Inno a Nettuno/Inno a Nettuno

Inno a Nettuno

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INNO A NETTUNO


Γεράων δὲ θεοῖς κάλλιστον ἀοιδή

Teocrito, Idillio 22, verso ultimo.


     Lui che la terra scuote, azzurro il crine,
a cantare incomincio. Alati preghi
a te, Nettuno re, forza è che indrizzi1
il nocchier fatichevole che corre
5su veloce naviglio il vasto mare,
se campar brama dai sonanti flutti
e la morte schivar: che a te l’impero
del pelago toccò, da che nascesti
figlio a Saturno, e al fulminante Giove
10fratello e al nero Pluto. E Rea, la diva
dal vago crin, ti partorí, ma in cielo
non giá: ché di Saturno astuto nume
gli sguardi paventava. Ella discese
a la selvosa terra il petto carca
15d’acerba doglia, e scolorite avea
le rosee guance. Mentre il sole eccelso
ardea su le montagne i verdi boschi,
e sul caldo terren s’abbandonava
l’agricoltor cui spossatezza invaso
20avea le membra (poi che di Seméle
dal sen ricolmo nato ancor non era
il figlio alti-sonante, ed a gl’industri
mortali sconosciuto era per anche

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il vin giocondo che vigore apporta),
25ella s’assise a l’ombra e, come uscito
fosti del suo grand’alvo, ti ripose
su le ginocchia assai piangendo, e preghi
porse a la Terra e a lo stellato Cielo:
— O Terra veneranda, o Cielo padre,
30deh riguardate a me, se pure è vero
che di voi nacqui, e questo figlio mio
da l'ira di Saturno astuto nume
or mi salvate, sí ch’egli nol veda,
e questi ben ricresca e venga adulto. —
35Cosí pregava Rea di belle chiome,
poi che per te, di fresco nato, in core2
sentia gran téma: e per gli eccelsi monti
ed il profondo mare errando giva
l’eco romoreggiante. Udilla il Cielo
40e la feconda Terra, e nera notte
venne sul bosco, e si sedé sul monte.
Ammutarono a un tratto e sbigottîro
i volatori de la selva, e intorno
con l’ali stese s’aggirâr vicino
45al basso suol. Ma t’accogliea ben tosto3
la diva Terra fra sue grandi braccia;
né Saturno il sapea, ché nera notte
era su la montagna. E tu crescevi,
re dal tridente d’oro, ed in robusta
50giovinezza venivi. Allor che voi
di Rea leggiadra figli e di Saturno,
tutto fra voi partiste; ebbesi Giove,
che i nembi aduna, lo stellato cielo;
il mar ceruleo tu; s’ebbe Plutone
55de l’Averno le tenebre. Ma tutti
tu, de la terra scotitor, vincevi,
salvo Giove e Minerva. E chi potrebbe
con l’Olimpio cozzare impunemente?
Il cielo tu lasciasti, e teco il figlio

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60de la bianca Latona in terra scese:
ed al superbo Laomedonte alzavi4
tu dell’ampio Ilión le sacre mura;
mentre ne’ boschi opachi e ne le valli
de l’Ida nuvolosa i neri armenti
65Febo Apollo pascea: ma Laomedonte,
compíta l’opra tua, la pattuita
mercede ti negò: stolto, ché l’onde5
biancheggianti del pelago spingesti
contr’Ilio tu, che sormontâr le mura
70con gran frastuono mormorando, e tutta
empiêro la cittá di sabbia e limo
co’ prati e le campagne. E tal prendesti
del fier Laomedonte aspra vendetta.
     Ma qual cagione a tenzonar ti mosse
75con Palla diva occhi-cilestra? Atene,
la cecropia cittá, poi ch’appellata
tu la volevi dal tuo nome, e Palla
il suo darle voleva. Ella ti vinse:
ché con la lancia poderosa il suolo
80percosse, e uscir ne fe’ virente olivo
di rami sparsi. Ma tu pur fiedesti
la diva terra col tridente d’oro,
e tosto fuor n’uscí destrier ch’avea6
florido il crine: onde a te diêro i fati7
85i cavalli domar veloci al corso.
I pastori ama Pan, gli arcieri Febo,
cari a Vulcano sono i fabbri, a Marte
gli eroi gagliardi in guerra, i cacciatori
a la vergine Cinzia. A te son grati
90i domatori de’ cavalli; e primo
tu, de la terra scotitor possente,
a’ chiomati destrieri il fren ponesti.
Salve, equestre Nettuno8. I tuoi cavalli
van pasturando ne gli argivi prati
95che a te sacri pur sono; e con la zappa

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il faticoso agricoltor non fende
quel terreno giammai, né con l’aratro.
Ma presti son come gli alati augelli
i tuoi destrieri, ed erta han la cervice;
100né ci ha mortal che trarli possa innanzi
al cocchio sotto il giogo, e con le briglie
reggerli e col flagello e con la voce.
     Qual però de le ninfe a te dilette,
signor del mare, io canterò? la figlia
105di Nereo forse e Doride, Anfitrite?
o Libia chiomi-bella9, o Menalippe
alto-succinta10, o Alòpe, o Calliròe
di rosee guance11, o la leggiadra Alcione,
o Ippotoe12, o Mecionice, o di Pitteo
110la figlia, Etra occhi-nera13, o Chione, od Olbia14,
o l’eolide Canace, o Toosa
dal vago piede15, o la telchine Alia16,
od Amimone candida, o la figlia
d’Epidanno, Melissa?17 E chi potrebbe
115tutte nomarle? e a noverar chi basta
i figli tuoi? Cercion feroce, Eufemo18,
il tessalo Triòpe, Astaco e Rodo,
onde nome ha del sol l’isola sacra19,
e Tèseo20 ed Alirrozio ed il possente
120Triton21, Dirrachio e il battaglioso Eumolpo22
e Polifemo a nume ugual23. Ma questo
canto è meglio lasciar, ché spesso i figli
cagion furono a te d’acerbo lutto.
Polifemo de l’occhio il saggio Ulisse
125in Trinacria fe’ cieco24: Eumolpo spense
in Attica Eretteo: ma ben vendetta
tu ne prendesti, o Scoti-terra, e, morto
lui con un colpo del tridente, al suolo
la casa ne gettasti25. E Marte istesso
130impunemente non t’uccise il figlio
Alirrozio leggiadro26: i numi tutti

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lui concordi dannâr27. Salve, o Nettuno
ampio-possente: a te gl’istmici ludi
e le corse de’ cocchi e degli atleti
135son sacre l’aspre lotte: e neri tori28
in Trezene, in Geresto29 e in cento grandi
cittá di Grecia ogni anno a l’are tue
cadono innanzi; e ne la dorica Istmo
vittime in folla traggono al tuo tempio
140le allegre turbe. Oh salve, azzurro dio
che la terra circondi, alti-sonante,
gravi-fremente. I boschi su le cime
de le montagne crollansi, e le mura
de le cittadi popolose, e i templi
145ondeggiano perfino, allor che scuoti
tu col tridente flebile la terra,
e gran fracasso s’ode e molto pianto30
per ogni strada. Né mortale ardisce
immoto starsi; ma per téma a tutti
150si sciolgon le ginocchia, e a l’are tue
corre ciascun, t’indrizza preghi, e molte
allor s’offrono a te vittime grate31.
     Salve, o gran figlio di Saturno. Il tuo
lucente cocchio è in Ega, nel profondo
155del romoroso pelago32: Vulcano
tel fabbricò, divina opra ammiranda.
Ha le ruote di bronzo, ed il timone
d’argento, e d’oro tutto è ricoperto
l’incorruttibil seggio. Allor che poni
160tu sotto il giogo i tuoi cavalli, e volano
essi pel mare indomito, fendendo
i biancheggianti flutti, e sui lor colli
disperge il vento gli aurei crini, intorno
a te che siedi e il gran tridente rechi
165ne le divine mani, uscite fuori
de le case d’argento a galla tutte
le guanci-belle figlie di Nereo

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vengono tosto, e innanzi a te s’abbassa
l’onda e t’apre la via; né s’alza il vento:
170ché tu del mar l’impero in sorte avesti.
     Ma qual potrò chiamarti, o del tridente
agitatore? altri Eliconio33, ed altri
t’appella Suniarato34. A Sparta detto
sei Natalizio35, ed Ippodromio a Tebe36,
175in Atene Eretteo. Chiamanti Elate37
molti altri, e molti di Trezenio38 o d’Istmio39
ti dánno il nome. I tessali Petreo
diconti40, ed altri Onchestio, ed altri pure
Egeo ti noma41 e Cinade e Fitalmio42.
180Io dirotti Asfaleo, poiché salute
tu rechi a’ naviganti43. A te fa voti
il nocchier quando s’alzano del mare
l’onde canute, e quando in nera notte
percote i fianchi al ben composto legno
185 il flutto alti-sonante, che s’incurva
spumando, e stanno tempestose nubi
su le cime degli alberi, e del vento
mormora il bosco al soffio (orrore ingombra
le menti de’ mortali), e quando cade
190precipitando giú dal ciel gran nembo
sopra l’immenso mare. O dio possente,
che Tenaro e la sacra onchestia selva44
e Micale e Trezene ed il pinoso
Istmo ed Ega e Geresto45 in guardia tieni,
195soccorri a’ naviganti; e fra le rotte
nubi fa’ che si vegga il cielo azzurro
ne la tempesta, e su la nave splenda
del sole o de la luna un qualche raggio
o de le stelle, ed il soffiar de’ venti
200cessi; e tu l’onde romorose appiana,
sí che campin dal rischio i marinai.
O nume, salve, e con benigna mente
proteggi i vati che de gl’inni han cura.

Note

  1. [p. 23 modifica]«A te, Nettuno re». — A Nettuno davasi il nome di re da quei di Trezene. Si veda la nota al v. 136.
  2. [p. 23 modifica]«Poi che per te, di fresco nato, in core Sentía gran téma». — Non ho saputo tradur meglio questo luogo; ove l’originale ha qualche difficoltá, che forse vedremo tolta via nella edizione greco-latina di quest’inno, la qual farassi di corto.
  3. [p. 23 modifica]«Ma t’accogliea ben tosto La diva Terra fra sue grandi braccia». — Pare che il poeta non tenga conto della favola secondo la quale Nettuno fu cresciuto da alcuni pastori.
  4. [p. 23 modifica]«Ed al superbo Laomedonte alzavi Tu de l’ampio Ilión le sacre mura». — È noto che, secondo i poeti, Nettuno fabbricò le mura di Troia, dopo essere stato discacciato dal cielo con Apolline, per aver cospirato contro Giove: e però l’autore parla dell’edificamento di quelle mura, dopo aver detto che Nettuno non poté vincere Giove né Minerva, della quale fa parola appresso.
  5. [p. 23 modifica]«...l'onde Biancheggianti del pelago spingesti Contr’Ilio tu». — Ovidio, Metamorfosi, libro XI, favola 8:

    Non impune feres, rector maris inquit: et omnes
    inclinavit aquas ad avarae litora Troiae:
    inque freti formam terras convertit, opesque
    abstulit agricolis, et fluctibus obruit arva.

    Verso 83. — «E tosto fuor n’uscí destrier ch’avea Florido il crine». — Questo passo è interessante per chi ama la

  6. [p. 23 modifica]«E tosto fuor n’uscí destrier ch’avea Florido il crine». — Questo passo è interessante per chi ama la [p. 24 modifica]mitologia. È assai celebre la contesa di cui fa qui menzione il poeta: e ne hanno parlato, fra gli altri, Varrone, presso Sant’Agostino, Della cittá di Dio, libro XVIII, capo 9; Cicerone nella Orazione in difesa di L. Flacco; Plinio, libro XVI, capo XLIV; Plutarco nella Vita di Temistocle e nelle Simposiache, libro IX, quistione VI; Aristide nella Panatenaica; Eusebio nella Cronica; Nonno nei libri XXXVI e XLIII τῶν Διονυσιακῶν; Ausonio nel Catalogo delle cittá famose; Proclo nel Comento al Timeo di Platone; Menandro il rettorico; l’antico comentatore d’Aristofane nelle note alle Nubi; e tra’ nostri, Dante nel quintodecimo del Purgatorio, verso 97:

    ...Se tu se’ sire della villa,
    del cui nome ne’ dèi fu tanta lite.

    È da notare il luogo di Proclo: ἔτι τοίνυν τὰ νικητήρια τῆς Ἀθηνᾶς παρ'Ἀθηναίοις ἀνάμνηται, καὶ ἑορτὴν ποιοῦνται ταύτην, ὡς τοῦ Ποσειδῶνος ὑπὸ τῆς Ἀθηνᾶς νικωμένου; «oggi pur ancora si celebra il trionfo di Minerva appo gli ateniesi che solenneggian questa festa per ricordanza della vittoria di Nettuno, riportata da quella». — Ora arde controversia fra gli eruditi, de’ quali altri vogliono che Nettuno facesse uscir della terra acqua; altri che un cavallo. Per l’acqua è Apollodoro (Biblioteca, libro III), di cui ecco le parole: Ἦκεν οὖν πρῶτος Ποσειδῶν ἐπὶ τὴν Ἀττικήν, καὶ πλήξας τῇ τριαίνῃ κατὰ μέσην τὴν ἀκρόπολιν, ἀνέφηνε θάλασσαν ἣν νῦν Ἐρεχθηίδα καλοῦσι. «Primo dunque Nettuno venne nell’Attica e, percosso col tridente il suolo nel mezzo della ròcca, fé’ veduto il mare che ora chiamano eretteo». Secondo Varrone, citato da sant’Agostino, «quum apparuisset... repente olivae arbor, et alio loco aqua erupisset, regem prodigia ista moverunt: et misit ad Apollinem Delphicum sciscitatum quid intelligendum esset quidve faciendum. Ille respondit quod olea Minervam significaret, unda Neptunum». — Lo Pseudo-Didimo nelle note al libro XVII della Iliade ci dice, come Apollodoro, che Ποσειδῶν καὶ Ἀθηνᾶ περὶ τῆς Ἀττικῆς ἐφιλοωείκουν, καὶ Ποσειδῶν ἐπὶ τῆς ἀκροπόλεως τῆς Ἀττικῆς [p. 25 modifica]κρούσας τῇ τριαίνῃ, κῦμα θαλάσσης ἐποίησεν ἀναδοθῆναι· Ἀθηνᾶ δὲ . «Nettuno e Minerva facean quistione per l’Attica: e Nettuno, dato nella ròcca un colpo di tridente, fé’ scaturirne acqua marina: Minerva fe’ uscir fuori un olivo». — Nel libro IX, capo I della Collezione Geoponica, l’avvenimento è narrato con qualche differenza, poiché vi si legge che Ποσειδῶν... λιμέσι καὶ νεωρίοις ταύτην (τὴν πόλιν) ἐκόσμει:«Nettuno ornolla (la cittá) di porti e di arsenali». — A dir d’Igino, favola CLXIV: «Inter Neptunum et Minervam quum esset orta certatio, qui primus oppidum in terra Attica conderet, Iovem iudicem ceperunt. Minerva quod primum in ea terra oleam sevit quae adhuc dicitur stare, secundum eam iudicatum est. At Neptunus iratus in eam terram mare coepit irrigare velle: quod Mercurius, Iovis iussu, id ne faceret prohibuit». — Quanta varietá di sentenze intorno a un fatto cosí certo! Sin qui però tutti sono in qualche guisa per l’acqua, e nessuno pel cavallo. Similmente Erodoto, nel libro VIII, afferma che nella ròcca d’Atene avea un tempio in cui vedeasi un olivo e dell’acqua marina postivi, a detta degli ateniesi, da Nettuno e da Minerva. Né altramente Pausania ci conta che in quella ròcca erano καὶ τὸ φυτὸν τῆς ἐλαίας Ἀθηνᾶ, καὶ κῦμα ἀναφαινῶν Ποσειδῶν: «i simulacri di Minerva e di Nettuno che facean comparire, quella un ulivo, e questo acqua». — Battista Egnazio dunque, nel capo VIII del libro che intitolò Racemationes, credé conchiudere a buon dritto che Nettuno, nella contesa avuta con Minerva, fe’ uscir della terra acqua e non un cavallo. Ma Virgilio dice a chiare note l’opposto nel principio delle Georgiche, invocando Nettuno:

    ...Tuque o, cui prima frementem
    fudit equum magno tellus percussa tridenti,
    Neptune:

    dove alcuno vorrebbe leggere «fudit aquam», ma invano, ché nol permettono i codici. Servio, spiegando questo passo, espone tutta la favola cosí: «Cum Neptunus et Minerva de Athenarum nomine contenderent, placuit diis ut eius nomine  [p. 26 modifica]civitas appellaretur, qui munus melius mortalibus obtulisset. Tunc Neptunus, percusso littore, equum, animal bellis aptum, produxit: Minerva, iacta hasta, olivam creavit: quae res est melior comprobata, ut pacis insigne. Ut autem modo Neptunum invocet, causa eius muneris facit, quia de equis est dicturus in tertio: alioquin incongruum est, si de agricultura locuturus, numen invocet maris. Equum autem a Neptuno progenitum alii Scythium, alii Syronem, alii Arionem dicunt fuisse nominatum [e quanto al nome di Arione, veggasi appresso il luogo di Stazio nella nota al verso 85] et ideo dicitur equum invenisse, quia velox est eius numen et mobile sicut mare». — L’autoritá d’Ovidio, Metamorfosi, libro IV, favola 3, è controversa. Egli dice, descrivendo una tela tessuta da Pallade:

    Stare deum pelagi longoque ferire tridente
    aspera saxa facit, medioque e vulnere saxi
    exsiluisse ferum, quo pignore vindicet urbem.

    Ma altri sostiene che per «ferum» si ha a leggere «fretum». Stazio, Tebaide, libro XII, non parla di cavallo, ma di mare:

    Ipse quoque in pugnas vacuatur collis, ubi ingens
    lis superum, dubiis donec nova surgeret arbor
    rupibus, et longa refugum mare frangeret umbra.

    Ma il suo commentatore Luttazio Placido scrive cosí: «Acropolin dicit arcem Athenarum; de qua Neptuno et Minervae dicitur fuisse certamen. Percussa Neptuno terra equum dedit indicium belli; Minerva vero olivam pacis insigne». Benedetto Averani nelle sue Dissertazioni tiene anch’esso dal cavallo. Quest’inno avrebbe potuto somministrargli una prova di piú, molto valevole, se egli l’avesse conosciuto.

  7. [p. 26 modifica]«...onde a te diêro i fati I cavalli domar veloci al corso... e primo Tu de la terra scotitor possente A’ chiomati destrieri il fren ponesti». — È noto che gli antichi teneano Nettuno per dio non solo del mare, ma anche dei [p. 27 modifica]cavalli, dei cavalieri dell’arte equestre: della quale Sofocle, Pausania nel libro VIII e, a quel che sembra, il nostro poeta, lo fanno inventore. Panfo ateniese, antichissimo scrittor d’inni, lo chiama, presso Pausania, ἵππον δοτῆρα, «dator dei cavalli»; e Pindaro nell’ode Olimpica XIII, δαμαῖον πατέρα, «padre domatore» e nella quarta Pitia, Ἵππαρχον che è quanto dire «principe de’ cavalli», o de’ cavalieri. Omero finge che Nettuno donasse a Peleo i cavalli che poi furono di Achille. Nestore nel libro XXIII della Iliade dice ad Antiloco:

    Άντίλοχ᾽, ἤτοι μέν σε νέον περ ἐόντ᾽ ἐφίλησαν
    Ζεύς τε, Ποσειδάων τε, καὶ ἱπποσύνας ἐδίδαξαν
    παντοίας.

    ....Al certo,
    benché garzon sii tu, Giove e Nettuno,
    Antiloco, t’amâro, e l’arti equestri
    t’insegnâr tutte.

    E Menelao nello stesso libro, finito il combattimento equestre, impone ad Antiloco che giuri per Nettuno. Pindaro nella prima ode Olimpica dice che Nettuno

     Ἔδωκεν δίφρον χρύσεον, ἐν πτεροῖ-
    σίν τ᾽ ἀκάμαντας ἵππους

    ...Un cocchio d’oro a lui
    e cavalli donò d’ali indefesse,

    parlando di Pelope: e nel fine dell’ode quinta chiama Ποσειδανίους, «nettunii», i cavalli di Psaumide camarineo, vincitore olimpico. Si volle ancora che alcuni cavalli fossero della razza di Nettuno.

    Quamvis saepe fuga versos ille egerit hostes,
    et patriam Epirum referat fortesque Mycenas,
    Neptunique ipsa deducat origine gentem:

     [p. 28 modifica]dice Virgilio di un cavallo nel libro III delle Georgiche, Stazio nel sesto della Tebaide canta del cavallo di Adrasto:

    Ducitur ante omnes rutilae manifestus Arion
    igne iubae. Neptunus equo, si certa priorum
    fama, pater: primus teneris laesisse lupatis
    ora, et littoreo domitasse in pulvere fertur
    verberibus parcens, etenim insatiatus eundi
    ardor, et hiberno par inconstantia ponto.
    Saepe per Ionium Libycumque natantibus ire
    interiunctus equis, omnesque assuetus in oras
    caeruleum deferre patrem. Stupuere relicta
    nubila: certantes Eurique Notique sequuntur.

    Veggasi piú sopra nella nota al v. 83 il passo di Servio, e altresí il libro XXIII della Iliade, verso 345 e seguente. Parmi non s’appongano Servio e gli altri interpreti, che, spiegando il verso 691 del settimo della Eneide:

    At Messapus equum domitor, Neptunia proles,

    dicono avere il poeta chiamato Messapo «prole di Nettuno», perché egli era venuto per mare in Italia: spiegazione assai stiracchiata: e penso che Virgilio medesimo spieghi ottimamente la seconda parte del verso colla prima in cui chiama Messapo «domator di cavalli», qualitá per cagione della quale, se non erro, egli lo fa poi figlio di Nettuno. E notisi come nella Eneide Messapo non è mai detto «figlio di Nettuno» che non sia chiamato altresí «domatore di cavalli» o in altra simil guisa: onde nel libro IX si ripete tutto intero il verso citato: nel duodecimo esso trovasi pure quasi intero, mutato solo l’«at» in «et», e nel decimo si legge:

       ...Subit et Neptunia proles
    insignis Messapus equis.

  8. [p. 28 modifica]«Salve, equestre Nettuno». — I greci davano spesso a Nettuno il nome d’ἵππειος, «equestre», del quale, [p. 29 modifica]come della sentenza di quelli che reputavano Nettuno essere stato il primo domatore de’ cavalli ed avere insegnata l’arte del cavalcare, fa menzione Diodoro nel libro V, capo XV della Biblioteca. Aristofane nelle Nubi, atto I, scena I, fa giurare Fidippide per Nettuno equestre. Fuori di Atene in un luogo detto Colono avea un tempio di Nettuno equestre, ricordato da Tucidide nel libro VIII, da Arpocrazione, alla voce Κολωναῖται, e dall’antico comentatore di Sofocle, nell’argomento dell'Edipo colonese e nelle note a quella tragedia. Pausania, parlando del Colono, rammenta l’altare di Nettuno equestre.
  9. [p. 29 modifica]Verso 106. — «O Libia chiomi-bella». — Mosco, Idillio II, verso 36 e seguenti:

    Αὐτὴ δὲ χρύσεον τάλαρον φέρεν Εὐρώπεια
    θηητόν, μέγα θαῦμα, μέγαν πόνον Ἠφαίστοιο
    ὅν Λιβύῃ πόρε δῶρον, ὅτ’ ἐς λέχος Ἐννοσιγαίου
    ἵεν.

    . . . . . . . . . . . . Europa avea
    aureo panier bellissimo, ammirando,
    grand’opra di Vulcan, che a Libia in dono
    il diede allor quand’ella di Nettuno
    lo scoti-terra al talamo recossi.

    Veggasi Apollodoro, Biblioteca libro II.

  10. [p. 29 modifica]«...o Menalippe alto-succinta». — Clemente alessandrino, Esortazione ai gentili: Κάλει μοι τὸν Ποσειδῶ καὶ τὸν χόρον τὸν διεφθαρμένον ὑπ’ αὐτοῦ, τὴν Ἀμφιτρίτην, τὴν Ἀμυμώνην, τὴν Ἀλόπην, τὴν Μεναλίππην, τὴν Ἀλκυόνην, τὴν Ἱπποθόην, τὴν Χιόνην, τὰς ἄλλας τὰς μυρίας. «Chiamami qua Nettuno e la schiera violata da lui, Anfitrite, Amimone, Alope, Menalippe, Alcione, Ippotoe, Chione, e le altre innumerevoli». Arnobio, Contra le nazioni, libro IV: «Numquid enim a nobis arguitur rex maris, Amphitritas, Hippothoas, Amymonas, Menalippas, Alcyonas, per furiosae cupiditatis ardorem,  [p. 30 modifica]castimoniae virginitate privasse? -». Giulio Firmico, Dell’errore delle religioni profane, cap. 13: «Quis Amymonem, quis Alopen, quis Menalippen, quis Chionem Hippothoenque corrupit? Nempe Deus vester haec fecisse memoratur». Possono vedersi san Teofilo, Ad Autolico, libro II, capo 7; san Giustino, Orazione ai greci, capo II; san Cirillo, Contra Giuliano, libro VI. Taluno credea che il vero nome della fanciulla fosse «Melanippe». Ma anche il codice di quest’inno ha «Menalippe».
  11. [p. 30 modifica]«...o Alòpe». — Si veggano i passi di Clemente alessandrino e di Giulio Firmico nella nota precedente, e san Cirillo nel luogo quivi citato. Ivi. — «...o Calliròe Di rosee guance». — Calliroe, una delle figlie dell’Oceano e di Teti, è ricordata da molti scrittori antichi; ma nessuno, che io sappia, tranne il nostro poeta, ne fa avvisati che amolla Nettuno.
  12. [p. 30 modifica]«...o la leggiadra Alcione, O Ippotoe». — È da vedere la nota seconda al verso 106.
  13. [p. 30 modifica]«...o Mecionice». — Esiodo nello Scudo d’Ercole, e l’antico comentatore di Pindaro nelle note alla quarta ode Pitica, scrivono che Eufemo, uno degli Argonauti, figlio di Nettuno, fu partorito da Mecionice. Pindaro però nell’ode medesima dice che Eufemo fu messo al mondo da Europa, figlia di Tizio, su le rive del Cefiso. Notisi che Mecionice è detta figlia di Eurota, e che Pindaro chiama Europa la madre di Eufemo. Ivi. — «...o di Pitteo La figlia, Etra occhi-nera». — Madre di Teseo. Veggasi appresso la nota prima al verso 119.
  14. [p. 30 modifica]«...o Chione». — Si vegga piú sopra la nota seconda al verso 106. Ivi. — «...od Olbia». — Stefano il geografo, alla voce: Ἀστακός: Ἀστακός, πόλις Βιθυνίας, ἀπὸ Ἀστακοῦ τοῦ Ποσειδῶνος καὶ νύμφης Ὀλβίας. «Astaco, cittá di Bitinia, cosí detta da Astaco figlio di Nettuno e della ninfa Olbia».
  15. [p. 30 modifica]«O l’eolide Canace». — Può vedersi l’Inno a Cerere di Callimaco. Ivi. — «...O Toosa dal vago piede». — Omero, Odissea libro I, verso 68 e seguenti: [p. 31 modifica]

    Ἀλλὰ Ποσειδάων γαιήοχος ἀσκελὲς αἰὲν
    Κύκλωπος κεχόλωται, ὃν ὀφθαλμοῦ ἀλάωσεν,
    ἀντίθεον Πολύφημον, ὅου κράτος ἐστὶ μέγιστον
    πᾶσι Κυκλώπεσσι. Θόωσα δέ μιν τέκε νύμφη,
    Φόρνυκος θυγάτηρ, ἁλὸς ἀτρυγέτοιο μέδοντος,
    ἐν σπέσσι γλαφυροῖσι Ποσειδάωνι μιγεῖσα.

    Ma Nettun che la terra intorno aggira,
    di terribile sdegno è sempre acceso
    per lo Ciclope ch’ei de l’occhio ha privo,
    per Polifemo a nume ugual, che avanza
    tutti i ciclopi in gagliardia. La ninfa
    Toosa partorillo, a cui fu padre
    Forcine, un dio de l’infecondo mare,
    a Nettuno commista in cavi spechi.

  16. [p. 31 modifica]«...o la telchine Alía». — Diodoro, Biblioteca, libro V, capo 13: Ποσειδῶνα δε (φασὶν) ἀνδρωθέντα ἐρασθῆναι τῆς τῶν τελχίνων ἀδελφῆς Ἁλίας, καὶ μιχθέντα ταύτῃ, γεννῆσαι θυγατέρα Ῥόδον· ἀφ᾽ ἧς τὴν νῆσον ὠνόμασθαι. «Dicono che Nettuno fatto adulto, innamorossi di Alia, sorella dei telchini, e avuto a fare seco lei, generonne una figlia chiamata Rodo, dalla quale vogliono che l’isola abbia tratto il nome». Telchini appellavansi, come è fama, gli antichissimi abitatori di Rodi.
  17. [p. 31 modifica]«Od Amimone candida». — Una delle Danaidi. Si vedano gli scrittori di favole, e piú sopra la nota seconda al verso 106. Ivi. — «...o la figlia d’Epidanno, Melissa?». — Costantino porfirogeneta, Dei temi, libro II, tema 9: Τούτου (Ἐπιδάμνου) θυγάτηρ Μέλισσα, ἧς καὶ τοῦ ποσειδῶνος ὁ Δυῤῥάχιος. Ἀφ᾽ ἧς ἐστι τόπος ἐν Ἐπιδάμνῳ Μελισσώνιος, ἔνθα Ποσειδῶν αὐτῇ συνῆλθε. «Di questi (Epidanno) fu figlia Melissa, della quale e di Nettuno nacque Dirrachio. Da essa ha tratto il suo nome un luogo di Epidanno, detto Melissonio, ove Nettuno ebbe affare con lei».
  18. [p. 31 modifica]«...Eufemo». — Si vegga la nota prima al verso 109.
  19. [p. 32 modifica]«Il tessalo Triòpe». — Partorito da Canace. Si vegga l’Inno a Cerere di Callimaco. Ivi. — «...Astaco e Rodo, Onde nome ha del sol l’isola sacra». — Possono vedersi le note ai versi 110 e 112.
  20. [p. 32 modifica]«E Tèseo». — Questo eroe da alcuni fu fatto figlio di Egeo, da altri di Nettuno. Veggasi Plutarco nella sua Vita, Euripide e Seneca negl’Ippoliti, Isocrate nell’Elogio di Elena, Diodoro nel libro IV, cap. 5, della Biblioteca, Apollodoro nel libro III, Igino nella Favola 35, Cicerone nel terzo libro Della natura degli dei, Aristide nella Orazione in lode degli Asclepiadi.

    At procul ingenti Neptunius agmina Theseus
    angustat clypeo, propriaeque exordia laudis,
    centum urbes umbone gerit centenaque Cretae
    moenia:

    dice Stazio nell’ultimo libro della Tebaide.

  21. [p. 32 modifica]«...ed Alirrozio». — Euripide nel fine della Elettra; Demostene, Contra Aristocrate; Eschine, epistola XI, Epoche d’Oxford; Pausania, libro I; San Massimo, prologo dei Comenti alle opere di san Dionigi Areopagita; antico comentatore di Giovenale, note alla satira IX. Ivi. — «...ed il possente Triton». — Esiodo, Teogonia, verso 930 e seguente:

         Ἐκ δ’Ἀμφιτρίτης καὶ ἐρικτύπου Ἐννοσιγαίου
         Τρίτων εὐρυβίης γένετο μέγας.

         . . . . . . . . . . . . Ma d’Anfitrite
         e de lo Scoti-terra alti-sonante
         nacque il grande Triton da l’ampia possa.

  22. [p. 32 modifica]«Dirrachio». — È da vedere la nota seconda al verso 113. Ivi. — «...e il battaglioso Eumolpo». — Si legga appressa la nota al verso 125.
  23. [p. 33 modifica]«E Polifemo a nume ugual». — Può vedersi piú sopra la nota seconda al verso 111.
  24. [p. 33 modifica]«Polifemo de l’occhio il saggio Ulisse In Trinacria fe’ cieco». — Omero, Odissea, libro IX.
  25. [p. 33 modifica]

    Eumolpo spense
    in Attica Eretteo; ma ben vendetta
    tu ne prendesti, o Scoti-terra, e morto
    lui con un colpo del tridente, al suolo
    la casa ne gettasti.

    Igino, Favola 46, narra la cosa un po’ altramente. Ecco le sue parole: «Eumolpus Neptuni filius, Athenas venit oppugnaturus, quod patris sui terram Atticam fuisse diceret. Is victus cum exercitu, cum esset ab Atheniensibus interfectus, Neptunus, ne filii sui morte Erechteus laetaretur, expostulavit ut eius filia Neptuno immolaretur. Itaque Orithyia filia cum esset immolata, ceterae, fide data, se ipsae interfecerunt: ipse Erechteus, Neptuni rogatu, fulmine est ictus». — Euripide però nello Ione è d’accordo col nostro poeta. Dice Creusa di Eretteo suo padre:

    Πληγαὶ τριαίνης ποντίου σφ’ ἀπώλεσαν

    . . . . . . . . . . Da’ colpi
    del marino tridente egli fu morto.

    Apollodoro non designa il genere di morte onde perí Eretteo, ma dice, come l'autore di quest’inno, che Nettuno rovinò anche la sua casa.

  26. [p. 33 modifica]«...E Marte istesso Impunemente non t’uccise il figlio Alirrozio leggiadro». — Pausania, libro I: Ἔστι δὲ ἐν αὐτῷ κρήνη παρ ’ ᾗ λέγουσι Ποσειδῶνος παῖδα Ἀλιῤῥότιον, θυγατέρα Ἄρεως Ἀλκίππην αὶσχύναντα, ἀποθανεῖν ὐπὸ Ἄρεως. «Quivi ha una fonte, presso cui dicono che Marte uccidesse Alirrozio figlio di Nettuno, il quale avea violata la sua figlia Alcippe».
  27. [p. 33 modifica]«...i numi tutti Lui concordi dannâr». — Aristide, Orazione panatenaica: Λαγχάνει Ποσειδῶν Ἄρει δίκην [p. 34 modifica]ὑπὲρ τοῦ παιδός, καὶ νικᾷ ἐν ἅπασι τοῖς Θεοῖς· καὶ τὴν ἐπώνυμον ὁ τόπος (ὁ Ἄρειος πάγος) λαμβάνει τὴν αὐτήν. «Muove lite Nettuno a Marte per cagione del proprio figlio, e la vince co’ voti di tutti gli dèi; e da questo avvenimento il luogo (l’Areopago) trae il suo nome». Sono da vedere però intorno a questo famosissimo giudizio, Lattanzio, libro I, cap. 10, e libro V, cap. 3; Sant’Agostino, Della cittá di Dio, libro XVIII, cap. 10, ed altri, fra’ quali i citati nella nota seconda al verso 119.
  28. [p. 34 modifica]«...e neri tori». — S’immolavano tori a Nettuno, come si raccoglie anche da Omero, Iliade, libro XI, verso 727; da Pindaro, Ode Olimpica XIII, verso 98 e seguente; Pitica IV, verso 365 e seguente; Nemea VI, verso 69; e da Virgilio, Eneide, libro II, verso 201 e seguente, libro III, verso 119; e i tori erano neri, che apparisce sí da questo luogo dell’inno come dal libro III, verso 6, della Odissea. Parmi da notare che in Efeso i giovani che facean da coppieri nella festa di Nettuno, eran detti Ταῦροι «Tauri» ossia Tori, come vedesi in Ateneo, libro X, e in Eustazio, Comento al ventesimo della Iliade; e forse questa era quella chiamata Ταύρεια «Taurea» che Esichio dice essersi celebrata in onore di Nettuno.
  29. [p. 34 modifica]«In Trezene». — Cittá dell’Argolide, sacra a Nettuno, e però detta «posidonia», cioè «nettunia», al rapportare di Strabone. Dice Plutarco, nella Vita di Teseo, che Ποσειδῶνα... Τροιζήνιοι σεβουσι διαφερόντως, καὶ θεὸς οὗτος ἔστιν αὐτοῖς πολιοῦχος, ᾧ καὶ καρπῶν ἀπάρχονται, καὶ τριαιναν ἐπίσημον ἔχουσι τοῦ νομίσματος: «quei di Trezene rendono un singolare onore a Nettuno, dio tutelare della loro cittá; gli offrono le primizie dei frutti, ed hanno il tridente per insegna della loro moneta». Pausania, libro II, nota lo stesso delle antiche monete dei trezenii, e dice inoltre che essi Ποσειδῶνα (σέβουσι) βασιλέα ἐπίκλησιν: «onorano Nettuno sotto il titolo di re». Ivi. — «...in Geresto». — Porto illustre e castello che Plinio chiama «cittá», nel promontorio dello stesso nome in Eubea. V’avea un tempio famosissimo di Nettuno ricordato da Strabone, libro X, e da Stefano il geografo, alla voce Γεραιστός. [p. 35 modifica]Il comentator greco di Pindaro nelle note all’Ode Olimpica XIII, scrive che ἑν Εὐβοίᾳ Γεραίστια ὑπὸ πάντων Γεραιστίων ἄγεται τῷ Ποσειδῶνι, διὰ τὸν συμβάντα χειμῶνα περὶ Γεραιστόν: «nell’Eubea tutti quei di Geresto celebrano una festa in onore di Nettuno, a cagione di una procella accaduta presso Geresto».
  30. [p. 35 modifica]Verso 147. — «E gran fracasso s’ode e molto pianto». — Ho cercato nella traduzione di serbare, quanto era possibile, l’armonia espressiva che è nel testo.
  31. [p. 35 modifica]«...e a l’are tue Corre ciascun, t’indrizza preghi, e molte Allor s’offrono a te vittime grate». — Senofonte, Della repubblica de’ lacedemoni: Σεισμοῦ γενομένου, οἱ Λακεδαιμόνιοι ὕμνησαν τὸν περὶ Ποσειδῶνος παιᾶνα, καὶ Ἀγηεσίπολις τῇ ὑστεραίᾳ θυσάμενος Ποσειδῶνι. «Sentitosi un tremuoto, i lacedemoni cantarono il peane di Nettuno, a cui nel dí vegnente Agesipoli offrí un sacrifício».
  32. [p. 35 modifica]«...Il tuo Lucente cocchio è in Ega, nel profondo Del rumoroso pelago». — Omero, Iliade, libro XIII, verso 21 e seguenti.
  33. [p. 35 modifica]«...altri Eliconio». — Veggansi Omero, Iliade, libro XXIII, verso 404, e i comentatori a quel luogo; Pausania, libro VII; Eustazio, Comento alla Iliade, libro II, Beozia, verso 82; l’Inno a Neltuno attribuito ad Omero, verso 3, e la nota al verso 193.
  34. [p. 35 modifica]«...ed altri T’appella Suniarato». — Nettuno fu chiamato cosí, perché se gli rendeva culto particolare in Sunio, promontorio dell’Attica. Possono vedersi Aristofane ne’ Cavalieri e negli Uccelli, e il suo antico comentatore nelle note a quelle commedie.
  35. [p. 35 modifica]«A Sparta detto Sei Natalizio». — Pausania, libro III: Τοῦ θεάτρου δὲ (τοῦ ἐν τῇ Σπάρτῃ) οὐ πόῤῥω, Ποσειδῶνος τε ἱερόν ἐστι Γενεθλίου, καὶ ἡρῶα Κλεοδαίου τοῦ Ὕλλου, καὶ Οἰβάλου. «Non lungi dal teatro (di Sparta) sono il tempio di Nettuno Natalizio e i monumenti eroici di Cleodeo figlio di Ilio e di Ebaio».
  36. [p. 35 modifica]«...ed Ippodromio a Tebe». — Pindaro, Ode Istmica I, verso 78.
  37. [p. 36 modifica]«in Atene Eretteo». — Plutarco, Vita di Licurgo; Atenagora, Ambasciata per li cristiani, capo I; Esichio, voce Ἐρεχθεύς; Apollodoro, Biblioteca, libro III, ove si legge: «erittonio». Ivi. — «...Chiamanti Elate molti altri». — Esichio, voce Ἐλάτης.
  38. [p. 36 modifica]«...di Trezenio». — Veggasi piú sopra la nota prima al verso 136.
  39. [p. 36 modifica]«...o d’Istmio». — Pindaro, Ode Olimpica XIII, verso 4 e seguente. I giuochi istmici e l’Istmo medesimo, ove era un tempio di Nettuno mentovato da Pausania, libro II, erano sacri a quel dio. «In eo (Isthmo) — dice Pomponio Mela, libro II, capo 3 — oppidum Cenchreae, fanum Neptuni, ludis, quos isthmicos vocant, celebre». Callimaco, nell’Inno a Delo nomina Cencri come luogo singolarmente sacro a Nettuno.
  40. [p. 36 modifica]«...I tessali Petreo Diconti». — Anche Pindaro, Ode Pitica IV, verso 246, dá questo nome a Nettuno.
  41. [p. 36 modifica]«...ed altri Onchestio». — In onore di Nettuno Onchestio celebravano i tebani una festa ricordata da Pausania, libro IX. Veggasi la nota seconda al verso 192. Ivi. — «...ed altri pure Egeo ti noma». — Virgilio, Eneide, libro III, verso 73 e seguente:

    Sacra mari colitur medio gratissima tellus
    Nereidum matri et Neptuno Aegeo.

    Licofrone, verso 135, chiama Nettuno Αἰγαιῶνα, e Pindaro, Ode Nemea V, verso 68 e seguente, dice che egli soventi volte recavasi all’Istmo, Αἰγᾶθεν, «da Ega». Veggansi il passo di Stazio nella nota prima al verso 192. Omero, Iliade, libro XIII, verso 20 e seguenti, e Odissea, libro V, verso 381; l’Inno a Nettuno ascritto al poeta stesso, verso 3; Strabone, libro VIII e IX, e Stefano il geografo.

  42. [p. 36 modifica]«...e Cinade». — Esichio, voce Κυνάδης. Ivi. — «...e Fitalmio». — Il significato del nome Φυτάλμιος «Fitalmio» non è abbastanza certo. Esichio dice essere [p. 37 modifica]questo un epiteto di Giove τοῦ ζωογόνου, cioè generatore di animali: da che potrebbe argomentarsi che questo nome non fosse diverso da quello di Γενέθλιος, che io poco sopra in quest’inno ho renduto «Natalizio». Ma che cotesti siano due nomi differenti apparisce sí da quest’inno medesimo, come da Plutarco, che nelle Simposiache, libro V, quistione 3, riferisce il nome «Fitalmio» non agli animali a cui appartiene l’altro «Natalizio» ma alle piante; ed è superfluo l’osservare che φυτόν in effetto vale «pianta».
  43. [p. 37 modifica]«Io dirotti Asfaleo, poiché salute tu rechi a’ naviganti». — Antico comentatore di Aristofane, note agli Acarnesi: Ἀσφάλειος Ποσειδῶν παρὰ Ἀθηναίοις τιμᾶται ἵνα ἀσφαλῶς πλέωσιν. «A Nettuno Asfaleo rendon culto gli ateniesi, a fine di navigare alla sicura». Strabone, libro I, parla di un tempio Ποσειδῶνος Ἀσφαλίου, «di Nettuno Asfaleo» o «Asfalia», alzato in certa isola da quei di Rodi. Veggansi il luogo di Suida nella nota che segue; Macrobio, Saturnali, libro I, capo 17; ed Eustazio, Comento al primo della Iliade, verso 36, e al quinto, verso 334 e seguenti. Ἁσφάλεια vale «sicurtá».
  44. [p. 37 modifica]«Che Tenaro». — Comentator greco di Tucidide, note al libro I: Ταίναρον, ἀκροτήριον Λακωνικῆς, ἱερὸν Ποσειδῶνος. «Tenaro, promontorio di Laconia e tempio di Nettuno». Aristofane, Acarnesi:

    Ὁ Ποσειδῶν, ἐπὶ Ταινάρῳ θεός
    Nettuno, il dio che in Tenaro s’onora.

    Stazio, Tebaide, libro II:

    Ast ubi prona dies longos super aequora fines
    exigit, atque ingens medio natat umbra profundo;
    interiore sinu frangentia littora curvat
    Taenarus, expositos non audax scandere fluctus.
    Illic Aegeo Neptunus gurgite fessos
    In portum deducit equos.

    Cornelio Nipote, Vita di Pausania: «Fanum Neptuni est Taenari, quod violare nefas putant Graeci». — Pomponio Mela[p. 38 modifica]libro II, capo 3: «In ipso Taenaro, Neptuni templum». Questo tempio a dir di Strabone, libro VIII, era in un bosco, e per testimonianza di Pausania, libro III, somigliava una spelonca. Avanti ad esso era una statua di Nettuno, che onoravasi in quel tempio sotto il titolo di asfaleo, sí come ne insegnano queste parole di Suida: Ταίναρον, ἀκτωτήριον Λακωνικῆς, ἔνθα καὶ Ποσειδῶνος ἱερὸν Ἀσφαλίου: «Tenaro, promontorio della Laconia, dove è pure un tempio di Nettuno Asfaleo». Si celebrava in Tenaro una festa ad onore di Nettuno, della quale è fatta menzione da Esichio alla voce Ταιναρίας. Possono vedersi Tucidide nel libro primo, Plutarco nella Vita di Pompeo, e Stefano il geografo.

    Ivi. — «...e la sacra onchestia selva». — Omero, Iliade, libro II. Beozia, verso 13:

    Ὀγχηεστόν θ’ ἱερὸν Ποσειδήϊον ἀγλαὸν ἄλσος.

    . . . . . . . . . . Ed Onchesto
    sacra a Nettuno luminosa selva.

    Dione Crisostomo, Orazione corintiaca. Ῥόδος μὲν Ἡλίου, Ὀγχηεστὸς Ποσειδῶνος: «Rodi è sacra al sole, Onchesto a Nettuno». Onchesto era cittá di Beozia. Pindaro nella quarta Ode Istmica, verso 33, chiama Nettuno Ὀγχήστου οἰκέοντα, 4: «abitatore di Onchesto». Sono da vedere anche l’ode I, verso 46; Pausania nel libro IX; Eustazio nel Comento alla Iliade, verso citato, e piú sopra la nota prima al verso 178.

  45. [p. 38 modifica]«E Micale». — Micale era un luogo della Ionia, che Erodoto, libro I, capo 148, chiama «sacro», situato incontro a Samo, nel quale, al rapportare di Diodoro, libro V, gli abitanti di sette cittá della Ionia si adunavano per fare grandi sacrifíci di antica istituzione a Nettuno τῷ Ἑλικωνίῳ, «Eliconio», come dice Strabone. Questa festa chiamavasi Πανιώνια, cioè «ragunamento di tutti que’ della Ionia», e ne fa menzione anche Eustazio, Comento alla Iliade, libro II; Beozia, verso 10 e 82. Ivi. — «...e Trezene ed il pinoso Istmo ed Ega e Geresto». — Si veggano le note ai versi 136, 176 e 178.