Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte III/Capitolo VI

Capitolo VI

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CAPITOLO VI.


Il re Ladislao non fu grato ai beneficii ricevuti da Bonifacio IX, perchè, seguita la morte di costui nel 1404, mosso da sconfinata ambizione, tentò d’insignorirsi dell’intero stato pontificio, e gli venne fatto agevolmente nell’anno 1406, durante il pontificato di Gregorio XII, avendo con poca difficoltà occupato Roma, Perugia, Orta, Amelio, Velletri, Terni, Todi e nel 1408 anche Benevento. Ma il pontefice Alessandro Y, non sapendosi dar pace di tali usurpazioni di Ladislao e dello scisma da lui favorito, lo dichiarò non solo decaduto dal regno, come aperto persecutore della chiesa romana, [p. 150 modifica]ma lo escluse pure dalla comunione dei fedeli, invitando al conquisto del regno il pretendente Ludovico II duca d’Angiò conte di Provenza, figlio dell'altro Ludovico che fu adottato da Giovanna I. Ed esaltato poi al pontificato nel 1410 Giovanni XXII, questi trasse in Roma, stata di fresco liberata dalle truppe di Ladislao per opera di Paolo Orsini, e bandì la crociata contro Ladislao, come scismatico e nemico della chiesa. Ladislao allora, antivedendo la perdita dello stato, rilasciò tutte le terre usurpate, non esclusa Benevento, e si ridusse novellamente all’ubbedienza della sede romana, come s’inferisce da uno stromento in pergamena che si conservava nell’archivio di S. Domenico, compilato dal notaro Cicco Lanzullino nel 1414, e ne tenne il governo per il papa Arrigo Protontino di Vico.

Ladislao che, vedendosi a mal partito, avea implorato il perdono del papa, non andò guari che, messa giù ogni maschera, si dichiarò fautore dell’antipapa Gregorio, invadendo per la seconda volta Benevento e gli altri stati della chiesa, per modo che il pontefice Giovanni XXIII fu costretto a porsi in securo in Bologna. Non appena Ladislao si vide signore di Benevento concesse ai cittadini con un amplissimo diploma, scritto di propria mano, il godimento di tutte le antiche franchigie, esenzioni e libertà di cui fruirono per lo passato. E venuto a morte Ladislao nel 1414 senza prole, la sua sorella Giovanna II acquistò per forza d’armi la signoria di Benevento, e confermò ai beneventani il privilegio loro conceduto dal defunto fratello. Ma trascorso breve tempo ebbe fine lo scisma che travagliava la chiesa romana, e allora Giovanna II pose in opera ogni arte per addivenire alleata del papa Martino V, e, ad acquistarne il favore, gli restituì la città di Benevento, e il papa di rimando si piegò finalmente a concederle con l’investitura la corona del regno di Napoli.

Fra i più strenui capitani della regina Giovanna primeggiava Sforza degli Attentoli da Cotignola della Romagna, che fu elevato alla dignità di Gran Contestabile del regno. Questi nel 1418, reduce da Roma in Napoli, fu dalla regina [p. 151 modifica]colmo di onori, e, come leggesi nella vita che di lui scrisse Leodrisio Crivelli, nonché negli annali di Lorenzo Buonincontri, ottenne anche in dono dalla regina la città di Benevento, ma tuttavia non appare evidente che una tale cessione avesse avuto luogo col buon volere del papa. Però è molto verosimile che vi fosse stato il suo consentimento, poiché in quei tempi Giovanna II era assai innanzi nelle grazie di Martino Y, e non meno di essa lo Sforza, che fu assunto all’altissima dignità di Gonfaloniere della chiesa, e che, stando agli stipendii del papa, guerreggiò con prospero successo contro Braccio da Montone Perugino, che avea occupate varie terre dello stato pontificio. E vi han pure documenti nel nostro archivio comunale per accertare che lo Sforza, stato qualche tempo prigioniero nella rocca di Benevento, resse questa città dal 1418 sino al 1424, nel quale anno morì sommerso in un gorgo appo il fiume Pescara.

Giovanna II chiuse la sua mortai carriera nel febbraio del 1435, dichiarando erede del regno Renato, germano del defunto Ludovico d’Angiò, ma a questi ne fu conteso il possesso da Alfonso d’Aragona, che, per essere stato dalla regina Giovanna precedentemente adottato, aspirava alla corona di Napoli. Alfonso era sostenuto da una potente fazione, ma il papa Eugenio IV ritenne devoluto il regno alla Santa Sede, e perciò prese a caldeggiare il partito di Renato.

Questi, vedendosi in difetto di danaro e di soldati, deliberò recarsi negli Abruzzi, ove confidava di poter ristorare le sue forze, per essergli fido il popolo. E a tal fine si partì celatamente da Napoli, e per la via di Altavilla giunse in Benevento, in cui si soffermò alquanto, e poi riprese il suo cammino per gli Abruzzi.

In quella conoscendo la regina Isabella, moglie di Renato, di non essere atta a resistere ad Alfonso con lo scarso presidio lasciato in Napoli dal marito, chiese aiuto al papa, e questi spedì contro l’Aragonese nell’anno 1436 con numerosa soldatesca Giovanni Vitelleschi patriarca d’Alessandria, il quale vinse in Apruzzo i capitani di Alfonso, e conquistò assai paesi, ma indarno, poiché subito dopo senza proseguire [p. 152 modifica]la guerra, sì bene e gloriosamente intrapresa, fece ritorno in Roma. Ma nell’anno seguente passò nuovamente nel regno con poderoso esercito, ed entrato in Napoli si mise d’accordo con Isabella sul modo il più acconcio per proseguire le ostilità, e poi andò a campo sotto Capila ove erasi chiuso il re Alfonso, a cui non diede l’animo di venire con esso a battaglia. Il patriarca, conoscendo che non gli sarebbe stato possibile di espugnare la città di Capua, si ridusse in Aversa, ove a lui si congiunsero le squadre spedite da Giacomo Caldora, e poi condusse l’esercito verso Montesarchio mandando a sacco la terra. Intanto i capitani e gli alleati di Alfonso, mettendo insieme una discreta armata, lo seguirono studiando tutti i modi per nuocergli. E in tale occasione accadde a poca distanza da Benevento un bel fatto d’armi narrato da Alfonso de Biasio, e che credo utile di accennare.

Il principe di Taranto si era accampato in Montefuscolo; e Giovanni Ventimiglia, e Riccio da Montechiaro nel castello di Tocco, affine d’impedire che il patriarca potesse ricevere le vettovaglie da Benevento. Questi avea spedita una delle sue squadre per fornire di viveri l’armata; ma per evitare il pericolo di un assalto nemico, fè porre in agguato quattro valorose schiere, ed egli col resto dell’esercito si nascose parimenti per combattere ove occorresse. E si verificò appunto ciò che egli avea preveduto; poiché il principe di Taranto mosse celeremente il suo campo da Montefuscolo, e irrompendo di improvviso contro la squadra, che precedeva le vettovaglie uscite da Benevento, la disfece al primo assalto; ma in quella che i suoi soldati erano intenti al saccheggio furono investiti dalle quattro mentovate squadre, alle quali riuscì agevole fugare le fanterie nemiche e farne grande uccisione. Il principe con i cavalli si pose in salvo nel suo quartiere, senza ricevere aiuto dal Ventimiglia nè dal Riccio, i quali temettero che in quel mentre sopravvenendo il patriarca avrebbe potuto metterli in rotta: ma questi nel giorno seguente trasse ad assalire il campo del principe di Taranto, ove fu combattuto con eguale bravura dalla mattina sino ad oltre la metà del giorno, e solo sull’imbrunire fu vinto l’esercito [p. 153 modifica]del principe, e questi cadde in potere del patriarca, il quale, come guiderdone della riportata vittoria, fu da papa Eugenio promosso al cardinalato.

Intanto Renato, avendo ingrossato di molto il suo esercito negli Abruzzi, ben fornito di danaro, fece ritorno in Benevento, e qui seppe che Alfonso, uscito di Capua, avea posto il campo nelle vicinanze del castello di Lapollosa. Egli allora, impaziente di venire alle mani col suo nemico, si arrischiò a sfidarlo ad una battaglia campale. Ma ravveduto aragonese non volle commettere la somma delle cose alla fortuna di una giornata, e tenne intanto a bada Renato, ma questi trovò modo tuttavia di assalire con vantaggio 1 oste nemica e l’avrebbe totalmente sconfitta, se il Duca di Bari, col tenere inoperose le sue schiere nel maggior fervore della pugna, non avesse resa impossibile la vittoria.

Dopo un tal tradimento Renato d’Angiò accorse in Napoli a fine di porla in istato di difesa, ed Alfonso non tardò a cingerla d’assedio, e nel tempo stesso ordinava ai suoi duci di occupare tutte le terre che nel regno di Napoli si teneano fide agli Sforza. E benché Benevento non si fosse sottratta dal dominio del papa, il quale ne avea affidata la difesa a un valente guerriero, pur tuttavia Alfonso, conoscendo l’importanza del luogo, l’aggiunse ai suoi stati, secondo alcuni scrittori, nel 1441, e poscia la fortificò, paventandone 1 assalto. Dopo un tal fatto, scorgendo che Renato, assottigliato di forze, non potea contendergli più a lungo la conquista del regno, fattosi più audace, trovò modo d’introdurre ai 2 giugno del 1442, nella città di Napoli, mediante un acquedotto, buona parte delle sue genti. Renato, dopo una tanta perdita, per non cadere nelle mani del vincitore, come scrive il P. Giannettasio gesuita, (In historia Neapol., tom. 2, lib. 90, pag. 254) percorrendo di notte incognite strade, con la guida di un beneventano a nome Antonio, Benedettino della Congregazione di Montevergine, e superando montagne e balze colme di neve, si ricoverò infine in Benevento, come privato, e fu accolto con molta ospitalità dall’arcivescovo Astorzio Agnese che salì poi al cardinalato. E, non [p. 154 modifica]appena gli fu dato di seguire con sicurezza il suo viaggio fece ritorno in Provenza, disperando di poter più ritentare l’impresa di Napoli, e in tal guisa ebbe fine la dominazione degli Angioini nel regno di Napoli.

Alfonso da quel punto trasferì in Benevento la sede principale del regno, e poi che ebbe interamente debellati i suoi nemici convocò in questa città un generale parlamento, in cui fece a tutti i baroni giurare di riconoscere a proprio successore nel regno il suo figlio naturale D. Ferrante, che prese il titolo di duca di Calabria. E poco dopo questo fatto, per meglio tutelare i suoi dritti su tutto il reame, chiese ed ottenne dal pontefice Eugenio l’investitura delle città di Benevento e di Terracina.

Tenne Alfonso il vicariato di tali città sino ai 27 giugno 1458 in cui passò di vita, e del suo governo conservaci tuttora negli archivii di Benevento assai documenti, i quali fan fede degli amplissimi privilegi d’immunità e libertà da lui conceduti ai beneventani, i quali poteano ben ritenere di dipendere solo in apparenza dal re Alfonso, e seppero in ogni occasione propugnare i loro dritti contro tutti coloro che tentarono qualche usurpazione in danno della città.

Nel tempo del vicariato del re Alfonso, Benevento soggiacque a gravissimi danni per causa di due terremoti accaduti nel 5 e nel 30 dicembre del 1450, pei quali caddero infranti la maggior parte degli edificii della città, e fra gli altri il magnifico tempio del Duomo, che fu quasi ridotto a frantumi, e, schiacciati sotto le macerie, perirono 350 abitanti.

Trapassato Alfonso senza legittima prole, lasciò erede del regno un suo figlio naturale per nome Ferdinando, ma il pontefice Calisto III, rifiutandosi di riconoscerlo, dichiarò che il regno era ricaduto alla S. Sede, ed avendo il pontefice posto l’animo a dare uno stato al suo nepote Ludovico Borgia, che fu da lui nel precedente anno creato duca di Spoleto e prefetto di Roma, lo nominò anche Vicario di Benevento e di Terracina, dandogli intera facoltà di tramandare questi dominii al suo successore. Ma una tanta [p. 155 modifica]liberalità di Calisto III in favore del suo nepote non produsse alcun effetto, in quanto che la terre di Roma donate a Ludovico non gli furono mai cedute dalla potente famiglia da Vico che ne avea tolto il possesso, e tra non molto le città di Benevento e di Terracina caddero in potere, per la morte di Alfonso, del suo figliuolo Ferdinando. Calisto grandemente adontato da ciò, era in procinto di romper guerra a Ferdinando di Aragona, ma essendo venuto a morte poco dopo, il suo successore Enea Silvio Piccolomini, che prese il nome di Pio II, vedendo di assai buon occhio la casa di Aragona, assentì di buon grado a un trattato con Ferdinando, col quale questi promise di restituire al papa la città di Benevento, dopo di che ricevette l’investitura del regno dì Sicilia, e di tutta la terra di quà dal Faro.

Senonchè avendo Pio II nel 1459 spedito in Benevento Pietro Arcangeli da Urbino a prenderne il possesso, questi non potè venirne a capo, per trovarsi ancora nella rocca un presidio di soldati del re. Ma indignato il pontefice da un tal fatto, volse a Ferdinando sì acerbe rampogne, che questi credè bene di non frapporre più alcun ostacolo alla consegna della città all’Arcangeli, il quale, con un breve spedito da Firenze nel 5 maggio 1459, fu nominato dal papa, rettore o, dirò meglio, governadore di Benevento, come da quel tempo in poi si dissero tutti coloro che furono proposti al governo di questa città. E poi con altra bolla lo stesso pontefice confermò ai cittadini tutti gli estesissimi privilegi, di che godeva ab antico la città, ed emanò savie leggi riguardanti l’equa amministrazione della giustizia e altre cose di gran momento.

Ma non trascorse assai tempo che Benevento incorse di nuovo nel pericolo di mutar signoria, poiché Marino Marzano principe di Rossano e duca di Sessa, e altri potenti baroni invitarono a entrare nel regno Giovanni duca d’Angiò, figliuolo di Renato, col saldo proponimento di togliere il reame di Napoli a Ferdinando e farne dono all’Angioino. E Giacomo della Ratta, arcivescovo di Benevento, proseguendo a infingersi amico del re Ferdinando, divisò d’introdurre [p. 156 modifica]celatamente una parte delle schiere di Renato in Benevento. Pero gli fallì il tentativo, e il pontefice, mosso a giusto sdegno per un tale attentato, sostituì al Ratta l’arcivescovo Bartolomeo Roverella di Ferrara per governadore di Benevento e per suo legato a Ferdinando, e lo elevò indi a poco alla dignità di cardinale. Ma non fu solo il Ratta a cospirare contro il re Aragonese, ma si cooperarono sottomano in favore del duca d’Angiò, come attesta Gioviano Pontano scrittore di quella guerra, e Busillo del Giudice, che fu governadore di Benevento per il re Alfonso, anche altri cittadini, e segnatamente Giovanni Cossa che seguì Renato in Provenza, allorché Alfonso occupò Napoli.

Il re Renato nel 1462, mediante i suoi legati, tentò di piegare il pontefice a desistere di caldeggiare i dritti di Ferdinando, ma il pontefice non solo si tenne saldo nel rifiuto, ma gli rampognò e il tentativo di Giovanni Cossa, per togliere all’ubbidienza di Roma la città di Benevento, e la malvagità di Pier Giovanni Cantelmo, suo signore, il quale contro la data fede avea fatto trucidare il castellano di Benevento.

Nel 1462 il cardinale Roverella, che reggeva Benevento, contribuì potentemente alla decisiva vittoria che Ferdinando riportò sugli Angioini nel 18 agosto di quell’anno dopo di che Renato fece per sempre ritorno in Provenza.

E fu qualche giorno prima della decisiva battaglia, la quale diede termine alle pretese del duca d’Angiò, che accadde la notissima guerra dei nibbi e corvi, accennata da molti storici, e descritta minutamente e con molta eleganza dal Pontano. Si vide nella campagna che giace tra Apice e la città di Benevento, giungere da una parte una gran moltitudine di nibbi, e dall’altra un vero nuvolo di corvi, che si azzuffarono insieme. Sulle prime i nibbi riuscirono vincitori per virtù delle loro ugne acute e ritorte, ma dopo pochi giorni apparvero nuovamente i corvi, e in maggior numero, per essere andati in traccia di alleati, e da capo si azzuffarono coi nibbi da cui erano stati attesi. E dopo lunga pugna furono messi in fuga i nibbi, e i corvi vittoriosi calando poi [p. 157 modifica]sulla gran copia dei cadaveri, di cui era ingombro il terreno, cavarono loro gli occhi ed i cervelli, fendendoli coi rostri. Degli spettatori d’una così strana battaglia vi ebbero molti, i quali ne trassero il presagio della prossima caduta degli Angioini, dei quali, come essi ritennero, erano simbolo i nibbii perdenti. E una tale previsione si verificò tra non molto; tanto è vero che talora il caso alimenta certi pregiudizii popolari, come ce ne ammaestra la storia di tutti i tempi e la propria esperienza.

Nel 1466 Ferdinando d’Aragona, credendosi ben sicuro sul trono, si fece a pretendere dal papa che gli scemasse il censo di dodicimila oncie d’oro, che pagava alla chiesa romana per la investitura del regno della Sicilia, e non avendo voluto arrendersi il pontefice alle sue brame, egli chiese per compenso la restituzione delle città di Benevento e Terracina ed altri luoghi. E certamente per una tale pretensione si sarebbe ingenerata una grave inimicizia tra il re Ferdinando e il pontefice, senza la intromissione del cardinale Roverella governadore di Benevento, il quale, espertissimo nel maneggio dei grandi affari, seppe stabilire tra loro un durevole accordo, sicché non fu per tal fatto turbata la tranquillità dei beneventani.

L’anno seguente successe a Paolo II nel pontificato Sisto IV da Savona, il quale fu larghissimo di privilegi e di beneficenze alla città di Benevento, ma l’acquistata tranquillità non fu duratura, e i cittadini da uno stato di prosperità che eccitava con ragione la invidia dei popoli confinanti, furono travolti miseramente in un vortice di mali per la rinascenza delle antiche contese civili, nate la prima volta nel 1112, e non mai estinte del tutto. Ed esse infierirono con maggior rigoglio in questo tempo per la molta libertà civile di che fruiva la città, la quale si reggeva quasi a comune, per la mancanza di un potere energico ed atto a moderare le passioni dei cittadini, e impedire che trapassassero certi limiti.

La città si divise in due parti pressoché eguali, l’una, che si disse degli imperiali, si componeva degli abitanti della [p. 158 modifica]rocca fino all’arcivescovado, e l’altra detta di basso si estendeva dall’arcivescovado alla porta di S. Lorenzo, e amendue le fazioni si dividevano in nobili e popolani, ed erano favorite dai baroni confinanti. Sino al secolo XIII le due fazioni conservarono un tal nome, e ne presero anche un altro, secondo il Borgia, cioè di estrinseca ed intrinseca, ma nel secolo seguente si distinsero unicamente coi nomi della rosa rossa e della rosa bianca, che furono — come non ignora chiunque sa di storia — le denominazioni prese dai due gran partiti nazionali che funestavano a quei tempi l’Inghilterra, l’uno per sostenere i dritti della casa Lancastro sul trono della Gran Brettagna, e l’altro quelli della casa York. (Shaspeare, Valter Scott).

Il pontefice Sisto, anelando di spegnere le prime scintille di un tanto incendio, spedì in Benevento nell’anno 1477, con la qualità di Commissario, — per sedare le discordie dei cittadini — Giovanni Loisio de Tuscanis di Milano, uditore generale della Camera apostolica, uomo di vasto sapere e d’incomparabile prudenza. Questi nella breve sua dimora in Benevento, usando con molta temperanza del potere concedutogli, rese al popolo la tranquillità da si lungo tempo anelata, e dopo di aver ordinato l’osservanza di alcuni statuti, coi quali si propose di rimuovere tutte le cause che avessero potuto alterare la quiete cittadina, fece ritorno in Roma nell’anno seguente 1478. E il pontefice Sisto, lietissimo del successo, non si rimase ai provvedimenti adottati dal suo Commissario, ma fece demolire le case adiacenti alle pubbliche mura e meglio fortificare la rocca.

Ma tante cure spese a ridonare la pace ai beneventani riuscirono inefficaci per le contese nuovamente insorte tra il papa e il re Ferdinando, di cui fu causa il diniego dei passo per le terre della chiesa all’esercito napoletano, che muoveva in soccorso di Ercole I, duca di Ferrara, marito d’una figlia del re Ferdinando, contro i Veneziani coi quali Sisto avea contratto alleanza, Ferdinando, dopo di aver tentato il passaggio con la forza, occupò Terracina e altri luoghi del dominio papale? e infine, a trarre vendetta di quel rifiuto, [p. 159 modifica]volse l’animo a stornare Benevento dall’obbedienza del papa. E a tale effetto spedì ad occupare la città Niccolò d’Allegro, suo segretario, il quale, non senza l’aiuto di molti sediziosi riuscì a prenderne il dominio; e allora fu dichiarato Benevento capo e Metropoli del principato ulteriore. Ferdinando fu prodigo di privilegi ai beneventani, accordando loro tutto ciò che pretesero con un diploma dato in Castello Novo Neapolis, e nominò Rettore della città lo stesso Niccolò d’Allegro. Ma nel giorno 12 decembre dell’anno 1482, essendosi conchiusa la pace tra il papa e Ferdinando, Benevento tornò di nuovo alla dipendenza del pontefice, insieme a Terracina ed altri luoghi, stati invasi da Ferdinando, ma sola, e non più dominatrice di provincie e di popoli. E Sisto rimise ai beneventani il delitto di ribellione, e mandò a governare la città, con la qualità di Castellano, un tal Corrado Marcellino romano, vescovo di Terracina. Costui fu deputato a comporre le differenze dei confini del territorio beneventano con i baroni delle terre contermini, per eliminare qualsivoglia causa di dissenzione tra i cittadini di Benevento ed i regnicoli, ed anche Ferdinando commise ad Arcasio Bonello, suo Giustiziero, che si accordasse col Castellano di Benevento per dar termine ad ogni controversia sui confini.

Ma i presi accordi tra la Santa Sede e Ferdinando non ebbero effetto che sino al 1485, attesa la celebre congiura dei baroni, che fu narrata con tanta forza ed eleganza dal Ponzio. I baroni fecero ricorso al pontefice per acquistarsene il favore, e gli aquilani gli offersero il dominio della loro città, e Innocenzo allora accettando un’offerta tanto lusinghiera vi mandò per Rettore Battista Gelardino. Da questo fatto prese origine la guerra che con tanto ardore si accese tra Ferdinando e Innocenzo, il quale spedì Giovanni della Rovere in Benevento, per preservare la città dalle possibili repentine irruzioni delle truppe del re di Napoli, ma l’antiveduto disastro non ebbe poi a verificarsi per la pace seguita nel 12 agosto 1486. Però in seguito non desistettero i regnicoli di fare scorrerie nei dintorni della [p. 160 modifica]città di Benevento, per cui Innocenzo trattò privatamente col segretario regio Pontano nello scopo di assicurare la cessazione di ogni abuso, in quanto alla violazione dei confini, e furono adottati a tal uopo dei savii provvedimenti per prevenire qualsiasi pericolo in avvenire.

Ma nel 1492 fu la quiete di Benevento nuovamente turbata dal seguente fatto. Un tal Firello Mansella che, per la signoria di Ferraroggia ed altri feudi che possedea nei dintorni di Benevento, godeva di una certa preminenza sui patrizii beneventani, entrato con molta mano dei suoi seguaci nella città, vi uccise Bartolomeo Capobianco, suo dichiarato nemico. Il pontefice si richiamò di quel fatto al re Ferdinando per impedirne le conseguenze, e questi fece comando al Mansella che non più osasse di porre il piede in Benevento, e per tal modo fu di nuovo restituita la calma alla città commossa da un sì enorme attentato.

Gli ordinamenti civili di Benevento volsero sempre in meglio per opera del suo Castellano e del pontefice sino al febbraio del 1495, anno inaugurato per la discesa in Italia di Carlo VIII re di Francia. Costui, dopo la sua entrata in Napoli, facea pensiero di occupare anche la città di Benevento; ma i cittadini istrutti a tempo dei suoi disegni, gli deputarono un’ambasceria, pregandolo di non vietare che i beneventani perdurassero a mantenersi nella fede della Santa Sede, a cui Carlo annuiva, e con suo diploma del 4 marzo 1495 confermava alla città di Benevento tutti i privilegi, immunità, concessioni ed esenzioni concedutele da tanti pontefici e sovrani che n’ebbero la signoria. Ma neanche ciò fu bastevole a preservare i beneventani dal pericolo di qualche invasione francese, poichè taluni faziosi tentarono d’introdurre in Benevento il prefetto di Roma, che aderiva ai francesi: ma i cittadini seppero con pronto consiglio impedirgli l’entrata nella città, di che oltremodo si piacque il pontefice Alessandro VI, e con un suo breve in data 13 agosto 1495 levò a cielo la fedeltà, nonchè la perspicacia e bravura dei beneventani, e mandò per governadore di Benevento il Dottore Alberto Magalotti, affinchè vigilasse per tutelare la quiete della città. [p. 161 modifica]Però, non è a tacere che durante la guerra con tanto prospero successo intrapresa da Ferdinando contro i francesi, più di una stata si studiarono questi di occupare Benevento; ma prevenuti dal re Ferdinando fallirono nel loro intento. Tentò poco dopo Monpensieri, scrive il Guicciardini, di occupare mediante un trattato Benevento; senonchè Ferdinando, avutone sentore, vi entrò subitamente con le sue genti. Mossero allora i francesi verso Benevento, e posero il campo presso il ponte nominato Finocchio, ma siccome era prossimo il tempo di riscuotere la dogana delle pecore dalla Puglia, entrata delle più importanti del reame di Napoli, così il Monpensieri, facendogli difetto i viveri, prese il cammino della Puglia, smettendo il pensiero di occupare Benevento.

Nell’anno 1497 il papa Alessandro, avido di lasciare un grande stato a Giovanni Borgia, duca di Candia, tenne un segreto concistoro nel giorno 19 giugno, ed eresse in ducato Benevento, investendone il duca Giovanni, a cui largì anche le contee di Terracina e di Pontecorvo, ma essendo stato il duca Giovanni ucciso poco dopo, per opera probabilmente del suo germano Cesare Borgia, (Azeglio) Carlo Rocca, castellano di Benevento, proseguì a tenerne il governo senza innovazioni di sorta sino all’ottobre del medesimo anno.

Sullo scorcio di questo secolo fiorì in Benevento il dottore Angelo Catone, eccellente medico, illustre filosofo, secondo i tempi, e uomo di stato, che assai fama acquistò in Italia e in Francia, e aggiunse splendore alla sua città natale, la quale si pregia soprattutto di essere stata la cuna di non pochi uomini segnalati in sapere e civili virtù.

Alcuni autori, non bene informati delle nostre cose, credettero che Angelo Catone fosse stato nativo di Sepino, antica città del Sannio, ed ora comune di Molise. Ma essi errano a gran pezza, poichè sebbene la famiglia Catone derivasse in origine da Sepino, pur tuttavia, come rilevasi dal manoscritto delle [p. 162 modifica]famiglie nobili di Mario della Vipera, erasi stabilita in Benevento da prima assai della nascita di Angelo Catone, e vi dimorò fino all’anno 1514, per cui è noverata tra le antiche famiglie patrizie di Benevento.

È fatale per l’Italia, scrive un insigne autore vivente, che la metà dei nostri grandi vivano oscuri o negletti, e lascino al mondo una fama di municipio. Ma la rinomanza acquistata da Angelo Catone non rimase limitata nella breve periferia del suo nativo paese, come incolse a tanti uomini illustri del mezzodì d’Italia; imperocchè avendo Ferdinando II d’Aragona occupato per breve tempo Benevento, ebbe occasione di fare esperienza del raro senno politico del Catone e del suo profondo sapere, e quindi stupito di un tanto ingegno, lo adescò a recarsi in sua corte, ove non solo lo tenne sempre in molto conto, ma si giovò per lunga pezza dei suoi consigli in ogni più ardua impresa o affare di gran momento, anteponendolo ai più chiari uomini del suo regno. Fu anche in Napoli Angelo Catone pubblico professore di filosofia e di astronomia e medico della Corte, e venne in voce di uomo dottissimo per le correzioni ed erudite aggiunte che fece al libro delle Pandette di Medicina di Matteo Selvatico di Salerno, o secondo altri di Mantova. L’edizione di queste pandette colle molte note ed emendazioni data dal 1474, e fu una delle prime edizioni che si eseguissero in Napoli dopo l’invenzione della stampa, e perciò è rarissima. Il Catone dedicò una tale opera al re Ferdinando d’Aragona, e in essa inserì una pregiata memoria di letterati napoletani, primo esempio di una specie di catalogo biografico della città di Napoli.

Nella corte di Ferdinando II di Aragona la fama di Angelo Catone si estese in breve in molta parte di Europa; talchè Carlo VIII, dopo l’inutile sua calata in Italia, lo allettò a trasferirsi in Francia, ove lo colmò di distinzioni e di onori. Niuno ignora che gli illustri italiani, residenti in Francia, furon segno in tutti i tempi alla gelosia e malevolenza dei cittadini della gran nazione. E però l’essere stato Angelo Catone; benchè straniero, assunto alla dignità di [p. 163 modifica]Pari di Francia è un fatto che attesta certamente l’alto suo merito, maggiore della invidia, delle persecuzioni dei malevoli, e delle insidie degli emuli. Nè andò molto che procacciatosi la stima e benevolenza universale, fu nominato da Carlo VIII arcivescovo e conte di Vienna nel Delfinato, onore certamente altissimo se si consideri la sua qualità di straniero.

Egli intraprese in Parigi un lungo commento ai libri morali di Aristotele, e lo compì in Roma nell’agosto del 1498. Quell’opera fu sparsa d’immensa dottrina, e levò allora gran fama, benché ora, come accade della maggior parte delle opere di erudizione, sia quasi caduta in dimenticanza. E infine, quantunque molto innanzi negli anni, preso d’amore del suo nativo paese, fece ritorno in Benevento, sua patria, per godersi la pace domestica, e quivi morì lasciando il proprio retaggio a un suo germano, a lui di anni minore, che era uno dei consoli nobili della città in quel tempo, e fu sepolto nella cappella gentilizia di sua famiglia, posta nella chiesa di S. Lorenzo.

Le insegne della sua casa consistevano in un campo azzurro con un libro d’oro in mezzo, e con sette stelle all’intorno.