Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte III/Capitolo XI
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CAPITOLO XI
Il potere, che io direi quasi, autocrata dei nostri arcivescovi non scemò punto dopo l’Orsini nella città di Benevento, la quale, se non più pei fatti politici e militari, ritenne almeno per le materie ecclesiastiche un primato sulle provincie napoletane. E non poteva accadere altrimenti, stante l’angusto suo territorio e l’ampiezza della diocesi, la quale si componeva e si compone tuttora dei seguenti comuni, sparsi in diverse provincie: Bagnara, Montorso, Pastene, Maccoli e S. Angelo a Cupolo coi casali Motta, Panelli, e Sciarra, S. Leucio e Maccabei, S. Marco a Monti, Altavilla, Apice, Apollosa, Bonea, Cacciano, Campoli, Castelpoto, Cautano, Ceppaloni coi casali Chianche e S. Giovanni, Cervinara, Chianca, Chianchetella, Chiusano o Puppano, Cacciano, Foglianise, Fragneto l’Abate, Fragneto Monforte, Ginestra, Grottolella, Lapio, Lentace, Mancusi, Molinara, Montaperto, Montecalvo, Montefusco, Montemiletto, Montefalcone, Monterocchetto, Montesarchio e Cirignano, Paduli, Pagliara, Pago, Pannarano, Paupisi, Pescolamazza, Petruro, Pietradefusi, Pietra Stornina, Pietralcina, Pratola, Roccabascerana, Rotondi, S. Agnese e Calvi, S. Angelo a Cancello, S. Angelo a Scala, S. Giorgio la Molara, S. Giorgio la Montagna, S. Marco del Cavoti, S. Maria a Toro, S. Maria Ingrisone, S. Martino Sannita, S. Nazzaro, S. Nicola Manfredi, S. Paolino, S. Pietro Indelicato, Terranova, Fossaceca e Arpaise, Toccanisi, Tocco, Torrecuso, Torre le Nocelle, Torrioni, Tufo, Varoni, Vitulano, Paolisi, Casalnuovo, Greci, Lesina, Poggio Imperiale, Savignano, Baselice, Campo di Pietra, Campolattaro, Campolieto, Castelpagano, Castelvetere, Cercemaggiore, Circello, Colle, Foiano, Gambatesa, Gildone, Ielsi, Limosano, Macchia Valfortore, Matrice, Monacilione, Morcone, Pietracatella, Pontelandolfo, Reino, Riccia, S. Angelo Limosano, S. Croce del Sannio, S. Giovanni in Galdo, S. Lupo, Toro, Tusara.
Gli arcivescovi che successero all’Orsini furono tutti assai benefici, e, quel ch’è più, suscitarono una bella gara nei patrizii di concorrere a fondare istituti di beneficenza e fornirli di sufficienti entrate; e, per allegare di ciò qualche esempio, ricorderò il patrizio Paolo Capobianco, il quale fondò a sue spese un ricco ospedale per gli infermi. Nel 26 dicembre 1733 fu nominato arcivescovo di Benevento il cardinale Serafino Cenci, uditore della Sacra Rota. Questi edificò nel Duomo il cappellone con le due statue di S. Gennaro e di S. Barbato, vescovi beneventani, e passò di vita in Roma ai 24 giugno 1740, durante il conclave di Benedetto XIV bolognese. Al Cenci successe nell’arcivescovado di Benevento il cardinale Francesco Landi di Piacenza, che migliorò il seminario, e aggiunse nuovi ornamenti alla nostra cattedrale. Ma quegli a cui dopo l’Orsini compete il nome di secondo benefattore di Benevento fu l’Arcivescovo Francesco Pacca, patrizio beneventano, prozio del celebre cardinale Bartolomeo Pacca, la cui memoria rimarrà pei suoi benefizii imperitura nella città di Benevento.
Questo insigne prelato, nato nel 1692, non fu addetto a verun pubblico ufficio, ma attese unicamente ai suoi prediletti studii, facendo tesoro di ogni maniera di cognizioni. E molte opere inedite si conservano di lui, nelle quali e gravità di dettato e copia di buona erudizione e sottigliezza e forza di argomenti sono da uomo dottissimo. Più di tutto però pose l’ingegno a investigare le memorie di questa sua patria, della quale compose un’istoria civile ed ecclesiastica intitolata: Saecula Beneventana; la quale opera è scritta in latino proprio ed elegante sì che ti pare quasi di leggere uno scrittore del secolo d’oro.
I romani pontefici, venuti in chiaro della sua dottrina e pietà cristiana, lo promossero a Referendario dell’una e dell’altra Segnatura, a votante della Segnatura di giustizia, a consultore dei sacri riti, a chierico di Camera, a Presidente della Zecca, e in ultimo ad arcivescovo di Benevento. Carlo Gazola asserisce che l’arcivescovo Francesco Pacca rifiutò l’onore della porpora, ma il chiarissimo nostro concittadino sig. Saverio Sorda, nei cenni che scrisse di Mons. Francesco Pacca, afferma invece che questi per le mene de’ suoi nemici non fu decorato della porpora di cardinale.
Ma, comunque ciò sia, è a ritenere per cosa indubitata che il non essere stato promosso a tale dignità non increbbe punto al Pacca, perchè ciò lo metteva in grado di prendersi moggior cura della sua patria.
Erano allora in Benevento scuole pubbliche di lingua latina, di retorica, di filosofia e di teologia nel Seminario, e nei collegi dei gesuiti e delle scuole pie. Ma con esse non si sarebbe potuto conseguire lo scopo di far rifiorire in Benevento le scienze e le lettere, senza l’efficacissimo aiuto d una pubblica biblioteca, di cui a quei tempi vedeansi ornate non pure le città principali d’Italia, ma anche le minori, come Modena, Padova, Pavia, Urbino ed altre. E a fornire appunto la città di Benevento di libreria pubblica, si adoperò sopratutto Mons. Francesco Pacca. Gli arcivescovi Toppa, Cenci ed Orsini lasciarono ad uso dei loro successori e del Seminario circa novecento volumi di libri ecclesiastici: il Pacca ne accrebbe di molto il numero coi libri che avea recati da Roma, e supplicò Benedetto XIV che gli consentisse di poter convertire ad uso pubblico i legati dei suoi antecessori. Per tal modo egli fondò in Benevento una pubblica biblioteca, aggiungendo a detti libri assai altri di scienze e letteratura, per l’acquisto dei quali profuse la somma di ducati dodicimila. E fece costruire dalle fondamenta solido e bello edilizio, dove ordinatamente furono riposti i libri, in guisa che sì potessero da ognuno comodamente studiare. E fornì alfine la libreria di alcune entrate per 1 acquisto successivo di altri libri, a seconda del bisogno, e per lo stipendio del Bibbliotecario. Gli arcivescovi Colombini e Banditi vi aggiunsero altri comodi e nuovi libri, e altri successivamente furono acquistati, dimodochè parve a tutti per lo meno esagerato il giudizio del Gregorovius, il quale affermò che, essendosi recato a visitare la nostra pubblica biblioteca, non vi trovò che una magra collezione di libri. E neanche è a tacere che in questi ultimi anni la nostra pubblica biblioteca si è arricchita di tutti i libri che costituivano la libreria privata del mio illustre concittadino, il general Federico Torre. Con tutto ciò non posso negare che ci fan difetto ancora le più importanti opere moderne, ma una tale lacuna parmi inevitabile, per essere l’entrata annuale, assai modica, da cui bisogna detrarre lo stipendio del bibliotecario, e la spesa per i minuti bisogni della libreria. Faccia Iddio che a tanta mancanza supplisca alcun altro cittadino, il quale potendo operare il bene di questa comune patria, in ciò riponga la sua gloria. E dico il bene, perchè bene non v’ha che dal sapere non derivi.
Il monastero delle Orsoline, dove le claustrali addette all’insegnamento elementare educano le fanciulle di qualsiasi condizione alle virtù civili e cristiane, fu, secondo i tempi, un’altra nobilissima e utile istituzione di Mons. Pacca, il quale assegnò 20 mila ducati di entrata alle monache Salesiane di S. Giorgio la Montagna, e sovvenne anche con liberalità senza pari alle orfane dell’Annunziata, e ai padri di S. Alfonso de’ Liguori, da lui incitati a fondare una casa in S. Angelo a Cupolo. E fece infine costruire dalle fondamenta un grande edifizio, che si disse della tesoreria, affine di allogarvi gli arredi sacri, di cui la nostra cattedrale abbondava in quel tempo, per non essere stata ancor preda della rapacità straniera. Ed altre insigni opere avrebbe certamente intraprese se più a lungo gli fosse bastata la vita; ma egli chiuse la sua mortale carriera nei 14 luglio 1873, avendo retta per undici anni appena la chiesa beneventana, e con suo testamento lasciò il suo incerto e scarso retaggio, che si componea di ducati duemila, al fratello marchese Bartolomeo, con la condizione che mandasse a termine a sue spese la fabbrica della libreria pubblica.
L’esempio dato da Mons. Francesco Pacca all’incremento de’ buoni studii in Benevento fu imitato dall’intero patriziato, che prese a coltivare con lode le scienze e le lettere, e infuse novella vita all’Accademia de’ Ravvivati, che allora prosperava in Benevento, e qui credo conveniente riportare un brevissimo cenno delle accademie beneventane.
Nell’anno 1550 fu costituita in Benevento una prima accademia col nome dei Ravvivati, la quale tolse per impresa la Fenice che dal rogo rinasce, col motto Parturiente rogo. Essa era tuttavia in fiore nell’anno 1759.
Nel 1682 ne era socio Niccolò Piperno, autore di un’opera intitolata La noce maga di Benevento estirpata da S. Barbato, che levò gran rumore a quei tempi. E nel 1698 n’era principe, come diceasi allora, Giovanni de Nicastro patrizio beneventano, e Vincenzo de Vita, beneventano, segretario.
Un’altra accademia fioriva in Benevento nell’anno 1628 e chiamavasi de’ Rozzi, e ne fu principe Cesare Maccabeo, patrizio beneventano, e tuttavia esisteva nel 1836 (Archivio storico).
D’una terza accademia detta degli Antipodi, ci fornisce notizia il conte Mazzucchelli con le seguenti parole: «l’accademia degli Antipodi fiorì in Benevento, e viene mentovata da Domenico Gisberti nella sua manoscritta istoria delle accademie d’Italia.»
E finalmente l’accademia di Santo Spirito è ricordata con onore dal giornale dei letterati dell’anno 1648 citato dal Giustiniani.
I patrizii beneventani coltivarono con qualche successo in quel tempo varii generi della letteratura e delle scienze razionali, ma soprattutto attesero con predilezione allo stu dio delle cose patrie, in cui si distinsero in ispecial guisa il Nicastro e la Vipera. Alcuni pure diedero opera allo studio dei patrii monumenti, e tra essi segnalaronsi il Verrusio nella illustrazione dell’antica epigrafia, e Mons. Giovanni de Vita, insigne giureconsulto e archeologo, che nel suo lodatissimo libro Thesaurus antiquitatum Beneventanarum trattò a lungo in diciotto dissertazioni le quistioni di maggior momento della nostra istoria patria, le quali erano state per lo innanzi accennate appena da qualche autore. Ma tra gli scrittori che in Benevento vennero in fama dalla metà del secolo XVII fino allo scorcio del seguente, quegli che acquistò maggiore rinomanza in Italia fu il celebre Antonio Cocchi. E siccome diversi storici contesero alla nostra città il vanto di avergli dato i natali, così credo utile di chiudere questo capitolo con una esatta notizia biograsica di un sì celebrato scrittore.
Per aver trascorsa il Cocchi buona parte della sua vita in Toscana, vi furono alcuni autori che giudicarono fosse nato in Mugello, d’onde era nativo il padre; ma una tale opinione fu sempre abbracciata da pochissimi, e gli stessi toscani — tanto gelosi dei loro uomini illustri — benchè grandissimi ammiratori del Cocchi, tennero sempre che nacque in Benevento. E appunto per eliminare qualsiasi dubbio sul luogo della sua nascita, mi diedi cura di verificare un tal fatto nei nostri archivi, e rilevai dal libro dei battezzati o matricola, compilato per ordine del nostro tanto benemerito Orsini, e depositato nella nostra Curia Arcivescovile, che Antonio Cocchi sortì i natali in Benevento nel 3 agosto del 1695 da Giacinto Cocchi, nato in Mugello, ma domiciliato da molto tempo in Napoli, sua patria elettiva, e da Beatrice Bianchi di Baselice, comune un tempo della provincia di Molise, ed ora della provincia di Benevento. E la data della sua nascita corrisponde a quella allegata dagli autori che ne scrissero la vita. E aggiungerò pure che i suoi tre nomi di battesimo furono Antonio, Domenico e Marino.
Tutta la vita di Antonio Cocchi fu un assiduo studiare ed operare, per cui non riuscì solo un medico sommo, per ciò che i tempi concedevano, ma addivenne peritissimo anche in altre scienze, e molto istrutto nella letteratura. Egli bramoso di conversare coi veri dotti contrasse in Firenze intima amicizia coll’illustre inglese Zeofilo Hasting, il quale lo indusse a recarsi seco in Inghilterra, ove ebbe occasione di prendere dimestichezza col sommo Newton che lo tenne in altissimo concetto, sicchè protraendo ivi la sua dimora, se ne sarebbe di molto vantaggiata la sua condizione. Ma come accadde a tanti illustri italiani, i quali, benchè colmi di onori in terra straniera, sospiraron sempre l’invidiato cielo d’Italia; così anche egli, tratto da un irresistibile impulso, fece ritorno in Toscana, accettando una cattedra di medicina teoretica nell’Università di Pisa. E dopo pochi anni si ridusse in Firenze, ove gli fu conferita una cattedra di filosofia naturale, e quivi ebbe l’agio di dar opera con indicibile ardore ai suoi studii prediletti, e coltivare simultaneamente varii generi di erudita ed amena letteratura.
In quei tempi anche nell’aurea Toscana dominava la falsa opinione che le scienze niente avessero di comune con le lettere, il che fu causa non solo dal decadimento di queste, ma della dimenticanza ancora in che giacquero opere scientifiche d’un merito segnalato; poichè è innegabile che molti lavori di scrittori rinomati, come quelli del Telesio, del Bruno, del Campanella, del Pomponazzi, del Cardano, del Tamburini, del Piazza, dello Stellini, dello Spallanzani, del Venini, del Gioia, del Tommasini e di altri autori non sarebbero or letti soltanto da qualche indefesso cercatore delle antiche glorie, se ai pregi della materia congiungessero quelli della forma. Tutti i più grandi pensatori dell’antichità si distinsero anche nelle lettere, e fu solo nei medio evo che lo scienze dovettero inevitabilmente apparire prive di una convenevole forma; poichè, come scrive il Pallavicino, quando dopo l’infelice ignoranza di molti secoli cominciarono per opera di Carlo Magno ed altri generosi principi a ripullulare le scienze, esse non potevano essere accolte da altra ricoglitrice che dalla favella più barbara e più disadorna. Ma il Cocchi fu uno dei primi scrittori che conobbe quanto sia dannoso il principio che la bella forma niente influisca sul progresso delle scienze speculative e naturali, e quindi seppe assai più di ogni altro suo coetaneo congiungere nei suoi scritti scientifici la profondità e la varietà della materia con la grazia e venustà della forma, per cui le migliori sue opere furono noverate fra i testi di lingua.
L’imperadore Francesco I lo nominò suo antiquario, e lo fece dichiarare professore emerito di notomia nell’Università di Pisa senza obbligo alcuno di residenza, e coll’annuo onorario di 160 scudi; per cui visse sempre negli agi, e il gran duca gli commise di dare ordine ai libri ed ai museo della biblioteca Maglia Bechiana. Egli passò di vita in Firenze nei 1748, e fu sepolto senza monumento nel famoso tempio di S. Croce.
Le sue opere migliori sono: 1. Dissertazioni sull’uso esterno appo gli antichi dell’acqua fredda sul corpo umano; 2. Discorsi toscani su vari argomenti di medicina, e in lode di alcuni uomini celebrati, raccolti in Firenze nel 1761; 3. Il trattato dei bagni di Pisa, e i consulti medici.