Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte I/Capitolo XVII
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Delle credenze religiose degli antichi abitatori di Benevento
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CAPITOLO XVII.
Prima di chiudere l’importante periodo storico della colonia Romana in Benevento, credo necessario trattare almeno di volo delle credenze religiose dei beneventani prima che abbracciassero il cristianesimo.
Gli antichi abitatori di Benevento, non dissimili, su ciò dagli altri gentili, idoleggiarono varie divinità, alle quali offrivano incensi e sacrifizii. Coloro che ammisero essere stato Sannio Sabino il fondatore di Benevento1 sostennero che egli adorava un simulacro del Dio Benevento con giovanile e giulivo sembiante. Plinio nel cap. 8 del libro 34 della storia naturale lasciò scritto che il Dio Benevento era dipinto con nella destra una tazza, e nella sinistra una spiga ed un papavero, con le quali cose gli antichi intesero significare la felicità, essendoché la spiga e la tazza non altro indicano che l’abbondanza, e col papavero che insonde nelle membra l’invocata dolcezza del sonno, allusero ai placidi riposi dei felici abitatori di queste ubertose contrade. E di questo Dio Benevento fa menzione un’iscrizione che mezza infranta e cancellata si scerne intagliata in un arco del ponte di Calore. I tanti scrittori i quali accettarono senza esame la tradizione che Diomede avesse fondata, o meglio riedificata, Benevento asserirono che a propiziarsi la Deità di Venere, irata ai popoli greci, Diomede la dedicasse a Venere, appellata Ericinia dal monte Erice, ov’ebbe tempii ed incensi. E benché nelle nostre iscrizioni non ci sia ricordo di lei, tuttavia ci avanza una bellissima favola storiata in basso rilievo, e murata nel cortile del palagio arcivescovile, che non posso trasandare di descrivere.
È la Dea assisa in una sedia con le braccia ignude, vestita di larga gonna, e ha sul capo un velo che pende a man destra, mentre un’ancella, similmente vestita, presso l’omero sinistro di Venere, con le mani posate sul dosso della sedia, è intenta ad udire ciò che questa le dice. Ha Venere la mano dritta sul seno, l’altra posata sul sinistro ginocchio, e i piedi sur uno sgabello. Ha da un lato Cupido, del tutto ignudo, e colle gambe incrociate; e all’altro suo lato è sculta una donzella colla faccia volta a un giovine che presso una porta si tien ritto, interamente ignudo, fuorché l’omero sinistro, e che ha la mano destra levata in alto, e nella sinistra un dardo. Ai suoi piedi è un veltro, e in questo punto il quadro è diviso da un pilastro. Indi segue Adone, montato su un palafreno, che corre a investire un cinghiale, ed è rattenuto da un giovine, vestito d’armi bianche, e con coturno ai piedi; e a mano sinistra è un altro destriere che corre alla volta di un palafreniere di Adone, sotto di cui è sculto un molosso armato di un collare di ferro nell’attitudine di voler lanciarsi contro il cinghiale.
Diversi storici municipali, tra i quali ultimamente il Zigarelli di Avellino, giudicarono che un tal basso rilievo ritragga la caccia di Meleagro, narrata con tanta eleganza dal Boccaccio, e da ciò trassero un altro argomento per avvalorare l’antica tradizione che ascrive a Diomede la fondazione di Benevento; ma i più autorevoli archeologi, che tolsero a studiare il descritto basso rilievo, han già confutato con invincibili argomenti una sì falsa opinione.
I beneventani, dopo le guerre Sannite, adottarono man mano la religione dei vincitori, e s’inchinarono
- «Al culto degli Dei falsi e bugiardi».
Ma più che di altre deità abbondavano in Benevento le memorie di Ercole, ed esistono ancora le reliquie di un antico tempio di Ercole costrutto poco lungi dal fiume Calore, che fu in seguito trasformato in una chiesa campestre dedicata a S. Marciano.
E anche numerose furono in Benevento le memorie dell’idolatria del sole, poiché, oltre gli obelischi mentovati altrove, fu in Benevento una tavola di marmo sacrata al sole, di cui si ha la minuta descrizione nel Nicastro. È saputo che i Rodiani ebbero in uso di dipingere il sole con volto umano, e col capo cinto d’un’aureola di raggi: ed appunto miravasi in Benevento in tal forma effigiato il sole in una tavola di pietra quadra, ed anche nella muraglia che è presso il largo che si dice di Porta Castello vedeasi certa immagine pur di basso rilievo, nella quale non pochi archeologi credettero di raffigurare il sole.
Varie sfingi, ritratte in pregevoli scolture o in bassi rilievi, vedeansi prima dell’ultimo tremuoto, e se ne veggono tuttora gli avanzi nei canti delle strade, e tra questi bassi rilievi assai notevole è quello che si mira infìsso lungo uno dei muri dell antico edificio in cui ora è l’ufficio della Deputazione Provinciale. E non è a meravigliare, poiché le sfingi furono giudicate indispensabili al culto simbolico della Dea Iside, e ornarono un tempo il sacrario della stessa in Benevento.
I gentili conobbero anche il Dio Genio, e adottarono la dottrina che tutti gli uomini si abbiano a guida due genii o lari, i quali, insieme agli avanzi mortali degli uomini commessi alla loro custodia, abitassero ne’ sepolcri; per cui ritennero che la demolizione di questi turbasse la loro quiete. E d’una tale credenza ci fan fede due superstiti iscrizioni, l’una intitolata al genio del luogo, e l’altra ai Dei Mani.
Anche alla dea Fortuna eressero altari gli antichi abitatori di Benevento, come rilevasi da più d’un’antica iscrizione, e in ispecial guisa da una lamina di bronzo trovata nel contado beneventano.
E nella via che da Ariano mena a Montecalvo fu scoperta un’epigrafe che riferma l’opinione di Lorenzo Giustiniani (Dizionario geogr.) «che, nelle terre vicine ad Ariano, gli antichi sacravano are alla febbre, alla tempesta e persino alla demenza».
E, come ebbe luogo tra gli altri popoli idolatri, si tenne viva eziandio in Benevento la fede agli augurii, e fu perciò sondato quivi il Collegio degli auguri. L’ufsicio di costoro consisteva nel divinare le cose future, e furono denominati allgures ed augurium fu detta ogni loro predizione. Essi d’ordinario dal volo e dal canto degli augelli traevano i loro responsi, ai quali davano tanta credenza i Romani, che non fu mai volta che entrassero in battaglia, se prima gli auguri non avessero preconizzata ai loro eserciti la vittoria.
Ma la religione degli antichi popoli, e sino a un certo punto anche il lor grado di coltura, si argomenta principalmente dai riti funebri e dalle loro tombe. I gentili inumavano i cadaveri nelle campagne, e i loro sepolcri erano fabbricati di mattoni e lavorati a modello di casse di legno, e quelli poi che volevano apporvi le iscrizioni faceano erigere nella sotterranea sepoltura un gran pezzo di pietra lavorato da tre facce a foggia di piedistallo. E su questi piedistalli collocavasi un altro pezzo di pietra lavorato a foggia di quadro di basso rilievo da rappresentare il defunto, come può desumersi dai tanti quadri che vedonsi incastrati nei muri di Benevento, i quali, come tuttora si scorge, non contenevano che effigie di persone.
Costumavasi ancora, insieme ai cadaveri, deporre nei tumuli alcune lucerne con certo grasso o altra materia oleosa, e queste lucerne, di cui non poche, finamente lavorate, erano di marmo pario, presentavano per lo più la forma di cassette triangolari, e n’era copiosissimo il numero in Benevento, benché dopo il tremuoto dell’anno 1668 sieno tutte per lo più andate a male. (Verusio).
Non pare che avessero un chiaro concetto della vita futura gli antichi popoli che abitarono Benevento, come risulta da varie iscrizioni, e specialmente dalla seguente epigrafe riportata dal Garrucci.
- zoticvs hic nomen nvdvm
- vanvmq reliqui
- in cineres corpvs et in aethera
- vita solvta est.
Questo Zotico seguiva l’opinione di Panezio e di Cornuto, primarii filosofi storici, che fu poi abbracciata anche da Epitteto e da M. Aurelio Antonino, i quali credevano Puomo composto di due sostanze, una materiale, l’altra causale, e ritenevano che amendue, morendo l’uomo, fondevansi nella sostanza dell’universo dond’erano generate, il corpo nella terrena sostanza e l’anima nell’anima del mondo abitante nell’etere, per essere poi trasformate successivamente in altri corpi. Era in sostanza la dottrina delle sette antiche che chiamavasi Panteismo e Metempsicosi.
Ma nella serie delle antiche iscrizioni funerali di Benevento celebratissima su tutte era quella che riferivasi a una certa Ponzia, di cui non debbo trasandare di far menzione.
Durante l’imperio di Vespasiano e Tito visse in Benevento Ponzia, figlia di Tito Ponzio, madre sì inumana, cui diede il cuore di uccidere per avarizia due suoi figliuoli, ma che poi tutta compresa dall’orrore d’un tanto delitto, di propria mano si uccise, e sul suo sepolcro fece incidere nel marmo la seguente iscrizione, a eternare la memoria di un sì atroce misfatto.
- pontia titi ponti filia hic sum
- quae duobus natis a me ava–
- ritiae opus veneno consumptis
- miserae mihi mortem conscivi
- tu qui hac transis si pius es
- quaeso a me oculos averte
Il poeta Giovenale nella sesta delle sue satire scriveva terribili versi a proposito della Ponzia di Benevento. E anche Marziale chiuse il suo epigramma contro Tulla, che lasciò perire di fama i suoi figli, col seguente verso:
- «O mater qua nec Pontia deteriora»
La iscrizione di Ponzia vedeasi nel ponte, oggi di S. Maria degli Angeli, non solo nei tempi di Pietro Appiano che la impresse nel suo volume, ma altresì di Alsonso de Biasio che la riportava nelle sue opere manoscritte, ora disperse, ed a cui la tolse il Nicastro. Ma la lapide ov era incisa non ci fu conservata dopo i successivi restauri del ponte.
Gisberto Aizill d’Utrecht, che la riportò nel 1617. cadde in due gravi errori. Il primo consistette nel confondere in una due diverse iscrizioni, mentre alla iscrizione da me trascritta, come ci fu trasmessa dall’Appiano, e da Alsonso de Biasio, aggiunse le parole «Pontia e Arurae concubina» che si riferiscono ad una ben diversa epigrafe. Il secondo errore giace nell’affermare che la detta iscrizione era ai tempi suoi in Benevento, appo l’Arco Traiano. Ma il vero si è che delle dette iscrizioni la prima leggeasi, è già molto tempo, in uno dei marmi del Ponte di S. Maria degli Angeli e andò perduta, e la seconda vedeasi nel Portico della patrizia famiglia Sellaroli prima del tremuoto dell’anno 1688, pel quale ruinò il detto portico con le case circostanti; e nel rifarlo non fu più dato di rinvenire la predetta iscrizione.
Note
- ↑ Una tale opinione non credo che sia di così lieve momento, come per avventura potrebbe parere ad alcuni, poiché nei più antichi diplomi dei duchi di Benevento, che si conservano nel nostro Archivio Arcivescovile, si leggono le parole «Samnium hodie Beneventum», e dai frammenti inediti di Alsonso de Biasio si rileva che i longobardi aggiustarono fede a una tale opinione, e la ritennero per la meno infondata, E a quei tempi erano certamente più fresche le patrie tradizioni.