada non si trova accennato nemmeno in tanti anni di discussione parlamentare?

L’Esercito? Gloria a coloro che dopo avere ricevuto sul volto gli sputi dell’aizzata canaglia hanno dato con ardore il braccio, la vita per il popolo italiano.

Come viveva dunque l’Italia senza aspirazioni se non gretta, senza il mezzo di sostenere al momento buono, con la spada, la propria dignità, il diritto alla giustizia, di fronte ai colossi del nord che si erano armati con tutte le armi in uso, con le macchine d’ogni sorta, con le scienze, con le brutte [p. 26 modifica]cianfrusaglie che vendevano al mondo per farlo orribile, con le comodità delle quali non c'è bisogno, con le delicatezze che non si possono ingollare, colle banche, coi filosofi, coi poeti, coi musicisti, con gli dei, con Wotan e Sigfrido, con i professori che avevano sedotto — oh, spirito magno e non ancor placato di Giosuè Carducci, dammi, non un dardo ma una frusta — che avevan sedotto pur coloro che dovevano dire al giovane ardente delle nostre università: va, figlio, tu hai diritto alla laurea, tu puoi entrare nel mondo, perchè tu senti genialmente e liberamente, come si conviene ad un italiano! — Non s’entrava, invece, se non per rivolta coraggiosa, nel mondo della coltura, senza ammirazione per i pedanti barbari, i quali erano armi pronte contro di noi, insieme con i critici d’arte, che avevan garbo a toccare il bello come la mano di un gottoso ad accarezzare la testa ricciuta di un fanciullo, insieme con i loro storiografi, che preferivano per le proprie ipocrite elucubrazioni l’Italia, sulla quale ponevano così un’ipoteca di lamentazioni, dicendo di continuo: Qui morì un imperator tedesco: piangete, o visitatori germanici; — qua fu spogliato un conte d’Alemagna; fremete; — questo coccio, questo sassolino insegnano che tutto questo edificò un principe di nostra gente, dunque — pareva volesser dire — tutto il resto, cioè l’Italia, è nostro.

Contro tali armi e contro, diciamolo schiettamente, la poca stima straniera, come si comportava l'Italia?

Lo Stato lasciava, e si dava l’aria di far bene, lasciava che il popolo emigrasse, avendo scoperto [p. 27 modifica]con brava genialità, che andandosene alimentava le casse di risparmio e toglieva molti grattacapi: visto che in Parlamento c’era troppo poco tempo per cose pratiche, affaccendati com’erano a buttar su e buttar giù Ministeri. Poichè non so se è chiaro abbastanza che in Parlamento si usò pensare alle leggi solamente per poter cogliere in errore il Ministero. Forse non c’è legge che, prima della guerra, sia stata composta e sancita in collaborazione schietta e fraterna tra il Ministero e il Parlamento, cioè tra i primi cittadini e l’Italia.

Gl’Italiani dunque partivano su piroscafi spesso non italiani, o italiani per burla. Andavano raminghi con la loro miseria, col loro non saper leggere; ma col tesoro dei santi: la bontà e la rassegnazione. Facevano ogni mestiere; ma più di tutto, aiutati dal dono della loro madre patria, dono spontaneo, non ancor bollato dalla burocrazia, il dono della genialità e della versatilità, attendevano con pazienza ai lavori più umili, ma spesso ai più scelti, più simili alle arti: all’architettura delle macchine; a tornire; a fare strumenti di precisione: costruivano meglio di tutti le ferrovie, i ponti, le strade; ma specialmente edificavano il monumento dell’economia nazionale, mandando in patria tutto, eccetto il boccone del pane.

Umili e grandi costruttori del Tempio: in onore di ognuno di voi bisognerebbe accendere un rogo di retori; se pur voi lo permettereste, voi che perdonaste a chi vi strappava dalla Madre, la quale in ispirito, alimentando la fiamma della vostra intelligenza e la bontà del vostro cuore, vi seguì sempre mugolando di dolore represso, nascondendosi [p. 28 modifica]timorosa nei piroscafi dove eravate i peggio trattati, nelle officine lontane, nelle vie straniere, sempre pronta a tenervi le mani che non pigliassero il coltello, ogni volta che lo straniero vi insultava, perchè non perdeste, o eroi incomparabili, il vostro pane quotidiano.

E gli uomini di pensiero, i pastori? Pochi e grandi solitari: e che siano onorati nel futuro quanto furono delusi e amareggiati. E poi un grande fermento di giovinezza e di rivolta: questo era buono davvero; ma la più gran parte dei sapienti si fermava alle apparenze. Molti uomini cinici nella vita pubblica, nelle lettere, nel giornalismo ebbero il sopravvento morale: prodigi di equilibrio sul filo dell’onestà e della improbità mentale parvero miracoli di scienza del vivere.

L'ironia e il dispregio per il dolore e l’assoluta incapacità a comprendere il religioso mistero del popolo; il credere la vita un libero festino parvero in certo tempo i contrassegni dei maggiori: perciò la moltitudine si tenne lontana dalle prove dell’intelletto. Eravamo distanti dalla giusta autorità nel giudicare dal popolo di Grecia, di Roma, di Firenze.

Da noi il popolo fuggendo il cinismo intellettuale dei gaudenti del pensiero e dell’astuzia si era perduto nella politica e vi si era vergognosamente imbrattato senza difesa di educazione.


In questo tempo, quando l’ora che trascorreva penosamente pareva la più paurosa, il Colosso del nord si mosse con tutte le sue armi.


Il mondo intero côlto da maraviglia e da terrore si accorse subitamente di aver dimenticato molte [p. 29 modifica]verità e sopratutto riconobbe che la tedescheria, cuor sanguinoso d’Europa, era la stessa, sempre.

Capì anche che l’Italia era necessaria nel conflitto come nelle feste religiose è necessario l’incenso. Amici veri e falsi; nemici ipocriti e palesi si pentirono di aver dimenticato l’eternità gloriosa della madre nostra, sentirono che Roma sarebbe stata ancora una volta cagione di vittoria o di sconfitta. E tutti ci furono attorno: e quel che implorarono e dissero deve essere immensamente significativo; ma non è conosciuto.

E l’Italia nel suo più nudo ma nel suo più puro sembiante, purificata dai fronzoli e dai falsi ori, entrò schietta nella voragine.

Quale potenza allora la sostenne e la sostiene?

O madre, tutto quello che tu segretamente le donasti e che non era conosciuto dai più: la virtù della potenza invincibile che viene dalla rassegnazione; il criterio alato della giustizia; l'armonia eroica tra la vita e la morte!

Ella apparve come sorgesse dall’ignoto del suo destino, come l’Arcangelo che intimidisce le tenebre.

Chi è stato sui campi di battaglia conosce il miracolo!


Lasciate che io vi parli di un ricordo che riunisce le fila del mio ragionamento.

Una notte, una notte proprio dell’ultimo maggio, tornavo dall’osservatorio, il più avanzato che avessimo allora su Gorizia: tornavo presso le batterie. [p. 30 modifica]

Una brigata dava il cambio ad un’altra che sopravveniva.

Sulla strada sconvolta dalle granate un reggimento s’avviava alle trincee di Oslavia.

La strada appariva brulicante alle improvvise luci dei razzi e a degli scoppi degli shrapnels, che il nemico, come consapevole del transito, inviava.

Appariva la turba armata, carica di fardelli e d’armi, curva. Il passo galoppante di qualche traino scompigliava le file. La vita umana pareva meno importante di una cosa che le rote schiacciavano. Non un grido nella notte: non un rumore non necessario, solamente qualche bisbiglio: domande ansiose, ommonimenti.

Gli uomini procedevano con apparenza angosciosa a gruppi a file che si rompevano e ricomponevano.

In un tratto, presso un bivio non riparato dal tiro nemico, le palle di una mitragliatrice austriaca sul Sabotino passavano via miagolando. Era come un tranello: una ventina di colpi, di rapidi toc toc, e poi taceva e ricominciava all’improvviso.

Un carabiniere fermava a tempo il passaggio, nel buio, con gesto che nessun profano avrebbe veduto.

Improvvisamente una granata di piccolo calibro sì avventò sibilando sulla turba e scoppiò.

Vi videro gli uomini ritrarsi in quel punto sui lati della via, come gli armenti: si vide sollevare qualche ferito e la marcia continuare.

Io andavo contro corrente: venivo da dove quei fratelli andavano.

Ed ecco, la luna, rompendo nuvole paurose, apparve rossa dietro San Floriano, lì prossimo. [p. 31 modifica]

Il paese demolito spaventevolmente dal quotidiano tiro nemico appariva contro quel rosso di nubi e di luna come un fantasma di disperazione. Il campanile smozzicato e qualche parte del castello più alta e più stranamente colpita dettero un’imagine biblica del Calvario: la più dolorosa.

In poco tempo il cielo da quella parte fu tutto come di sangue. Gli shrapnels scoppiando accendevano fiamme in forma di mani adunche insanguinate.

Per un momento allora un grido unico lungo represso sorse dalla truppa che parve anch’essa chiazzata di sangue.

Io mi fermai da un lato presso un ciglio, sentendomi, come in quell’altra notte di maggio, fra le vestigia di Roma, tremare di commozione ineffabile.

Che esercito era quello che saliva così sicuramente, senza lamenti, il suo calvario: senza consolazione di canti, con umiltà più che umana?

Che anime eran quelle che essendo purissime come quelle dei martiri santi, non avevano nemmeno l’ebbrezza di celebrare con la parola o col gesto il proprio martirio? ma anzi mute, quasi estranee al sacrificio, si trascinavano ai loro posti in quella infernale platea?

Chi le aveva educate a tanta rinunzia?

Forse una dura disciplina? No; poi che i loro superiori immediati erano fanciulli e i più vecchi eran buoni come padri!

Dunque un’idea di conquista, grande come una divinità coperta di gemme, li guidava alla vittoria o alla morte così placidi? [p. 32 modifica]

No: chè tanta serena rinunzia non si confaceva a gente bramosa.

Oh; essi invece seguivano il destino di una patria che avevano imparato a conoscere da poco; ma che avevano vista nell’atto più pio, con le braccia aperte in ginocchio, dinanzi a loro, gridare lacrimando — Oh, sorte mia, ti ringrazio poi che finalmente dopo tanto soffrire, dopo un soffrire di secoli, dopo ansie lunghe come eternità, dopo aver pianto fiumi di lacrime, dopo essere stata ferita, insultata, serva, schiava, non intesa, oppressa, io madre, io madre dall’Alpe materna, insino al mar di Sicilia, ho ritrovato finalmente i miei figli. —

Questo sapeva quella truppa umile ma forte: questo accoglieva nell'anima con una venerazione ascetica.

Venerazione ascetica, Di quest’amore — io pensavo quella notte — questa gente italiana armata ama la patria.

Venerazione ascetica. Nessun idolo è che la esalti: nessuna pompa accompagna il suo rito.

Milioni di adoranti vestiti di grigio e di verde non domandano nulla: solamente offrono in silenzio.

Quale miracolo s’è compiuto? Dunque secoli e secoli con misterioso fermento hanno reso quest’anima italiana adatta alla piena offerta, per un amore che era quasi sconosciuto!

Dunque, in questa maternissima madre, in questa sacra conchiglia di purità era cresciuta l’anima italica più bianca e più soave della perla, in un mare di lacrime, fra mille tempeste e schianti furibondi! [p. 33 modifica]

Dunque eri tu la medesima, o anima soave, che insegnasti alle turbe erranti dall’Asia come si adora il mistero, fra le finestre delle selve: eri tu stessa, che propagasti la civiltà, celata nel cuore dei legionari. Eri tu stessa che il barbaro non potè uccidere; eri tu che rinascesti nella mite umanità che il tutto bello adorava. Eri nel popolo: tu eri nel suo cuore, tu eri nello scrigno di diamante che i ghiacciai dell'Alpe eternarono quando te, madre, fecero sorgere dal mare!

O anima umile e francescana che nulla domandi; come io vedo radioso di bene il tuo destino!

Quanta possanza insuperabile con l’armi è nella tua franchezza!

Tu proba; tu rassegnata nella difficoltà!

Tu umile anche quando pronunzi il nome della madre tua!

Tu laboriosa e paziente: hai le mani fatate: e tutto ciò che tocchi si trasforma in bellezza!

Tu sei vissuta ignorata accanto al focolare e sei rimasta illibata in lunghe êre di lupi!

Tu non intesa e sospinta a branchi, hai percorso, incatenata dalla tua miseria, ma serena nella tua speranza, le vie dei miliardari, come una galeotta innocente!

Gl’ingordi re della ricchezza mondiale, sapevano più dei tuoi maggiori il tesoro che tu recavi; e ti pagavano in oro, ma non in conforto e in considerazione, perchè tu non risorgessi!

Quante volte, in quei lontani deserti della civiltà fragorosa, non hai teso l’orecchio sperando di sentire una voce che dicesse nella tua dolce lingua: È [p. 34 modifica]tempo!? — Quante volte sui mari inospitali tu, sconsolata, non hai scrutato l’orizzonte per vedere se spuntava una nave con l’arme della patria?!

Tu, così piena di doni, eri sperduta nel mondo, eri nascosta negli umili casolari, nelle capanne, nelle baite, e nei buoni casamenti. Eri presso gli ovili della tua terra e gettavi la sementa sul suolo straniero. Ed ora sei finalmente intesa: ti hanno scoperta! E si pensa, oh, si deve, si deve pensare al tuo destino; e sia pure mutato l’ordine delle cose; ma sii tu esaltata!

Chi conoscerà abbastanza la tua grandezza?!

O governatori, o maggiorenti, o pastori, o dominatori, o uomini d’arme, di pensiero, di denaro, d’arte e di scienza, muovetevi a guardarla, lasciate il sonno per meditar di continuo su questa anima candida italica che vi guarda con occhi celesti come la pervinca, anche nel fangoso botro della trincea, ma capace di farvi tremare ormai anche sotto le vostre maschere, se ne avete!

No! con lei non ci vogliono infingimenti. Bisogna andare a lei come ella è andata alla madre. Bisogna esultare nel conoscerla come ella esultò quando rialzò di terra e baciò la madre ritrovata.

Bisogna pensare a lei di continuo e meditare che, se ella ha resistito al tragico tormento di millenni e millenni, è più forte del diamante e come il diamante può incidere il cuore della più dura menzogna!

Voi uomini politici vi assiderete ancora per litigarvi o per avere sempre dinanzi l’immagine della sua purità? Io vi dico che Ella potrebbe colla sua giovinezza cacciarvi dal tempio se lo violerete! [p. 35 modifica]

Io vi dico che il suo destino deve esser pari alla sua beltà!

Il mondo ha bisogno di lei come della più nutriente potenza umana che sia sotto il sole.

Non più dunque diffidenza, non più catene, non più cinismo, non più ingordigia infelice, non più argini al commuoversi di questo amore italico che deve ormai fecondare il futuro!

Italica, o signori, è la Giustizia!

Se l’arte simbolica è barbara ed ha illuso non pochi, l’arte umana; o signori, è italiana!

I fondamenti della scienza, o sapienti, stanno chiusi nel nostro genio e nel nostro cuore geologico.

L’opera, che crea la mano di un operaio umile d’Italia, nessuna macchina tedesca potrà mai imitare!

Prepariamoci dunque a immaginare alla stregua dei fatti e del passato, con la mano sul cuore, prepariamoci a immaginare la riforma che su queste fondamenta sarà una rivoluzione, poi che non v’è strato sociale che non abbia necessità di una vita nuova che gli sarà concessa da un nuovo fattore della nostra vittoria; l'armonia della vita sociale!

Non diffidiamo del domani per certe paure d’ieri! Ogni buon soldato d’Italia può oggi stendere il vessillo della patria sulla tomba di un rivoluzionario morto sul campo di battaglia!

Italiani! Italiani, che avete ancora comoda abbastanza la vita, che avete il corpo non segnato o stronco da ferite, pensate, per Dio, che in confronto di chi patisce lassù, a’ nuovi confini, la vostra esistenza, i vostri averi sono un regalo che la patria vi fa e del quale bisogna ricompensarla! [p. 36 modifica]

Pensate che quanto più ogni soldato s’affina e s'aguzza a guisa di lama per meglio scalcare e poi rompere la cerchia nemica, più cresce il vostro dovere di innalzarvi, con l’ascesi di una vita casta, tutta dedita al domani, che aspetta l’opera assidua, sincera, febbrile di ognuno.

Pensate che il soldato d’Italia travolgerà finalmente il nemico col valore e con l’ impeto accumulati in una vigilia di martirio e tornerà: e voi dovrete guardarlo: dovrete guardare i suoi occhi di fuoco, dovrete dirgli: Io non tenni con me il superfluo, o vittorioso. Non godei se non di te; anzi questo e questo donai; questo feci; così mi sacrificai: ho diritto di abbracciarti: ho diritto di mettermi al tuo fianco per la nuova guerra, che ora la pace ci dà obbligo di cominciare: guerra splendente e geniale negli alti propositi; ma sostenuta con metodo, con assiduità costante, con l’aiuto delle più sicure scienze e delle più morali discipline....

Così parlerete al soldato che torna!

Vi saranno, forse, domani alcuni che non potranno abbracciare il soldato d’Italia per vergogna?!

Nessuna ricchezza accumulata sarà sufficente a coprire il rossore dell’infelice!

Oh, se alcuno sente la sua colpa, gli è ancora aperta dinanzi la virtù! Il sacrificio che la patria chiede non è invocato alla sua rassegnazione supina; ma alla sua intelligenza.

Ed a voi, donne d’Italia, deve esser suggerito dal buon sentimento!

Pensate, donne, che voi siete padrone di un buon terzo della volontà italiana e che, se non operate [p. 37 modifica]per questa grandezza, per questa vita nuova, che già apparisce in boccio nel giardino della patria, se la primavera dovesse mancare, pensate che voi sareste trascinate alla più dolorosa condizione di servitù; quella di sentirvi il balocco di uomini stanchi, di uomini vinti.

No! No! Per la vittoria e per la nuova guerra del dopo guerra, bisogna chiudere nei giorni la tenacità dei secoli.

Lasciamo dunque ogni riposo e ognuno, ognuno lavori, ed ami ed ami la propria virtù che nella virtù comune compierà il destino della più bella terra del mondo!

Noi siamo, o fratelli, i più felici mortali poi che siamo in un'ora che precede la luce, la luce di un giorno senza tramonto. E beato chi saluterà il suo raggiare improvviso; e beato chi affretta, con la morte sul campo, il miracolo nuovo ed atteso, poi che morendo egli non va nel silenzio passando dalle porte del rosso occidente, ma trasmigra volando fra le rose dell'Aurora novella!




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