Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte III/Capitolo VII

Capitolo VII

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CAPITOLO VII.


Appena fu trasferito ad altra residenza il governadore Castellano Nicola Bonafede, che molto avea contribuito a spegnere gli antichi rancori dei due partiti, tornò la discordia a imperversare tra i cittadini. Per questo il pontefice Alessandro VII spedì in Benevento nel giugno del 1502 Giovanni Botonto da Viterbo, suo famigliare, con la qualità di Commissario contro i sediziosi, i quali al suo arrivo presero incontanente la fuga, onde in breve volgere di tempo fu ridata ai beneventani la pace primiera.

In quel tempo il regno di Napoli era stato diviso tra Spagnuoli e Francesi, donde accadde che, essendo nata aspra [p. 164 modifica]guerra tra quei due popoli, molti napoletani refugiaronsi in Benevento. Or questo repentino aumento di popolo straniero, in una città divisa da fazioni, era per mettere di nuovo a repentaglio la tranquillità recentemente acquistata, se il papa Giulio II, successore di Alessandro dopo il brevissimo pontificato di Pio III, non avesse con iterate lettere esortati i beneventani a concedere non solo ricovero ed ospitalità ai napoletani, ma a largheggiare con essi di cortesia e liberalità.

Nell’anno seguente fu nominato governadore e castellano di Benevento Marco Antonio Regino, decano della chiesa di Feltre. Questi, dopo che mandò a confine i violatori della pace, prese a compilare un processo contro De Gregorio Saullo, Bartolomeo Mascambruni, Antonio Masone e altri patrizii beneventani, per aver data malleveria pei proscritti. Un tal fatto esacerbò molto i cittadini per la tema che, posti al bando tanti illustri ottimati, fosse un’altra volta lasciata in preda la città alle intestine discordie, per lo che ne mossero gravi lagnanze al papa. E conoscendo questi che da piccoli principii sogliono soventi volte derivare gravi calamità, fece intendere al Regino che dovesse testo desistere dalla intrapresa inquisizione. Ma ciò non fu bastevole a conseguire il fine bramato, e siccome principiavano di nuovo a levare il capo gli antichi partiti, così, a comporli in pace, il pontefice mandò in Benevento nell’aprile del 1507, come governadore e castellano, Roberto Iebaldino vescovo di Civitate, il quale, con la qualità di commissario, nel luglio dell’anno precedente, erasi procacciata la benevolenza dei discordi cittadini.

A costui, che tenne il governo della città di Benevento con molta prudenza e integrità sino all’anno 1509, successe Andreoni degli Artusini di Ravenna, il quale nel 1511 fu trucidato dal patrizio Ettore Sabariano o Sabriano, uomo feroce e capo di parte, come lo appella Paolo Giovio nella vita di Leone X. Della causa di un sì atroce reato non fa menzione la istoria, ma la tradizione, che non di rado ne adempie le lacune, ha tramandato di generazione in generazione sino ai nostri giorni che l’uccisione del [p. 165 modifica]governadore Andreoni fosse stata una vendetta del Sabariano, per aver quegli osato contaminare il suo talamo coniugale. 1

Nel marzo dell’anno 1513 fu acclamato alla cattedra pontificale Giovanni dei Medici, fiorentino, col nome di Leone X, il quale con rara benignità significò nel medesimo giorno con lettere la sua elezione ai beneventani. E sebbene si palesasse molto severo riguardo al fuggiasco Sahariano, non lasciando intentato alcun mezzo per averlo in sue mani, pur tutta volta, mosso dalle preghiere del cardinale Sisto Gara della Rovere arcivescovo di Benevento, con suo breve del 12 ottobre 1513, fu largo di perdono a chiunque avea dato ricovero al fuggitivo. Il pontefice Leone X, giudicando essere indispensabile destinare al governo di Benevento un uomo d’animo risoluto, nominò nel 7 luglio 1515 governadore di Benevento Maso di Luca degli Albigi, fiorentino, uomo esperto nei pubblici affari, e assuefatto a vincere le difficoltà con la fermezza de’ propositi.

Questi trovò la città sottosopra per avere alcuni faziosi ucciso Francesco Doto di Trevi Vicario, o sia giudice della città, e ritenendo necessario il rigore alla sicurezza pubblica, per riuscire nel suo disegno, stipulò a Benevento nel 27 agosto 1515 un concordato col quale egli e Raimondo di [p. 166 modifica]Cardona, vicerè di Napoli, convennero di cooperare vicendevolmente alla cattura dei sediziosi e dei malfattori.

E dopo lunghe indagini si venne a capo nel maggio del 1516 di far prigione in Napoli il fuggiasco Ettore Sabariano, il quale fu poi, a richiesta di Leone X, trasferito in Benevento nel giorno 10 dello stesso mese. Il Sabariano sulle prime negò il reato appostogli, e perdurò nel niego anche dopo la tortura, ma poi con la minaccia di maggiori tormenti gli si strappò di bocca la fatale confessione, dopo di che fu condannato al taglio del capo, e la sentenza si eseguì in un giorno di mercato sulla piazza principale della città.

Indi il governadore de Luca, per i dritti concessogli dal concordato, si fece a chiedere agli eletti della città di Napoli la consegna di alcuni delinguenti. E poichè coloro presero tempo a risolvere, egli, fornito com’era d’animo audace, fece minaccia di levare a Napoli la così detta concessione delle farine. E a comprendere la forza di questa minaccia non debbo omettere che da tempo il frumento che la città di Napoli comprava nella Puglia riduceasi in farina a Benevento, per la comodità dei molini posti lungo le acque dei fiumi Sabato e Calore; sicchè coll’usare una tale minaccia potè conseguire felicemente l’intento. E mirando il governadore de Luca con ogni suo potere a far rifiorire la tranquillità in Benevento, interpose i suoi uffici presso Leone X, per impetrare il perdono e l’obblìo d’ogni ingiuria in favore dei complici dell’omicidio di Francesco Doto, e solo coll’assoluzione di costoro fu possibile al governadore di sedare le discordie dei cittadini.

Ma la pace non fu durevole, imperocchè varii fuggiaschi di Benevento, risedenti nel regno, ordivano delle trame in danno della lor patria. Il più audace di essi era Paolo Scaltaterra, a cui Leone X fece grazia per il ricovero dato ad Ettore Sabariano. Quel facinoroso, dichiaratosi apertamente ribelle alla Santa Sede, si fece capo di un drappello di napoletani, e accordatosi con un tal Antonio di Melfi, nepote del barone di Montefalcione, in una notte del mese di aprile del 1517, [p. 167 modifica]diede la scalata alle mura della città, ed aperta per forza di armi una porta, s’introdusse in Benevento con qualche centinaio di seguaci. Niun cittadino però credette conveniente di favorire i suoi disegni, per cui dopo di aver derubate le case di alcune distinte famiglie, senza risparmiare quella del Vescovo di Ascoli, Vicario dell’arcivescovo Farnese, non trovando modo di occupare la rocca, uscì dalla città con assai ricco bottino. Al pontefice increbbe sopramodo una tanta audacia, e ingiunse al governadore Maso di far uso di tutto il suo rigore contro i ribelli, e di privarli dei loro beni. Maso con singoiar prudenza, dopo di aver secondati i desideri del papa, tentò di richiamare gli esuli nella città, con questo però che non osassero più turbare in modo alcuno la quiete dei cittadini, e a tale proposta di buon grado assentirono tutti. E quindi nel 29 aprile dello stesso anno 1517 fu compilato un solenne istrumento col quale si statuì che, messa in oblio ogni antica offesa, i cittadini avrebbero accolti gli esuli come fratelli. E per tal modo, rimessi i fuorusciti nella città, furono sopite le turbolenze nelle più cospicue famiglie.

A Maso successe nella Rettoria di Benevento Paolo Biondo, figlio del chiarissimo storico Flavio Biondo. Questi nel decembre del 1521 ebbe notizia che il borioso Salvadore de Gregorio, il quale possedeva il feudo di Villafranca, a lui trasmesso per lungo ordine di antenati, dava rifugio in una sua rocca ai malfattori e ribelli della città. E non potendo indurlo a desistere da siffatto abuso, e anzi vedendo che il de Gregorio, prendendo a scherno i suoi ordini, attendeva con ogni suo sforzo a fortificare la rocca del suo feudo, la cinse di vigoroso assedio, per modo che dopo pochi giorni cadde in sua mano. Ma oltre un tal fatto niente più di notevole narrano le cronache del governo del Biondo La tendenza alla ribellione, malgrado i tanti inutili tentativi, non cessò dei tutto in Benevento; giacché un tal Antonio Mascambruno, messe insieme alcune bande raccogliticcie, tentò di occupare per forza la città, e non gli sarebbe fallito il successo, se Gaspare Mascambruno, anteponendo la [p. 168 modifica]carità di patria all’amore pei suoi congiunti, non avesse strenuamente difesa la città con la morte di non pochi dei seguaci di Antonio.

La tranquillità di Benevento non fu per qualche tempo turbata dai cittadini divisi in fazioni; ma i memorabili fatti politici che dal 1525 in poi accaddero in Italia apportarono nuove perturbazioni, dando luogo a un momentaneo cangiamento di governo nella città di Benevento. L’imperadore Carlo V, dichiaratosi ostile alla Santa Sede per ragioni politiche, e specialmente per l’avidità di aggiungere ai suoi stati anche l’Italia, invase il regno di Napoli, occupando anche la città di Benevento; la quale ebbe a sopportare inestimabili danni per causa di settemila rapaci soldati spagnuoli che per due mesi vi fecero dimora.

Però non trascorse assai tempo che gli Spagnuoli, vedendosi in odio ai cittadini, posero in abbandono la città di Benevento, la quale fu retta novellamente dalla Santa Sede. E benchè in appresso gli stessi spagnuoli tentassero di rioccuparla, danneggiandola con le artiglierie, pur tuttavia ne deposero indi a poco il pensiero, scorgendo che i cittadini detestavano la straniera dominazione. Un tal fatto è omesso anche dagli storici che narrarono prolissamente i fatti della vita di Carlo V, come il Giovio ed il Robertson, ma è accertato da documenti autentici, la cui fede non può essere attenuata da chicchessia. E in tale occasione il pontefice Clemente rese grazie ai beneventani della loro fedeltà alla Santa Sede con una lettera di cui conservasi copia nell’archivio della nostra città. L’avversione dei beneventani per la Signoria Spagnuola, quantunque l’imperadore Carlo V avesse confermato alla città di Benevento tutti i più estesi privilegi, di cui fu dotata nel tempo della occupazione di Carlo di Angiò, e avesse decretato che le fossero restituiti gli antichi confini, fa chiara fede che essi abbonarono sempre la dominazione straniera. E infatti prima e dopo la battaglia di Canne, i Beneventani rifiutarono l’alleanza di Annibale, perchè straniero; difesero eroicamente il patrio suolo contro gli eserciti di Carlo Magno, di Pipino, di Totila, di Roberto [p. 169 modifica]Guiscardo, di Costante imperadore di Oriente, di Federico re di Svevia e di altri; si mostrarono avversi a Carlo d’Angiò, ebbero cara la memoria di Manfredi, re italiano, e tennero a vile le più lusinghiere offerte per non riconoscere la dominazione spagnuola; e per lo contrario, durante il lungo perirono della dominazione pontificia, aderirono sempre alle aspirazioni dei re di Napoli che Benevento facesse parte dei loro stati. Epperò io credo che l’odio il quale nutrirono in tutti i tempi i beneventani per lo straniero attesti chiaramente che in cima dei loro pensieri fu sempre la libertà civile, e in un tal sentimento vivissimo, che giammai venne meno nelle maggiori avversità, debbe ravvisarsi, se non vado errato, la più nobile prerogativa del popolo beneventano.

In quel tempo si ridestarono gli antichi rancori tra i due famosi partiti, i quali trascesero ad ogni eccesso, funestando di stragi la città2; cosicché parvero in Benevento [p. 170 modifica]redivivi non dirò già i Bianchi e i Neri di Firenze, per non agguagliare alle grandi fazioni le piccole, ma gli esosi partiti dei Montecchi e Capuleti, che più di due secoli innanzi furon causa di tanto sangue cittadino che si sparse nella città di Verona.

E in tale occasione varie cospicue famiglie di Benevento si recarono altrove, e tra esse si annovera la famiglia detta Geremia, che in origine non era che un ramo della celebre casa Geremei di Bologna, la quale disputò per lungo tempo alla famiglia dei Lambertazzi il dominio della città, e i colti lettori non ignorano che le dissenzioni civili di quelle due celebri famiglie fornirono argomento a romanzi e drammi di autori non oscuri.3


[p. 171 modifica]Nè lo zelo di Clemente VII fu bastante ad attutire gli odii delle due fazioni, senonchè il cappuccino padre Ludovico Marra dei duchi della Guardia nel 1530 diede opera efficace alla conciliazione, e predicando calorosamente non solo nella città, ma anche nelle campagne, non gli fallì di comporre in pace i divisi cittadini, e la concordia fu celebrata con una festa cittadina, e tramandata ai posteri con pubblico istrumento del 28 febbraio dello stesso anno. Il bellissimo quadro che ritrae un tal fatto, dal convento dei cappuccini — oggi trasformato in carcere con l’attigua chiesa passò, dopo la soppressione degli ordini religiosi, a ornare, una sala del nostro municipio.

E a perpetuare con maggiore solennità la memoria di un tale avvenimento fu incisa, in un marmo di Porta Aurea, la seguente iscrizione, riportata dal Vipera e dal de Blasio.


CONCORDIAE BENEVENTI
LUCE MARTII V. FALCIFERO SACRA MDXXX.
IN DIVI FRANC. DELUBRO
CELEBRATO PRIUS ULTIMA FEBRUARII
FRATERNO FAEDERE
HIERONJMUS DE BENE IN BENE DIOMEDEAE URBIS
MODERATOR FACTIOSORUM PACEM
QUOD BONUM FAUSTUM FELIX FORTUNATUMQUE SIT
MAXIMA TOTIUS POPULI LAETITIA
QUAM FELICISS. COMPOSUIT.


E il comune di Benevento eresse a proprie spese nella chiesa cattedrale un altare alla Vergine, e lo fornì di un annua entrata, e quell’altare prese il nome di altare della pace, come leggesi nella iscrizione che vi fu incisa nel 1693, allorché esso fu ricostruito, dopo che il tremuoto del 1688 ebbe diroccato l’antico altare. E il Borgia ritiene che da un tal fatto prese origine il motto concordes in unum S.P.Q.B. che leggesi nella fascia che circonda lo scudo dell’arma della città di Benevento, e che non vedeasi nei tempi che precedettero la pace tra le due celebri fazioni.

[p. 172 modifica]Inoltre il Comune per attestare all’ordine dei cappuccini, assai benemerito in quel tempo del popolo italiano, la Sua gratitudine per aver conseguito, mediante gli sforzi di un religioso di quell’ordine,

«La da tant’anni lagrimata pace


divisò d’invitare i capi dell’Ordine a fondare nella città, o in qualche sua borgata, un convento, per addolcire i costumi del popolo, educandolo alla pietà cristiana. Il terreno fu acquistato dal Municipio nella contrada che ora si domanda Pacevecchia, in cui, durante il ponteficato di Paolo IV, fu edificato il convento e la chiesa col titolo di Pace, a ricordanza non solo della pace civile di Benevento, ma altresì della memoranda pace seguita in quello stesso tempo — con indicibile allegrezza in tutti gli stati cristiani — tra le corone di Spagna e di Francia. Ed è fama che la prima pietra dell’edificio vi fosse posta dal celebre letterato e poeta Giovanni della Casa che era in quel tempo Arcivescovo di Benevento.

Ma siccome in processo, di tempo, per essere i dintorni della città infestati dai banditi, non parve più sicuro un tal luogo ai cappuccini, così nell’anno 1595 sondarono essi un nuovo convento con l’attigua chiesa dal titolo di Santa Maria della Sanità. Il nuovo terreno, comprato da un tal Giovanni Mariella, distava di piccolo spazio dalla città e si diceva S.a Croce per una chiesetta che era ivi, la quale tolse siffatta denominazione.

Per qualche tempo niuno osò di riaccendere novellamente gli odi dei due partiti, e tentare altre divisioni tra i cittadini, senonchè nel 3 luglio dell’anno 1534 alcuni ribelli con a capo un tal Fracassa, uomo plebeo, s’introdussero a mano annata nella città, con animo di ricostituire quella delle due fazioni in cui prevaleva per numero la classe popolana. Ma i beneventani non si fecero adescare dalle lusinghe di quell’ignobile facinoroso, ma ricordevoli della santità dei patti, diedero concordemente di piglio alle armi, e traendo contro i sediziosi ne uccisero la maggior parte, e in tal guisa la [p. 173 modifica]città fu liberata dal concepito timore di veder ridestarsi le antiche discordie.

Intorno alla prima metà del secolo XVI fu la città di Benevento illustrata da tre uomini insigni, il cardinale Dionisio Laurerio, il giureconsulto Bartolomeo Camerario ed il letterato Niccolò Franco, e per essi Benevento avanzò in fama di dottrina ogni altra città del mezzodì d’Italia. Laonde mi parrebbe quasi di voler detrarre alle più solide glorie della mia patria, se non mi facessi a discorrere alquanto della vita e dei preclari meriti di quei tre celebri cittadini, che onorarono in quel tempo non pure il loro natio paese, ma l’intera Italia.

Dionisio Laurerio, Generale dell’Ordine dei Serviti, nacque in Benevento sullo scorcio del secolo decimo quinto. Egli era versatissimo in ogni genere di scienza, e la fama della sua dottrina e delle altre belle doti che l’ornavano lo tolsero dai tranquilli studii, e dalle uniformi cure del chiostro, poiché il pontefice lo nominò in prima Arcidiacono di Benevento, sua patria, la quale dignità egli ritenne in tutto il corso della sua vita, e poscia lo elesse supremo inquisitore in Roma. Ma per essersi in seguito estesa la rinomanza del suo sapere e della sua singolare prudenza oltre l’Italia, il re d’Inghilterra lo deputò suo ambasciatore a Clemente, il quale, pei suoi buoni uffici, non si dichiarò ostile a quel monarca.

Era a quel tempo arcivescovo di Benevento il cardinale Alessandro Farnese, e un giorno narrasi che il Laurerio, discorrendo con esso alla libera, gli disse con molta gravità che egli sarebbe sicuramente asceso al pontificato. E il cardinale, ciò udendo, entrato in una certa speranza per questi presagi, lo abbracciò come fratello, e toltosi il berretto rosso, lo adattò sul capo di Laurerio, dandogli in tal modo a divedere che egli forse era destinato a insignirlo di una tale dignità. E infatti appena fu eletto papa col nome di Paolo III, ricordevole della sua promessa, deputò il Laurerio come suo legato a Giacomo re di Scozia, affine di partecipargli la nuova del generalo concilio che dovea essere tra breve convocato; e [p. 174 modifica]poscia lo promosse a quell’alto ufficio, mandandogli il cappello cardinalizio, che il Laurerio ricevette dalla mano di Pier Luigi Farnese, duca di Parma e di Piacenza. In appresso lo nominò Cardinal Prete col titolo di S. Marcello, e, a significargli in quale stima lo avesse, gli conferì la carica di vescovo di Urbino e di legato di Terra di lavoro.

Il Laurerio prima di essere assunto alla dignità di cardinale avea insegnato filosofia, matematica e teologia in Perugia, Bologna e Roma, e predicato nelle principali città d’Italia, acquistando fama di uno dei maggiori oratori sacri dei suoi tempi, e però, a malincuore, dopo che indossò la sacra porpora, pose in abbandono tali esercizi che gli aveano procacciata in tutta Italia una sì bella nominanza.

Ma sebbene coll’ascendere alle supreme dignità ecclesiastiche, avesse dovuto il Laurerio mutare l’antico tenor di vita, e modificare alquanto la semplicità dei suoi costumi, pur non ostante ritenne sempre il governo dell’Ordine religioso, di cui da giovinetto avea vestito l’abito, e al quale avea posto grandissimo amore.

Egli morì in Roma ai 17 settembre del 1542, e fu sepolto nella chiesa di S. Marcello. Le più minute notizie della vita di Laurerio leggonsi nel Filiuccio e nel Gianio, che compilarono gli annali dei Serviti, in Andrea Vittorelli e nel Ciaccone, che scrissero le vite dei pontefici, nel Cabrera e nella Cronologia di Mario della Vipera.

Nell’anno 1497 sortì i natali in Benevento Bartolomeo Camerario, primo fra gli interpreti del dritto feudale, a cominciare da Andrea d’Isernia. Frutto degli assidui suoi studii fu la correzione dell’opera di Andrea d’Isernia, guasta dalla incuria degli amanuensi, che venne da lui eseguita coll’aiuto di 30 codici raccolti con somma cura, e in cui cercò di seguire l’edizione tedesca.

Sparsa ovunque la fama della sua gran dottrina, fu chiamato in Napoli, ove con larghi assegnamenti dettò lezioni di dritto feudale, e fu nominato Presidente della Camera Summaria per le cause fiscali. Ma divenuto avverso al Vicerè Pietro Toledo, si recò in Ispagna da Carlo V [p. 175 modifica]che lo astrinse a far ritorno in Napoli con la qualità di Conservatore del regio patrimonio, il quale ufficio sovrastava in quel tempo a quello di Presidente della Camera della Summaria, e nel 1541 fu poi nominato luogotenente della R. Camera.

Nel 1551 trasse a Parigi, ove da Enrico re di Francia, nemico di Carlo, fu elevato alla dignità di senatore del regno, ed ivi attese agli studii di Teologia, pubblicò nel 1556 un’opera sul digiuno e sull’orazione, e un’altra sulla Grazia e libero Arbitrio, per combattere le eresie prevalenti in quel tempo, e, come è fama, tenne anche pubblica disputa coll’antesegnano della riforma il celebre Calvino.

Indi tornò in Roma, bramoso di chiudere i suoi giorni nell’alma città, come egli scrisse, principio e termine del mondo. In Roma ebbe grande servitù col pontefice Paolo IV, che lo nominò suo consigliere e Cameriere segreto, e poi Commissario generale dell’Esercito pontificio e Prefetto dell’Annona della città, e infine governadore. Egli allora colmo di onori e di lucrosi assegnamenti pubblicò la principale delle sue opere, cioè: Repetitio ad L. Imperialem de prohib feudi alienat per Feder, lezioni dettate nella R. Università di Napoli, e un’opera teologica sul Purgatorio che fu dedicata in attestato di gratitudine al pontefice.

Il Camerario, giudicato il primo giureconsulto del suo tempo, trapassò nel gennaio dell’anno 1564, e fu sepolto nella cappella dei Colonna nella chiesa dei SS. Apostoli.

Niccolò Franco nacque in Benevento da ignobili ma onesti genitori nel 1505, secondo il Tiraboschi, e non già come ritengono altri scrittori nel 1515, e ne porge argomento il Franco medesimo, il quale nell’anno 1531 scriveva con molta libertà al re Francesco I di Francia, al principe di Melfi, a Mons. Leone Orsini Eletto di Fregius, al Duca e alla Duchessa di Urbino, e ad altre persone di elevato lignaggio. E non pare verosimile che in età ancora tenera di sedici anni si procacciasse tanto favore e tanta confidenza dei grandi.

Fu esimio cultore non pure delle lettere latine e italiane ma anche delle greche. Tradusse in ottava rima l’Iliade di Omero, e la sua versione comincia col verso [p. 176 modifica]

«L’ira immortal del figlio di Peleo»


È inedita, e l’originale di mano propria del Franco era nel passato secolo nella libreria Albani in Roma.

Ad imitazione di Luciano scrisse piacevolissimi dialoghi in cui disacerbava il suo livore per le ingiustizie sociali. Emiliani Giudice nella sua istoria della letteratura italiana cosi giudicava i dialoghi del Franco. «I capricci del Bottaio e la Circe del Gelli, i discorsi sugli animali e l’asino d’oro del Firenzuola parvero forme di comporre nuovissime ai loro contemporanei, levarono gran rumore, e in terreno straniero produssero bellissimi frutti. I due scrittori si proposero uno scopo filosofico, che avrebbero ottenuto più agevolmente se avessero vestito i pensieri di uno stile meno artificioso, e preferita la energia della lingua viva alla loquacità accademica. Difetto che è meno apparente nei dialoghi di Niccolò Franco, il quale se in quanto alla purità e proprietà dei vocaboli non è paragonabile ai due fiorentini, si fa leggere con meno ripugnanza per la disinvoltura dello stile e con utile maggiore per le allusioni alla politica, agli avvenimenti, ai costumi e alla letteratura dei suoi tempi.»

L’Aretino, prima suo amico, e poi fierissimo avversario, non desisteva mai di molestarlo. Come è fama, l’Aretino erasi molto giovato degli scritti inediti del Franco, pei quali era venuto in voce di letterato, e per questo n’era stato profuso lodatore nelle sue epistole volgari. Il Franco avea scritto contro l’Aretino in Venezia varii satirici epigrammi, ed una lettera all’invidia, oltre molti scritti col titolo «Le tristizie di Aretino.»

Fu Niccolò Franco fra i principali sostenitori dell’accademia degli Argonauti, e dopo Bernardo Tasso, che ne avea dato qualche saggio, mise in voga la poesia marinaresca. I sonetti marittimi del Franco sono bellissimi, e se ne leggono parecchi nella raccolta del Mazzoleni. In Roma, ove trascorse gli ultimi anni, godeva alta fama, e usava domesticamente con prelati, principi e cardinali, ai quali i suoi arguti detti e le sue maniere ingenue riuscivano carissime.

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Ma forse la molta sua franchezza e la soverchia vivacità dell’ingegno il trassero a morte. In Roma fu nel 1569 ritenuto autore d’un famoso libello. Si procedette alla disamina del fatto con le forme giuridiche, e Niccolò Franco fu dannato nel capo. Le intercessioni dei grandi non furono efficaci a mitigare il rigore dei giudici, i quali si mostrarono inflessibili, senza darsi cura di ben ponderare le prove sulle quali era fondata l’accusa, la quale trasse origine principalmente dalla malignità dell’Aretino.

niccolò francoIl Franco, a notte alta, coperto di una lunga veste nera, fu impiccato al lume dei torchi. Negli ultimi momenti che precedettero la esecuzione della sentenza il Franco parve del tutto uscito di senno, e si aggirava ripetendo «Come Niccolò Franco alle forche?» ma tosto parve rassegnarsi al suo terribile fato per le pie insinuazioni del suo confortatore, il cardinale Aldobrandini.

Fu rimpianta generalmente la sua morte, e giudicata ingiusta da tutti, non avendo nè i giudici usata alcuna benignità alla vecchiezza del Franco, al suo merito, e al suo novello tenore di vita, affatto diverso da quello della sua giovinezza; nè il pontefice fatto uso del suo dritto di grazia.

È fuori dubbio che il Franco ebbe da natura bellissimo ingegno, e che fu ai suoi tempi un esimio letterato. Sentiva molto innanzi nella italiana favella, ove tolse a modello i più rinomati scrittori. Però il suo stile dà non di rado nel concettoso, nello scurrile e nel gonfio, e non è quindi immune dei molti vizii pei quali è famoso il secolo decimo sesto.

[p. 178 modifica]Fu lodatissimo in vita e in morte. Il nominano con molto onore Torquato Tasso nel suo dialogo sulla bellezza, Pietro Giannone nella Istoria civile del regno di Napoli, il Parini in uno dei suoi capitoli berneschi, e tanti altri illustri scrittori che sarebbe inutile enumerare. Solo non voglio tralasciare una graziosa ottava di Speroni Speroni, riportata dal Tiraboschi, la quale è diretta a una tal Porzia vagheggiata dal Franco. Essa è la seguente:

«Porzia gentil, Messer Niccolò Franco
«È un gentil uomo pien di cortesia,
«Bello come son io, o poco manco
«Figliuol di Febo e della poesia,
«Ed ebbe voglia anch’ei di nascer bianco
«Ma vide in quel color non riuscia.
«Tutto è bel, tutto è buon, tutto è modesto,
«Tutto di grazia, e di virtù contesto.

L’egregio Carlo Simiani scrisse tre anni or sono una diligentissima vita di Niccolò Franco, e imprese una seconda edizione delle sue opere che illustrò con dotte note. Io non posso dividere tutte le opinioni del sagace scrittore, benché convengo che il suo lavoro sia stato frutto di lunghi e serii studii, e mi duole di aver dovuto notare anche nei giudizii dati sul Franco la consueta tendenza degli scrittori dell’Alta Italia o a non riconoscere, o ad attenuare di molto il merito degli scrittori meridionali. In quello scritto affermasi che il Franco era privo di soda coltura, e pure il Franco lasciò tra le sue opere inedite la traduzione in ottava rima dell’Iliade di Omero, di cui si avvalse il Monti nella celebrata sua versione. E basterebbe una tale opera per accertare la profonda ed estesa coltura classica del Franco, di cui con ragione scrisse il de Nicastro, autore patrio «non tantum etruscae ac latinae verum etiam graecae linguae peritia clarissimus effulsit.» E neanche trovo esatto che il Franco acquistò fama per la sua Priapea, raccolta di circa 200 sonetti, poiché i suoi scritti più lodati; per cui suonò alto a quei tempi il suo nome, [p. 179 modifica]furono i sonetti marinareschi, unici nel loro genere, e lodatissimi anche ai nostri giorni, e più ancora i suoi dialoghi satirici, a imitazione di quelli del Luciano, che sono da ritenere per i più pregiati dialoghi che vanti l’Italia dopo quelli del Tasso e del Leopardi. Ed è arbitraria poi l’opinione, o almeno sfornita di prove storiche, che il Franco fosse stato dannato a morte per decreto del pontefice Pio, mentre egli fu invece giudicato e condannato da un tribunale regolare; a base di prove incerte, per accusa di libello infamatorio contro il Pontefice. E anzi si crede da taluni che il libello consistette in queste parole trovate affisse nelle latrine Vaticane: «Papa Pio V, mosso a compassione per tutto quello che ha sullo stomaco, eresse – nobile monumento – questa latrina.» Ed è falso pure che il pubblico rimase quasi indifferente all’annunzio della nefanda morte del Franco, perchè si levò unanime da tutte le parti un grido di riprovazione per un tanto e sì ingiustificato rigore.

Le opere inedite del Franco sono: – Il peregrino— L’Isabella in versi latini — La traduzione dell’Iliade di Omero.

Le stampate poi, oltre le già accennate, sono: - Rime diverse — Ottave amorose diverse — Dialogo della fortuna – Epistole volgari – La Filena, romanzo – Il duello - Le cento novelle - Utile o danno della stampa – Prediche – Vite dei poeti moderni.


Note

  1. Dalla tradizione ho desunte alcune particolarità del fatto, che sanno quasi di favoloso, ed io le accennerò ingenuamente in questa nota nel modo stesso che le appresi nella mia prima giovanezza dalla bocca di taluni vecchi degnissimi di fede, di cui serbo cara e venerata memoria.
    In un bel mattino di primavera alcuni agricoltori che traevano alla campagna per attendere ai loro cotidiani lavori, uscendo di Porta Somma, vedeano con istupore aperta la metà della finestra della stanza da letto del governadore Andreoni, e la sua testa, coperta del consueto berrettino, stare immobile nel vano della stanza a un passo dalla finestra. I contadini a quella vista si levavano rispettosi il cappello, ma l’Andreoni non pareva badare al loro soluto. Intanto essendo trascorso assai tempo senza ohe il governadore avesse o mutata attitudine, o dato altro segno di vita, i suoi famigliar!, sospettando di qualche sciagura, penetrarono senza riguardi nella sua stanza, o trovarono con raccapriccio il suo cadavere collocato in guisa da vedersene in lontananza solo il cocuzzolo dai passanti.
  2. Un mio amico mi fece dono, pochi anni or sono, di un vecchio manoscritto di autore ignoto, roso in parte dalle tignuole, che trattava delle discordie civili di Benevento, e ivi lessi un fatto atrocissimo che mi farò a narrare, sanza però mallevarne l’autenticità, per dare un’idea ai lettori delle nefandezze commesse dai due partili. In un punto delle mura della città che divideva le due fazioni della rosa bianca e della rosa rossa, facea dimora un’avvenente fanciulla, la quale, presa d’amore per un giovane del partito contrario, che abitava colà presso, solea di tanto in tanto dargli la posta in un vicoletto segregato, accosto alla sua casetta. Ma una sera, non vedendolo comparire nell’ora prefissa, si fece a un piccolo balcone che dava su una strada suburbana, e vide poco lontano levarsi in alto una fiammata, e distinse cop fusamente alcune persone in cerchio intorno a un fuoco. La fanciulla udendo

    «Voci alte e sioche e suon di man con elle


    si pose in ascolto, e parendole tra quei gridi discordi dì raffigurare la voce del suo amante, come dissennata, uscì sulla strada, e fece qualche passo verso quel fuoco. Uno di quegli uomini allora, avendola adocchiata, le corse incontro, e sollevatola di terra, la trasse ove erano raccolti in cerchio i suoi compagni, i quali fecero festa in vederla, e senza punto commuoversi alle disperate sue strida, l’arsero viva insieme al suo amante. Quei feroci, avendo avuto notizia degli amori di quel giovine sventurato con una donzella del partito avverso, e ritenendo violato por un tal fatto uno degli articoli delle loro inumane costituzioni, tennero d occhio il giovine in quella sera, e coltolo nell’atto che traeva all’abitazione dell’amata fanciulla, dopo averlo ferito di coltello, lo buttarono nel fuoco insieme all’imprudente donzella, più infelice, ahi quanto! della Giulietta dei Capuleti resa immortale nei versi del più gran tragico del mondo.

  3. Defendente Sacelli scrisse un romanzo intitolato: «I Lambertazzi e i Geremei» il Cocchetti e il Prudenzano composero il primo una tragedia e l’altro un dramma sullo stesso argomento. Nel fascicolo VI anno VIII del giornale Araldico Geneologico-Diplomatico che si pubblica in Pisa, furono non è molto pubblicate le notizie istoriche della casa Geremia o Geremei dal comm. G. B. di Crollalanza, che le desunse da alcuni manoscritti di autori beneventani, i quali si conservano nella Biblioteca Nazionale di Napoli, e io dal suo lavoro desumo i seguenti fatti.
    Quando Carlo d’Angiò mosse al conquisto del regno di Napoli fu seguito non solo dai Guelfi di Toscana, ma anche da quelli di Lombardia e di Bologna, ed essi ebbero gran parte nella battaglia di Benevento. In quel tempo i Guelfi di Bologna erano guidati dai Geremia o Geremei, i quali presero stanza in Benevento, trovando quivi una sede più tranquilla della loro patria agitata dalle fazioni. Il capo stipite dei Geremia o Geremei di Benevento fu un tal Giuliano, figlio di Geremia Geremei, il quale tenne un grado distinto nell’esercito di Carlo d’Angiò, e conseguì dal re feudi e poderi dopo la giornata di Benevento. Ma quando nel 1477 rivissero in Benevento le antiche fazioni coi nomi di sopra e di basso, Giacomo Geremia, nobile beneventano, ed uno dei discendenti di Giuliano Geremia bolognese, fu astretto ad esulare con un Bartolomeo di Aquino, altra famiglia patrizia di Benevento, e rifugiarsi amendue presso il conte di Loreto, congiunto del d’Aquino, trovarono sicura o onorevole dimora nei suoi domini della Campania, nè fecero più ritorno in Benevento.