Io ben tre volte dalla spoglia aurata
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XXVII
PER GIO. JACOPO TRIVULZIO
Fu alla battaglia del Taro, ed a quella di
Ghiaradadda, condusse eserciti per nuova
strada sull’Alpi.
Io ben tre volte dalla spoglia aurata
L’eburnea lira mi recai davanti,
D’ogni sua corda armata;
Volea, che tra’ suoi canti
5Sull’ali delle Muse alto levasse
Del buon Trivulzio i vanti;
Ma quanti colpi e quanti
Passaggi in vario tuon l’arco tentasse,
Un roco appena mormorío ne trasse.
10Forse le corde all’alta Esperia amiche
Tacquer di lui, che fu perpetuo Marte
Delle schiere nemiche;
Ma distendendo in parte
Tue vive glorie, Milanese Ulisse,
15Farò mia solit’arte;
Che pur vergò le carte
Penna di Febo, ed altamente scrisse
Di tal che irato anco la patria afflisse.
Nobile alma quaggiù fulminea spira,
20Se grave ingiuria altrui la muove a sdegno,
E di diaspro ha l’ira:
Schivo dell’altrui regno
Forte il Trivulzio armò l’arco Francese,
E ’l suo Milan fe’ segno:
25Or se chiamarlo è degno
Forse crudel, mentre l’Italia offese,
Certo non vil nelle guerriere imprese.
Adda se ’l sa, sallo sanguigno il Taro
Nel dì crudel, che le togate genti
30A loro angoscia armaro;
Il Taro, allorchè intenti
Eran di Carlo ad oscurar gli allori
Gl’Italici frementi;
Ma diè lor speme a’ venti,
35Frenando ei sol col fiammeggiar degli ori
Le destre pronte a trapassar ne i cori.
E non men l’Alpe inaccessibil scorse
Dell’armata sua man gran meraviglia,
Quand’ei primier là corse;
40Ninfe, alpestre famiglia,
Cui danzan nude fra gli aerei calli
Il chiuso orror consiglia,
Di che stupor le ciglia
Gravaste, udendo ed annitrir cavalli
45Per l’alte nubi, e rimbombar metalli?
O glorioso, o venturoso Alcide,
Ch’ode cantar, che tanti mostri ei spense;
Se Gerione ancide
Ei per l’orribil dense
50Caligini sen va, campi di pena,
E per le fiamme accense;
E le tre fauci immense,
Alta guardia di Dite, inclito mena,
Mostro immortal sotto mortal catena.
55Altri è, per cui dal Ciel si mosse un nembo
Di nubi no, ma di bell’oro, e venne
Alla sì chiusa in grembo:
Ei com’Aquila tenne
Celeste via sotto ferrato usbergo,
60Il piè cinto di penne,
E lui, che alto sostenne
Le stelle in Libia, e tutto il Ciel sul tergo,
Fece monte, di gel perpetuo albergo.