Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte II/Capitolo X
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CAPITOLO X.
Narra l’anonimo Salernitano che Sicone negli ultimi anni del viver suo diede molti savii consigli al suo figlio e collega Sicardo, ma costui, degenerando dai paterni esempi, si lasciò vincere per modo dalla libidine e dall’avarizia, che niun delitto potea essergli d’ostacolo nel mandare a fine i suoi turpi divisamenti.
Di più, mettendo in non cale i consigli del padre, non ebbe persona che gli fosse più cara di Roffrido figlio del traditore Dauferio, di cui si è innanzi parlato, e non imprendeva cosa alcuna di rilievo senza il consiglio di quell’iniquo, il quale, per quanto scellerato, e fuor di misura disonesto, per tanto era prudente, e scaltrito in ogni maniera d’inganni. Inoltre, istigato da Roffrido, s’indusse Sicardo a mandare a confine il suo fratello Siconolfo, senza che questi, il quale teneasi lontano dalla sua corte, gli avesse mai frastornato alcun disegno, o datogli motivo di malcontento. E poscia, prorompendo nei maggiori eccessi, mandò a morte non pochi tra i più illustri cittadini di Benevento, e altri ne fece chiudere in un lurido carcere, affine di poter rompere ad ogni delitto senza impedimenti di sorta, e astrinse il suo cognato Maione a prendere abito religioso in un chiostro, da cui gli fu in perpetuo vietata l’uscita.
Nè si rimase a questo Roffrido, ma, vedendo secondati a capello tutti i suoi disegni, usò ogni arte per determinare il principe Sicardo a impalmare una sua cognata di rara avvenenza, e, ottenuto l’intento, si tenne certo che omai non sarebbe stato contrariato dal principe in qualsivoglia impresa. E perciò fece segno alle più immani persecuzioni il benemerito abate Alfano, suo antico avversario, il quale, non credendosi più sicuro in Benevento, si fuggì in Napoli, ove pose ogni studio a suscitare nemici a Roffrido e a Sicardo, a sommuoverci popoli confinanti, e a fare continue scorrerie sul beneventano. Ma il principe, indettato dal suo malvagio consigliere sulle insidie da tendere ad Alfano affinchè cadesse in suo potere, gli diede a credere che niente più bramasse che di riamicarsi con lui, e metter fine agli antichi rancori, e l’indusse a recarsi in Benevento, col dargli la sua fede che avrebbe potuto sempre uscire illeso da Napoli, e farvi in ogni caso sicuramente ritorno. L’Alfano non sospettando di tradimento, uscì di Napoli senza scorta, ma tra via diede subito in un agguato tesogli dagli sgherri di Roffrido, e, condotto in Benevento, fu appiccato d’ordine di Sicardo, a guisa di volgare malfattore.
Dopo un sì atroce fatto, Sicardo si diede interamente all’avarizia, e, per carpire immense ricchezze, pose a ruba chiese e monasteri, usurpando tutti i poderi di cui essi erano dotati. E, non pago di ciò, a fine di conseguire una grossa taglia, fece chiudere in un carcere orrendo il santo abate cassinese Diodato, il quale, logoro dai patimenti, dopo pochi mesi di durissima prigionia, passò di vita.
I napoletani nell’anno 836 tentarono di esimersi dall’obbligo dell’annuo tributo, al quale si erano sottoposti in favore di Sicone e dei suoi successori, ma Sicardo con poderosa armata si accampò sotto Napoli, e non si rimase di devastarne i dintorni, finché i napoletani, dopo tre mesi di assedio, non potendo più difendere la città, fecero un solenne giuramento di soddisfare puntualmente in ogni anno al promesso tributo.
Indi mosse le sue armi con prospera fortuna contro la Calabria e la Puglia che si teneano pei greci, e gli fu agevole di occuparle in breve volgere di tempo, per opera principalmente del suo Roffrido, dopo di che nominò Rettore di Bari un tal Pardore, come deducesi dalle più accurate cronache di quella città, e in tutto quel tempo non si astenne di eseguire nuovi atti di crudeltà, per modo che tutti i suoi sudditi riteneano che le loro colpe avessero attirata l’ira di Dio sulla loro povera patria.
In quel tempo i saraceni, che pochi anni innanzi avean tolto ai greci la Sicilia, circuendo con molti navili la terra d’Otranto, occuparono Brindisi. Sicardo trasse ivi prontamente con molta mano di soldati, e vi pugnò da prode; però essendo caduti inavvedutamente moltissimi dei suoi guerrieri, come intervenne al misero Aione, in quelle ampie fosse che soleano cavare in guerra i Saraceni innanzi le loro trincee, e coprire con molta cura a fior di terra, egli fu astretto, suo malgrado, a far ritorno in Benevento per allestire un nuovo e più numeroso esercito. Ma i saraceni, che per essere impari di numero, non osavano tener testa alle schiere di Sicardo, dopo di avere appiccato l’incendio alla città di Brindisi, fecero vela per la Sicilia, col pensiero d’invadere il principato in più fausta occasione.
In quella Sicardo, avendo avuto sentore di certe contese insorte tra gli Amalfitani e i Salernitani, seppe con le sue arti abbindolare in guisa i primi da indurli a recarsi in gran numero in Salerno, e poscia, senza frapporre alcuno indugio, fu come un fulmine sopra Amalfi, rimasta sprovveduta del fiore dei suoi guerrieri, e dopo averla messa a sacco, ne menò gli abitatori a Salerno ed a Benevento, ove fece anche trasferire il corpo della S. Vergine Trifoniana. E, non pago di ciò, mise l’assedio alla città di Salerno, ma indi a poco, lasciando a mezzo l’impresa, tornò in Benevento, e questa sua mutata risoluzione è, come al solito, spiegata per un prodigio dagli scrittori ecclesiastici delle geste dei longobardi.
Dopo un tal fatto avendo appreso Sicardo che altri eserciti saraceni, cupidi di signoreggiare l’Italia, erano approdati in Sicilia, a scongiurare un tanto pericolo, contrasse alleanza col possente Bonifacio conte di Corsica, ed entrambi, passato il mare, furono in Africa con poderosa armata, e sottrassero alla Signoria dei Mori l’intera isola di Lipari, mettendoli compiutamente in rotta in quattro grandi battaglie campali, per cui i mori richiamarono per la propria difesa i loro eserciti dalla Sicilia, e gli italiani salparono dall’Africa onusti di preda, e ben lieti del prospero successo della loro impresa.
Ma siccome in Lipari nell’anno 720 era stato eretto un mirabile tempio per deporvi i mortali avanzi di S. Bartolomeo Apostolo; così il principe Sicardo vi pose subito l’occhio, e, forse ad attutire i rimorsi di una vita rotta ad ogni turpitudine, assecondando i pregiudizi di quel tempo, rapito il corpo del santo, lo trasferì con solenne pompa in Salerno e poscia in Benevento, in cui, a gloriare il santo, edificò un tempio nobilissimo, e ne fece traslocare il corpo nella stessa cattedrale, ove ordinò che fosse costruita una splendida cappella, la quale, intrapresa nell’ultimo anno del suo governo, fu poi compiuta con mirabile magistero dal vescovo Orso nell’anno 839. Nè andò molto che col medesimo zelo trasferì da Alife in Benevento i corpi di S. Felicita e i figli martiri, che furono eziandio riposti nella cattedrale, e, ad essi dedicata, fu eretta una chiesa fuori della città. E nel medesimo tempo quasi vennero collocati nella cattedrale i corpi di S. Marziano vescovo di Trigento, e di S. Deodato vescovo di Nola. Ma non trascorse assai tempo che i patrizii Paldone, Tatone e Tasone edificarono a proprie spese un tempio in onore di S. Deodato, da cui prese il nome, e in processo di tempo fu a questa chiesa annesso un monastero di monache benedettine.
Intanto Sicardo, non ostante tali velleità religiose, non rimetteva punto delle sue prave abitudini, e trascorrendo d’uno in altro eccesso, fu preso alle bellezze della giovane moglie di un tal Naringone, uomo di bella fama, e che usava spesso in corte, e affine di potere con maggiore agevolezza tentare la sua donna, lo spedì ambasciatore in Africa al re dei saraceni. Ma le arti e le lusinghe adoperate per tirare alle sue voglie quella infelice riuscirono inutili, cosicché, per vincerne la resistenza, gli convenne usare in ultimo luogo la forza. Naringone, reduce in Benevento dalla eseguita ambasceria, fu pienamente istrutto dalla virtuosa consorte della turpe azione del principe, e ne prese grande sdegno, ma da uomo accorto seppe assai bene dissimulare i suoi sentimenti e il desiderio della vendetta.
Nello stesso tempo quasi accadde pure che a un cavaliere beneventano, di chiari natali, venne veduta un giorno a caso Adelgisa moglie di Sicardo ignuda nel bagno; la qual cosa increbbe a costei sopra modo, e per togliere forse al cavaliere l’occasione di menarne vanto tra gli amici, mandò con un pretesto a chiedere della moglie di lui, e, avutala in sua balìa, col permesso del principe, le fece sconciamente scorciare i panni, e condurla in tal guisa al luogo ove erano alloggiate le soldatesche. Allora il marito e i congiunti di costei, stimando che ad essi non si addicea di tollerare un tanto oltraggio, abboccatisi con Naringone, che istigolli a lavare l’onta nel sangue del tiranno, entrarono nel padiglione, ove questi, reduce dalla caccia, prendea riposo, e con varie ferite gli tolsero la vita.
Morto Sicardo — il quale tenne da solo il dominio di Benevento per poco più di sei anni — i maggiorenti beneventani esclusero dalla signoria i figli del tiranno, ed elessero principe di Benevento il tesoriere Radelchi, o Radelgiso, secondo alcuni scrittori, ritenuto in quel tempo per l’uomo il più degno di essere elevato a tale onore, ma questi dopo breve tempo diede aperte prove d’animo nequitoso, e tale da disgradarne forse lo stesso Sicardo, per guisa che si acquistò subito nel principato molti capitali nemici. Egli quindi fu bentosto astretto a mandare in bando Dauferio il Balbo suocero dell’estinto Sicardo, che tentava di promuovere una congiura per torgli lo Stato, e che potea ritenersi come capo della fazione nemica. Ma questi, bramoso di vendetta, trasse in Salerno, ove prese a istigare i cittadini alla rivolta, lusingandone la vanità coll’affermare che riusciva ad essi disdicevole e ingiurioso il perdurare più a lungo nella dipendenza da Benevento, e quelli coll’aiuto degli Amalfitani, ai quali, rimettendo le antiche ingiurie, chiesero pace ed alleanza, diedero opera alla fuga di Siconolfo fratello di Sicardo dalle carceri di Taranto, e lo proclamarono principe di Salerno, eccitando pure Landolfo conte di Capua, quello stesso che, per consiglio di Sicone, avea edificato Sicopoli, Radelmonte conte di Acerenza, ed Orso conte di Consa a levare contro Benevento il vessillo della rivolta, e per tal modo nell’anno 840 fu costituito un novello principato detto di Salerno.
E non si rimasero a questo i nemici di Radelchi, ma indussero un tale Adelgiso a trovar modo di rendersi principe di Benevento. Ma Radelchi, accortosi de’ suoi pravi disegni, lo prevenne in tempo, facendolo in un bel giorno balzare da un verone del suo palagio, e poscia, adunato il maggiore esercito che seppe, mosse guerra a Siconolfo per riavere gli usurpati dominii, e da tali fatti derivarono lunghe guerre civili, divisioni, ed altri ineffabili mali che contristarono quei popoli, e pei quali ebbe fine la temuta e gloriosa Signoria dei Longobardi nel mezzogiorno d’Italia.
Siconolfo, divenuto assai potente per le contratte alleanze, e per le numerose milizie somministrategli dai suoi cognati Orso conte di Capua e Radelmondo conte di Acerenza, e sovvenuto efficacemente dai nemici di Radelchi, e da tutti i popoli della Campania, della Lucania, del principato di Salerno e da molti pugliesi, mise in compiuta rotta l’esercito di Radelchi, occupò e sottopose al suo reggimento la Calabria, e una notevole parte della Puglia, e, preso animo dai riportati successi, andò infine ad accamparsi sotto le stesse mura di Benevento. Ma le truppe di Radelchi, e i cittadini, memori delle antiche virtù, respinsero con gran perdita le schiere nemiche, e astrinsero Siconolfo a levare le tende e far ritorno senza alcun frutto a Salerno. Dopo tali fatti seguirono con maggiore ferocia le ostilità tra i due principi contendenti, e or l’uno, or l’altro prevalea; sicchè Radelchi, disperando di poter mai con le proprie forze soggiogare tutti i suoi nemici, non dubitò di tramandare ai più lontani avvenire segnato d’infamia il suo nome, coll’invocare a sostegno dei mal acquistato soglio l’amicizia e le armi dei saraceni odiatori dei cristiani e sitibondi sempre del lor sangue. E un sì nequitoso esempio fu subito seguito dal suo ambizioso avversario, che a difendersi chiamò altri saraceni dalla Spagna, nemici ai primi per diversità di setta. Tutti costoro senza farsi scrupolo di nuocere ai principi, ai quali aveano legata la lor fede, diedero principio alle più orrende devastazioni. I saraceni dell’Africa, quantunque fossero agli stipendii di Radelchi, occuparono la città di Bari, che si tenea per il principe di Benevento, e ne gittarono in mare il Gastaldo a nome Pandore, e poi espugnarono Taranto, desolarono la Puglia e la Calabria, e dopo aver quasi diroccate Capua, Formia e Fondi, si fecero a predare le stesse terre di Salerno e di Benevento.
Ma non ostante che i popoli fossero stati in tante guise travagliati dai saraceni, e fatti segno a indicibili sciagure per una guerra fratricida, protratta per oltre due lustri, e che i barbari tenessero ora per Radelchi, ed ora per Siconolfo, mutando parti e bandiere a misura delle maggiori o minori paghe promesse o delle lusinghe della preda, i principi Radelchi e Siconolfo niente rimettevano del loro tenace proposito di non accogliere alcuna proposta di accordo. E poscia, per conservare il favore dei saraceni, facendone paga la cupidigia, l’uno pose mano ai ricco tesoro della chiesa cattedrale di Benevento, e l’altro alle molte ricchezze contenute nel ricco tempio di Nostra Donna in Salerno.
In quel mentre Landolfo, che seguiva le parti di Siconolfo, fortificò Sicopoli, e, collegatosi coi napoletani, riacquistò, mediante alcuni prosperi combattimenti, il territorio della disfatta Capua, e si dichiarò conte indipendente. Ma Radelchi, che mal volentieri sopportava l’indipendenza dei conti di Capua, spedì contro Landone, succeduto a Landolfo nel governo di Capua, il Gastaldo Agenardo con un grosso stuolo di assoldati saraceni, ma nel tempo stesso in aiuto del conte trassero non pochi salernitani guidati dal prode Gastaldo Aldemario. I due eserciti vennero a battaglia nelle adiacenze di Sicopoli, e ai saraceni di Radelchi toccò una segnalata sconfitta, dopo la quale Landone, congiunte le sue schiere a quelle di Siconolfo, si mosse contro Cosenza e Taranto, e le ridusse all’ubbidienza del principe di Salerno. E questi, dopo di aver messo a soqquadro tanta parte dell’Italia, per sopperire alle spese della guerra, e ristorare l’esausto tesoro dello Stato, involò dalla Badia e dalla Basilica di Montecassino tutto ciò che ivi conteneasi di prezioso in calici, patene, croci, e sacri vasellami, oltre cento libbre di oro puro, quattordicimila soldi siciliani d’oro, novecento libbre di argento, quattordicimila soldi mezzati e settemila predulati, come dal l’Ostiense è minutamente descritto.
Intanto Radelchi, antivedendo che Siconolfo avrebbe riprese le ostilità per espugnare Benevento, condusse ai suoi stipendii Massaro capitano dei saraceni, affidandogli la difesa della città, ma costui in breve giro di tempo venne in tanto orgoglio da vilipendere i beneventani, e, non pago de’ suoi larghi assegni, mandò a sacco e distrusse il monastero di S. Maria in Cingia posto sul distretto di Alife, prese d’assalto il castello di S. Vito, occupò la città di Telese, e depredò in tutti i punti il contado di Aquino ed altri convicini paesi, dopo di che le sue schiere, onuste di preda, fecero ritorno in Benevento. E allora i due emuli infelici entrambi, poiché ad essi non erano meno infesti i saraceni che agli altri italiani — conobbero pur troppo che a’ mali delle intestine discordie è pessimo rimedio il soccorso dei barbari. E infine per soprassello di sciagure nel giugno dell’anno 847 fu per la seconda volta Benevento crollata da un forte tremuoto, pel quale si videro atterrati molti edificii, e morti di un subito e sepolti sotto un monte di rottami gran numero di uomini.
Mentre l’intera penisola, per causa dei saraceni, era in preda alla desolazione, e perdurava ancora la discordia dei due principi, intesi l’un l’altro a distruggersi a vicenda, si recò in Roma Lotario Augusto, affine di conseguire la corona d’Italia per mano del pontefice Sergio II. Laonde il conte di Capua, Adimario Gastaldo di Salerno, e Bassaccio abate Cassinese, traendo profitto d’una sì propizia occasione, posero sottocchio all’imperadore lo stato miserando dell’Italia per opera dei saraceni, instando che ponesse un termine a tanti mali. Lotario acconsentì all’invito, e recatosi con numeroso e agguerrito esercito in Benevento, disfece e mise a filo di spada quasi tutti i saraceni, e condannò nel capo il loro duce Massar, e poi, interponendo la sua mediazione tra i due principi contendenti, li costrinse loro malgrado a rimettere in lui ogni questione, e, ricevuto dai due principi il giuramento di fedeltà ed ubbidienza, come re della Lombardia, divise in due stati l’antico ducato di Benevento e tornò glorioso in Pavia.
Tale divisione ebbe luogo nell’anno 851: a Radelchi toccò Benevento, e quanto dalla valle caudina si estende sino all’ultimo lembo delle Puglie, e al principe Siconolfo fu assegnata la parte meridionale del principato di Benevento, che conteneva i Gastaldati di Taranto, Latiniano, Cassano, Cosenza Laino, Lucania, Consa, Montella, Rota, Salerno, Sarno, Cimitino, Furcolo, Capua, Teano, Sora, e la metà di quello di Acerenza. Il termine poi di confine del territorio di Benevento da quello di Capua fu il sito denominato S. Angelo ad cerros, che rasentava la terra di Montevergine. E, come segno di confine in tal luogo, fu eretta una colonna terminale, di cui una faccia del capitello ritraeva due guerrieri a cavallo con le lance in resta in atto di combattere, con che alludevasi alla lunga guerra civile tra i due rivali, e nell’altra faccia erano scolpiti due Ippogrifi, che bevevano simultaneamente alla medesima tazza, simbolo della pace succeduta alle antiche discordie.
Il luogo poi appellato ad peregrinos fu disegnato come limite tra Benevento e Consa, e la linea di divisione fu segnata a Stafilo. In tal guisa a Benevento avanzò la parte boreale che terminava nel mare adriatico, e la meridionale toccò a Siconolfo, e Salerno, come città munita di fortificazioni, fu prescelta stabilmente a sede del principe. Questi due stati adunque, in tal modo divisi, dipesero dagli imperadori di occidente, i quali, come re d’Italia, vi esercitarono quei dritti sovrani che per lo innanzi furono sempre ad essi contesi dai longobardi.
Siconolfo non potè dare stabile ordinamento alle cose del suo principato, poichè morì nell’anno 855, e gli successe il suo unigenito Sicone, a cui, attesa la minore età, gli fu d’uopo assegnare un tutore di sua fiducia.
In questo il conte di Capua, il quale erasi dichiarato ligio al principe di Salerno, gli negò ubbidienza, e si rese indipendente da Salerno e da Benevento, estendendo a settentrione sino a Sora ed Arpino la sua contea, che a mezzogiorno confinava col ducato di Napoli. E per tal modo, sullo scorcio del secolo nono, il potente e floridissimo principato di Benevento si divise in tre stati discordi e tributarii ai re di Francia.
Dopo cotale divisione nuovi mali ebbero a contristare quelle misere contrade, poichè essendo invalso il sistema di dividere tra i figli i Gastaldati ed i contadi, sorsero in ciascuna provincia più contadi, e crebbe per conseguenza anche il numero dei scudi, locchè diede alimento a nuove guerre civili.
In tale avvicendarsi di avvenimenti e repentina mutazione di stati, Radelchi passò nella tomba col rimorso di aver causata la funesta ed irreparabile divisione del famoso ducato di Benevento, e i cittadini, e la consorte Caretrude, che gli avea partoriti ben dodici figli, gli eressero un mirabile mausoleo ad attestare il loro dolore per la prematura sua fine, dolore non mentito, poichè Radelchi non mancò di sudditi a lui devotissimi, e ai molti e gravi suoi errori congiunse una splendidezza senza esempio, da emulare in questo i più fastosi monarchi.
Gli successe nel principato Radelgario,suo primogenito, il quale, oltre all’esser prode, avea l’animo informato alle più care virtù cittadine, perlocchè riuscì bene accetto al popolo, ma fu assai breve il suo governo, poichè trapassò senza prole nell’anno 852, e i beneventani elessero a suo successore il fratello Adelchi o Adelgiso, principe anch’egli di morigerati costumi, e dotato di rara cortesia, il quale fu anche assai beneviso dai cittadini.
Ma contuttochè Adelgiso ponesse ogni cura nei primi anni del suo governo a sopire ogni discordia, e acquistarsi la benevolenza dei suoi sudditi, nuovi e maggiori disastri funestarono il principato di Benevento. I Mori che reggeano Bari, ultimo loro refugio dopo le patite disfatte, aveano nuovamente invase le terre di Benevento e di Salerno, sicché i due principi, secondo l’Eremperto, deputarono Bassazio abate Cassinese, e Giacomo abate di S. Vincenzo per legati all’imperadore Ludovico in Francia, affine di richiamarlo nuovamente in Italia. Costui tenne l’invito, e con un’armata non molto considerevole si trasferì a Bari, ma dopo alquanto tempo, mancando i Capuani alla data fede, si partì senza eseguire alcuna impresa di momento. Ma, appena egli si ritrasse dalle mura di Capua, i saraceni, capitanati da un tal Suadan, feroce battagliero assuefatto alle rapine ed al sangue, e che in ogni giorno solea porre molti uomini al taglio della spada, eruppero dalla città, e, anelanti alle prede, impresero una guerra a sterminio contro i principati di Benevento e di Salerno. E finalmente gravi di preda erano in procinto di far ritorno in Bari, quando Maiepoldo Gastaldo di Boiano nel beneventano, Lamberto duca di Spoleto, e Gerardo conte dei Marsi, confederatisi insieme, corsero addosso a quei predoni, bramosi di ritogliere ad essi la preda, e si venne tosto alle mani; ma la vittoria toccò ai saraceni, e i due Gastaldi e il conte Gerardo perirono sul campo. Allora Suadan corse più alla bestiale le terre nemiche, e, salve le principali città munite di mura, tutti i minori paesi e castelli andarono in rovina. E, avido di maggiori prede, trasse in prima a devastare la Badia di S. Vincenzo, e poscia apparì inaspettato in Montecassino, mettendo a guasto e ruba ogni cosa, e non dandosi pace, sinché non gli venne fatto di rinvenire il nascosto tesoro dei monaci. I cassinesi erano in pensiero che i barbari, non anche satolli di oro, avessero dato fuoco alla badia, e perciò, a stornare un tanto pericolo, l’abate Bertario mandò ad offrire a Suadan tremila monete d’oro per ammansarne la ferocia, e in tal modo fu salva la Badia, quantunque i saraceni predassero nei dintorni tutto il bestiame del monastero.
Adelgiso in tanto pericolo invocò nuovamente l’aiuto dell’imperadore Ludovico II. Costui sulle prime parve alquanto irresoluto per la memoria del tradimento dei capuani, ma quando all’invito di Adelgiso si aggiunsero le preghiere del papa Niccolò, egli non esitò punto a calare la terza volta in Italia.
E dopo aver chiesto l’aiuto di Lotario re di Lorena, il quale gli mandò non poche schiere, trasse con un numeroso esercito in Puglia a combattere i saraceni, da cui fu rotto in una prima battaglia, ma che poi disfece compiutamente, occupando tutti i loro alloggiamenti; e infine si attendò sotto le mura di Bari, impedendo agli assediati qualsivoglia soccorso, vuoi per via di terra, vuoi dalla parte del mare. Allora, per astringere l’imperadore a levare l’assedio, trassero con molte schiere a difesa della città tre valenti capitani saraceni, e appiccarono battaglia con gli imperiali; ma questi pugnarono con tanto ardire da uccidere i tre capitani, e riportarono sui saraceni una così segnalata vittoria che delle tante squadre nemiche pochi soldati appena potettero trovare scampo con la fuga. Indi gli imperiali presero d’assalto Matera, città che era stata assai ben munita dai mori, e proseguirono alacremente l’assedio di Bari, che si protrasse per oltre quattro anni, sinché i saraceni, non potendo più tenere la città per totale mancanza di vettovaglie, si arresero a discrezione, e l’imperadore fece trucidare tutti i saraceni, facendo grazia della vita ai soli Suadan, Annoso e Adelbac loro capitani, e restituì la città al principe di Benevento, che avea preso parte a quella campagna. E dopo avere conquistate altre città minori che gli si erano dichiarate avverse, e debellato ogni altro suo nemico, tornò glorioso in Benevento, ove, reputandosi sicuro, rimandò in Francia l’armata.
Ludovico, durante la sua non breve dimora in Benevento, ebbe a stupire della floridezza e coltura d’una sì illustre città, poiché in quel secolo Benevento in fatto di lettere e di scienze era noverata a dritto tra le prime città d’Italia (Borgia). L’anonimo salernitano fa menzione di un tale Ilderigo, monaco cassinese, di cui riporta alcuni versi, che sono testimoni fedeli non meno della sua scienza teologica che del suo felicissimo ingegno, per guisa che si potrebbe noverare con ragione tra i migliori poeti di quel secolo che vissero in Italia. E che in quei tempi era in fiore la letteratura in Benevento si rileva pure da un opuscolo di Ausilio francese — che dimorava in Italia tra lo scorcio del secolo IX e i principii del X — e che fu inserito nella raccolta del dottissimo Mabillone, la quale ha per titolo Vetera analecta.
E da quel libro rilevasi che furono consultati i letterati della Francia e quei di Benevento su alcune ordinanze del pontefice Formoso che Stefano VII intendea fossero dichiarate nulle. E si ritiene comunemente che dopo le città di Roma, Ravenna, Milano, Napoli e Pavia, tutte le altre città d’Italia in quel tempo perdessero al paragone di Benevento, e questo amore dei beneventani alle lettere si attribuì da molti all’insigne ordine di S. Benedetto, che avea in Benevento i suoi più ragguardevoli monasteri sondati dai longobardi beneventani; poiché è noto che in quei tempi le lettere non furono coltivate che dai monaci, alla cui diligenza siamo debitori della conservazione delle opere degli antichi.
Ludovico, innamorato del viver lieto di Benevento, protrasse quivi a lungo la sua dimora, e, secondo il Vipera, fece dono alla chiesa beneventana nell’anno 868 del castello di S. Angelo del Gargano, e di altri beni. Ma non fu durevole un tale stato di cose, poiché i franchi che componevano il seguito dell’imperadore, e gli altri che erano a guardia della sua persona, presero a comportarsi in modo da non essere gli abitanti più sicuri nè dell’onore delle loro donne, nè delle proprie sostanze, e la stessa imperadrice Angelberga, coi suoi modi altieri e imperiosi, contribuì di molto a rendere inviso il marito anche a quei cittadini che più gli erano stati devoti. (Zigarelli, Verusio) E fu per questo che Adelgiso, mettendo da banda ogni sentimento di prudenza e di gratitudine, concepì l’audacissimo disegno di far prigione l’imperadore, e mettere in ceppi tutti i suoi guerrieri, con che non solo macchiò la propria fama, ma pose a gran repentaglio la sicurezza dei suoi stati.
Ludovico con la sua famiglia avea stanza in un ampio e ricco edifizio posto a poca distanza dalla città, di forma quadrata regolare con le mura di magnifico lavoro, che torreggiavano da fronte e da lato, con varie logge e stanze terrene, e che giacea in luogo assai forte per natura e per arte. Era trascorso oltre il mezzogiorno del 25 agosto, allorchè una turba di armati cittadini, condotti dallo stesso principe, si avanzò sul limitare della turrita rocca, e le scolte stupefatte udirono dar nelle trombe e videro lampeggiale le aste, e le schiere beneventane in atto d’investire le mura. Ludovico, accorso a quel trambusto, senza dar segno di timore, ascende, con la moglie, la figlia e con uno stuolo delle sue guardie, sulla più elevata torre di quell’augusta magione, ove si fortifica, e intima ai suoi soldati di star saldi alle difese delle mura. Per tre giorni intieri si pugna con diversa vicenda da entrambe le parti, e ai ribelli riesce vano ogni sforzo per espugnare il castello. Adelgiso, furente per la inattesa e indomita resistenza, fa animo ai suoi seguaci onde scalino le mura, li rampogna della loro dappocaggine, intima la resa agli assediati, esortandoli ad evitare un maggiore spargimento di sangue, ma tutto era niente; sinchè, appigliandosi a un estremo rimedio, ordina che si appiccasse il fuoco al forte, e già le fiamme, secondate dal vento, ascendono in alto, e circondano d’ogni banda la torre. I difensori, senza piegarsi al terrore della morte imminente, risolvono di perire impavidi sotto le mura del castello, anzichè deporre le armi, ma Ludovico, dando luogo alla prudenza, ne sedò il furore, e ingiunse a tutti di desistere dalle offese, e da ogni ulteriore resistenza. E non debbo neanche omettere come in tutte le cronache locali non pure, ma anche in alcune istorie di grido narrasi che quando Ludovico fu ritenuto prigione da Adelgiso principe di Benevento, i suoi soldati s’inanimavano l’un l’altro a liberarlo cantando il seguente inno, che fu volgarizzato da Niccolò Tommaseo:
«Udite o confini della terra, udite con orror di tristezza il misfatto dei cittadini di Benevento.
«Imprigionarono Ludovico il santo, il pio, l’augusto.
«Radunato il Consiglio, Adelgiso parlò di morte, e tutti gridarono morte a Ludovico.
«Il re fu condotto al Pretorio dal superbo Adelgiso, ma il re pareva un santo gioioso d’avanzarsi al martirio.
«Però noi balzammo lo scellerato dal suo trono, e le turbe uscirono per essere spettatrici di un miracolo.
«Noi giuriamo per la religione di Dio di difendere quel regno, e di conquistarne un nuovo».
Ludovico e le donne furono incontanente menati prigioni in Benevento, e i guerrieri sbanditi. Il vescovo Giovanni, cui molto increbbe un tal fatto, perchè poteva attirare gravi disastri sulla città di Benevento, non trasandò preghiere e consigli per indurre il principe a rimettere in libertà gli augusti prigionieri, che languivano indegnamente nei ceppi, e seppe in ciò tanto bene adoperarsi che Adelgiso, annuendo ai suoi desiderii, mise a partito fra i suoi più intimi consiglieri e i primarii cittadini dello Stato, se dovesse restituirsi la libertà alla famiglia imperiale: e tutti annuirono a tale proposta. Ludovico e la sua donna uscirono dal carcere, ma fecero sacramento di non prendere alcuna vendetta dell’attentato, e di non mai varcare con armate schiere il confine degli stati beneventani.
L’imperadore, appena riacquistata la libertà, si recò in Roma, e in una gran dieta, che ebbe luogo nel giorno della Pentecoste, ove convenne anche il papa Adriano II, espose i suoi giusti reclami contro Adelgiso, cui fu dato del tiranno, e proclamato nemico della repubblica e del senato romano, e gli fu dichiarata la guerra. Ma tuttochè Ludovico fosse stato dal pontefice sciolto dal giuramento, attesa la gravità del fatto e la mancanza di libero consenso, pur tuttavia, per non mancare di fede, e per tema che gli si desse taccia di spergiuro, commise alla moglie la vendetta.
Angelperga, adunato un formidabile esercito, si accampò presso Benevento, avida anzitutto di avere in sua mano l’autore di un tanto fallo. Adelgiso era intento a fortificarsi, e a tentare gli estremi sforzi della difesa, e non parea più possibile d’impedire con mezzi umani il temuto flagello d’una guerra crudele e devastatrice; ma il timore dei greci, e l’interposizione del papa Giovanni VIII furono efficaci a dissipare quel nembo che erasi addensato sulla misera città, e col condono del fallo conseguì il principe Adelgiso una pace assai decorosa dal pio e magnanimo monarca, che alla pace della cristianità posponeva assai volentieri ogni suo privato risentimento, e il volgare piacere della vendetta.
L’imperadore Ludovico, dopo la pace conchiusa con Adelgiso, fu da gravi cure di Stato richiamato in Francia, ove passò di vita nell’anno 874, e i saraceni, prendendo animo dalla sua morte, usciti di Taranto, invasero primamente il territorio di Bari, — i cui abitanti, venendo lor meno l’aiuto di Benevento, si sottoposero ai greci che possedevano un numeroso presidio nella città di Otranto,— e poi presero a infestare le terre di Amalfi, di Salerno, di Capua, di Napoli e di Benevento. Il principe Adelgiso non si tenne inoperoso in tanto pericolo, ma, limitandosi alla difesa dei proprii stati, irruppe con prospero successo contro uno stuolo di saraceni, che dava il guasto alle terre poste sul confine del principato, e ne uccise da oltre tre mila, e in poco tempo prese d’assalto il castello di Trevento. Ma non potette gustare la gioia della vittoria; imperocchè, reduce in Benevento dalla sua felice spedizione, fu spento di pugnale nell’anno 878 per mano di un sicario de’ suoi stessi nepoti per nome Potone dopo circa 25 anni di governo.
Ad Adelgiso o Adelchi successe nel principato Gaidieri o Gauderi suo nepote, il quale seppe occupare il principato, escludendo dal governo Radelgiso, figlio primogenito del tradito Adelgiso, e suo legittimo successore. Egli sin dai primi mesi del suo governo si dichiarò ostile a Landone conte di Capua, figlio a Landone II, per cui questi prese vivamente a caldeggiare il partito di Radelgiso, che, sebbene mandato in bando, era amatissimo da molti cittadini, i quali non desistettero mai di congiurare contro Gaidieri nella speranza di togliere ad esso il principato. E le mene del conte sortirono coll’andare del tempo un sì felice successo da corrompere le stesse guardie del principe, e, mercè il tradimento, ebbe Landone in suo potere l’incauto Gaidieri, che fu dannato a perpetua prigionia, e, sostenuto dalla maggioranza dei cittadini, fece eleggere a principe di Benevento il profugo Radelgiso II. Ma nell’anno 881 riuscì a Gaidieri di fuggire dal carcere, e, dopo breve dimora nella Francia, passò in Costantinopoli a invocare la protezione dell’imperadore Basilio macedone, che gli fece buon viso, e gli concedette il governo della città di Oria nel mezzodì d’Italia, donde non cessò mai di apportare molestie ai beneventani, e di macchinar danni contro coloro che gli aveano tolto lo Stato.
Intanto Radelgiso II, invaso dall’ambizione, e paventando un rivale al trono nel suo germano Aione, lo astrinse a prendere suo malgrado gli ordini sacri. Ma con tutto ciò il suo governo non fu punto tranquillo. I saraceni da Bari infestavano incessantemente le finitime contrade, e il pontefice Gregorio, bramoso di snidarli dall’Italia, invocò più volte l’efficace aiuto dei principi di Benevento, di Salerno e di Capua; ma costoro, anziché collegarsi insieme, e tentare un estremo sforzo contro il comune nemico, assistevano impassibili alle stragi, alle rapine, ai saccheggi, ed agli incendii di cospicue città. Indi, a loro eterna ignominia, i salernitani, i napoletani e gli amalfitani osarono allearsi coi saraceni, e ci gode l’animo di rilevare che in siffatta occasione i beneventani si tennero immuni da un tanto vitupero.
In così infelice condizion di cose l’imperador Carlo, germano al pio Ludovico, mosso dalle preghiere del pontefice Giovanni VII, trasferitosi a Salerno, astrinse il principe Guniferio a romperla del tutto coi saraceni. Ma Sergio duca di Napoli si rifiutò di seguirne l’esempio, per cui fu fatto segno all’anatema del papa, e Attanasio vescovo, suo germano, traendo pretesto dal suo biasimevole perseverare nell’amicizia dei saraceni, dopo di averlo privato degli occhi, lo mandò in Roma, ove chiuse miseramente i suoi giorni. Ma l’inumano vescovo; sottentrato al fratello nel governo di Napoli, neanche si astenne dal confederarsi coi saraceni, e anzi tenne mano a tutte le depredazioni che ebbero luogo non solo contro i dominii di Benevento, Capua e Salerno; ma anche contro il territorio di Roma e di Spoleto, per guisa che il pontefice fulminò contro Attanasio la scomunica in pieno sinodo, e si studiò di metterlo in odio ai napoletani.
Ma, invece di emendarsi, il perfido vescovo Attanasio, perdurando nelle sue inique mire, dopo di essersi confederato con gli Amalfitani, cinse Capua d’assedio; sicchè Pandenolfo invocò l’aiuto di Radelgiso principe di Benevento, il quale con alcune elette schiere si chiuse entro la città di Capua insieme al suo germano Aione, che da un pezzo avea deposto l’abito clericale. E venuto poscia alle mani coi nemici sotto le mura della città, li combattette con varia vicenda; ma infine, non potendo riportarne un successo decisivo, fece ritorno in Benevento, ove venuto in odio alla maggioranza dei cittadini, fu deposto, e gli successe nel governo Aione.
Questo principe fu d’alto animo e prode della persona, ma travagliato da continue guerre nel tempo che tenne il principato, non potè, direi quasi, allegrarsi di un’ora di pace. Egli nelle vicinanze di Capua fu insidiosamente, per le istigazioni dei Capuani, tolto prigione da Guido duca di Spoleto, che entrato poscia in Benevento la fece in tutto da padrone. Questi avviatosi poscia per la Puglia a combattere i Saraceni, come giunse a Siponto, fu in una chiesa circondato da gran numero di Sipontini, i quali, eccitati da un nobilissimo sentimento di amore e di fedeltà al loro principe, non lasciarono illeso il duca caduto in loro potere che allorquando promise con giuramento di rendere la libertà ad Aione, e di restituirlo in Benevento.
In quel mentre i greci, istigati da Guiderio Signore d’Oria, infestarono più volte il principato di Benevento, di che Aione prese grande sdegno, e conoscendo che gli abitanti di Bari non molto se la diceano coi greci, soffiò talmente in quelle discordie, che i Baresi l’elessero a loro signore, ed egli nell’anno 884 prese possesso di Bari, e per più anni la resse con grande avvedutezza. Ma avendo udito che, durante la sua dimora in Bari, il nefando Attanasio avea depredate varie contrade di Benevento, si mosse con tre mila soldati alla volta di Capua con disegno di piombare d’improvviso sui greci e napoletani che la teneano assediata; ma costoro, che n’ebbero notizia in tempo da Dauferio beneventano, si ritrassero in Napoli, e Aione non tardò di far ritorno in Bari, che in quel tempo era aspramente combattuta da un gran numero di greci capitanati da un tal Costantino. Aione venuto francamente alle prese coll’oste greca, attelata sotto le mura di Bari, la pose in rotta, uccidendo gran copia di nemici; però mentre, reputandosi vincitore, non si guardava da novello assalto, sopravvenne con molta mano di armati Costantino, che erasi tenuto in disparte sin dal principio della battaglia. Aione, colto alla sprovveduta, fu totalmente disfatto, e appena gli avanzò tempo di rinchiudersi con pochi suoi fidi entro le mura di Bari, ove ebbe a sostenere l’assalto dei greci. Aione non potendo con le sole sue forze tirare a lungo la difesa della città, dopo aver resa Bari con patti assai onorevoli, tornò in Benevento il cui dominio gli era stato in quel frattempo poco men che tolto da Guido duca di Spoleto. Egli in poco tempo diede buono assetto alle cose del principato, ma non andò molto che nuovi mali travagliarono i suoi stati, poiché i greci, che aveano stanza sulla diritta sponda del Garigliano, venuti in lega con Attanasio signore di Napoli, corsero da vincitori tutto quel tratto di paese che giace tra Benevento e Roma, e tuttoché Aione li avesse più volte combattuti con vantaggio non gli venne mai dato di vincerli compiutamente. E però, agognando di metter fine alle loro assidue escursioni nel mezzodì d’Italia, entrò in lega con altri signori, e specialmente col celebre Bertario abate di Montecassino, il quale, dopo avere assembrato numerosi vassalli da frate si trasformò in guerriero, e mescolatosi in tutti i fatti d’armi, che ebbero luogo contro i saraceni, seppe procacciarsi opinione d’uomo battagliero e di elevato ingegno. Ma i saraceni, che da un pezzo gli aveano posto odio mortale, montati finalmente in bestiale furore, aggredirono la Badia Cassinese, e, avutola in loro balìa, le diedero il sacco, e poscia, irrompendo nella chiesa dove eransi ridotti Bertario, e quelli de’ suoi frati che, per la brama del martirio, tennero a vile di provvedere con la fuga alla propria salvezza, mozzarono il capo all’abate e agli altri monaci, e con molta preda abbandonarono la pressoché distrutta Badia.
A porre un termine a tali e tante calamità trasse in Benevento Vidone imperadore, ma questi deluse assai presto le speranze riposte nella sua calata in Italia, perchè non trascorse lungo tempo che fece ritornò ai suoi stati, senza compiere altra impresa nella sua breve dimora nel Sannio che di donare a Leone abate del diruto monastero di S. Vincenzo gran copia d’oro per ricostruirlo. Pur tuttavia Aione, non vinto dalle avversità, seppe con gran valore e politico accorgimento preservare i suoi stati dalle invasioni dei greci e saraceni, e mettere più volte in rotta i loro eserciti, finché venne a morte nell’anno 890, dopo circa sette anni di governo.
Ad Aione successe il suo figlio bilustre a nome Orso. Leone, imperadore di Costantinopoli, per vendicare i danni inferitigli da Aione, e dilatare i suoi domimi nella Lombardia, traendo partito dal fatto che un fanciullo, sfornito di valenti consiglieri, era asceso sul trono di Benevento, spedì in Italia un assai numeroso e agguerrito esercito, capitanato da Simbaticio, duce supremo dei greci, il quale si accampò sotto Benevento, e, dopo tre mesi di ostinato assedio, finalmente l’ebbe in suo potere, e ne espulse il misero Orso, che resse per diciotto mesi il principato.
Dopo tali disastri, fu il principato di Benevento sottomesso ai greci, e Simbaticio vi esercitò un’autorità sovrana, rifermando alla Badia Cassinese tutti gli ampi privilegi che le concessero i duchi e principi di Benevento; e a Simbaticio, trascorso un anno circa, successe Giorgio Patrizio, e a questi poco dopo Teodoro Turmaca, amendue deputati dall’imperadore in suo luogo al governo di Benevento. Ma abborrendo i beneventani il giogo de’ greci, e non potendo sopportarne le gravezze, se la intesero con Guido duca di Spoleto, il quale col fiore delle sue truppe accorse all’invito, e pugnando strenuamente contro i greci, pose fine dopo poco più di quattro anni alla loro dominazione in Benevento, e così venne fatto ai beneventani di uscire di mano ai greci, senza però riacquistare la loro indipendenza.
Ebbe Guido il governo di Benevento per un anno ed otto mesi, ma avendo avuto notizia che l’imperadore Carlo III era in sin di vita, aspirando a succedergli al trono imperiale, si pose subito in via con la famiglia, e con quello stuolo di prodi che lo avea seguito, facendo dono del principato di Benevento al suo cognato Guaimeri principe di Salerno. Ma questi non potea dar nel genio ai beneventani per essere uomo crudele e di pravi costumi. Laonde quando seppero che Guaimeri erasi mosso alla volta della loro città, commisero ad Adelferio Gastaldo di Avellino, nepote di Roffrido, nobile beneventano, che gli tendesse un agguato lungo la via, e trovasse modo di subitamente spacciarlo. Adelferio aderì ben volentieri alla perfida proposta, e traendo incontro a Guaimario, in sembianza d’amico, sel condusse in sua casa, e inebriatolo nel convito, come a notte alta si fu quegli profondamente addormentato, gli cavò gli occhi, e in tale stato lo fece ricondurre a Salerno.
Dopo un tal fatto, rimasto Benevento privo di principi, i greci tentarono nuovamente d’invadere il principato, talchè fu mestieri richiamare Radelgiso dopo dodici anni che fu sbandito da Aione, e nell’anno 898 rieleggerlo principe di Benevento. Ma Radelgiso non avea nulla appreso dalle passate sventure, nè pose alcuno studio ad acquistarsi la benevolenza dei cittadini, che anzi, affidandosi esclusivamente nel maneggio degli affari al suo cortigiano Vilardo, governò pressochè da tiranno, per cui non pochi nobili beneventani, mandati in esilio da Radelgiso, si refugiarono in Capua, attirati dalle lusinghevoli offerte del conte Atenolfo, che, sebbene dipendente dal principe di Salerno, si comportava tuttavia da sovrano. Costoro offrirono ad Atenolfo il principato di Benevento, e questi, avidissimo d’una tale signoria, se la intese col suo congiunto Attanasio II vescovo e duca di Napoli, che, a ordire inganni e tradimenti, era cima d’uomo, e, seguito dagli emigrati beneventani, seppe col favore delle tenebre entrare inosservato in Benevento, e, fatto prigione lo stesso Radelgiso, fu proclamato in suo luogo principe di Benevento.
In tal guisa Atenolfo dalla condizione di Gastaldo, e dopo di aver retta Capua per anni 13 come conte, e sol di nome dipendente dal principe di Salerno, fu nell’anno 900 dichiarato principe di Benevento, e così della Contea di Capua e del principato di Benevento si costituì un solo Stato.