Il tesoro (Deledda)/Capitolo XV

Capitolo XV

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Capitolo XIV

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XV.


Dal giorno seguente le nuvole cominciarono ad accavallarsi sull’orizzonte, rappresentando, come nella ballata di Gautier, strani miraggi di piombo, miniati di fuoco o sfumati in toni grigi, nebbiosi ed umidi. Erano città di bruma, palazzi e torri sottili, trasparenti come veli di pioggia, e cattedrali fantastiche, cupole di granito umido, parchi e giardini dipinti a pastello, ponti d’acciaio gettati attraverso larghi fiumi stagnanti e lividi, e pianure allagate di vapori rossastri, e lontani laghi vitrei e foreste violacee che tremavano camminando e dissolvendosi verso ignoti lidi — e infine mari di pietre, scogli turchinicci e montagne altissime, montagne di bronzo che serravano e oscuravano tutto l’orizzonte.

Elena non scendeva più nel giardinetto, ove gli alberi oramai spogli del tutto ripiegavano i rami rossastri, cosparsi di perle gialle di resina quasi liquida, al soffio del vento freddo, che portava dalla montagna larghe ondate di vapori grigi ed amari come fumo.

I vividi occhi d’Elena andavano spegnendosi a poco a poco, quasi velati dalle nebbie dell’autunno morente; una immensa tristezza le [p. 312 modifica] gravava sul cuore, ed aveva la sensazione di dover morire; la volontà di ribellarsi al triste pensiero non la sosteneva più.

Passava intere giornate a letto, in una immobilità grave e quasi letargica; riceveva le visite dei medici e sorbiva le medicine con la docilità di una bambina buona.

Quando pensava di dover morire, tutti i particolari della sua serena esistenza di fanciulla, tutte le dolcezze delle sue abitudini, tutti gli oggetti famigliari le passavano davanti alla mente, e l’idea di lasciar ogni cosa, la costringeva a piangere quel pianto che è la più alta commiserazione di noi stessi, allorchè sentiamo sovrastarci una rovina.

Tutta l’angoscia misteriosa e solenne della morte la dominava; pensava al dolore che avrebbero sofferto sua madre, sua sorella e suo fratello, all’accoramento loro dopo la sua sparizione dalla casa e dalla vita, e i più piccoli particolari dell’esistenza trascorsa le si presentavano con dolcezza struggente. Da Lyly alla banderuola del peristilio, dal ritratto di Paolo nel salotto all’ultima foglia dei rosai, ogni cosa le ricordava e narrava una gioia intima e profonda che non avrebbe goduto più mai.

Addio, addio!

Oramai chiudeva le sue lettere a Paolo con questa triste parola, e temeva che ognuna d’esse fosse l’ultima. [p. 313 modifica]

Una grande tristezza era nella casa; anche Giovanna impallidiva, e s’era fatta seria; non più i gai discorsi d’una volta, gli scherzi, le risate, le raccolte letture nel salottino da pranzo.

Quando donna Francesca si ritirava, Giovanna restava sola, e ricordando anch’essa i bei giorni trascorsi forse per sempre, singhiozzava segretamente; pareva che la giovinezza fosse finita per le due fanciulle, che il rimpianto di un bene perduto inesorabilmente gravasse sui loro pensieri, davanti all’immagine della morte.

Un giorno in cui Elena si sentiva un po’ bene accadde un fatto insolito; le fu cioè recata una citazione dal Tribunale, per testimonianza in causa penale.

— Che significa? — disse inquieta. — Forse c’è errore di nome.

— No, è per te veramente. Me ne ha parlato Carta-Selix — disse Cosimo.

Elena passò una giornata, più triste del solito; si esaminava su tutto quanto poteva aver veduto o sentito, ma non ricordava nulla che spiegasse la citazione. Era per il quindici gennaio.

— Io sto male, io non ci vado — disse Elena.

Cosimo fece eseguire un certificato medico, e fu stabilito che venisse interrogata a casa.

La mattina del quindici gennaio fu acceso il fuoco nel caminetto del salotto, ed Elena, vestita di bianco, vi si assise davanti, tremando leggermente e tendendo le mani sottili alla fiamma. [p. 314 modifica]

Una curiosità intensa mista ad un vago timore l’occupava tutta, sottraendola alla solita indifferenza. La giornata era nitidissima e fredda, e l’acuta luce del sole — un sole invernale che i nuoresi chiamano sole coi denti accresceva la sensazione algida dell’aria tagliente, in cui si sentiva un lontano odor di neve.

Ma il salotto era tiepido e allegro; attraverso i vetri irradiati dal sole tremava la visione cerula delle montagne d’Oliena, profilate di neve, e si scorgevano gli orti umidi, dove l’erba invernale, fredda e lucente come smeraldo, rabbrividiva al vento.

Elena aspettava da circa un’ora quando giunsero il giudice istruttore e il suo vicecancelliere accompagnati da Cosimo.

— Vengono — disse Giovanna, socchiudendo la porta del salotto.

— Buon giorno, signorina — disse il giudice a Giovanna, guardandola fissamente. Era Carta-Selix, che indossava elegantemente un macfarlan grigio.

Giovanna rispose al saluto arrossendo, benchè la voce del magistrato fosse fredda e rigida e lo sguardo quasi duro.

— Passino — disse Giovanna andando verso la porta del salotto, e mentre i signori entravano li esaminò meglio, con tutta la sua curiosa attenzione, cui non sfuggiva alcun particolare, dalla spilla della cravatta alla grandezza dei piedi. [p. 315 modifica]

Non le sfuggirono infatti le proporzioni spaventose dei piedi enormi del vicecancelliere; un uomo scarno, con un viso che pareva scolpito nel burro, e i capelli irti sulla fronte; che non mancava però di una certa distinzione e d’un’aria d’antica bellezza. Era Peppe Spina.

Elena era ritta presso il caminetto: chinò gli occhi quando vide e sentì lo sguardo di Carta-Selix fissarla avidamente; il giovane le strinse la mano e gliela trattenne domandandole con premura come stava.

— Un po’ male — diss’ella freddamente. — S’accomodino.

Un tavolino sgombro era stato disposto accanto al camino; Spina vi depose i suoi scartafacci, e visto l’esempio del giudice, si permise anch’egli di informarsi della salute di Elena.

— Un po’ male — ripetè essa, senza sorridere, senza scomporsi.

Pareva che il giudice fosse lei, ma in breve la sua freddezza si estese su tutti; Spina si sedette impassibile, col viso di marmo giallastro improntato d’una enigmatica indifferenza, e con un pugno sul tavolino aspettò.

Carta-Selix rimase in piedi.

— S’accomodi — disse ad Elena; ed a Cosimo che voleva lasciare il salotto, fe’ cenno di rimanere.

Cosimo si avvicinò al piano, vi si appoggiò e prese in mano uno spartito fingendo di [p. 316 modifica] esaminarlo, mentre con una mano si stringeva il pizzo; ma ad ogni batter di palpebra guardava rapidamente Elena. Ella se ne accorse, ne fu contenta, e si sedette rigida e composta, con una spalla volta al caminetto.

Il giudice prese lo scartafaccio di Peppe Spina, lo sfogliò guardandovi dentro e andando verso Elena disse bruscamente, porgendoglielo:

— Signorina, riconosce lei questa lettera?

Elena esaminò commossa la lettera cucita allo scartafaccio e la riconobbe subito: era la lettera scritta da Giovanna, in risposta a quella del famoso tesoro.

— Ah! il tesoro! — fece, con un sorriso di meraviglia e di sorpresa; e la guancia volta verso il fuoco le diventò rosea. Alzò gli occhi e guardò rapidamente Cosimo, come per chiedergli:

— Devo dire?

— Sì! — disse Cosimo con un cenno della testa; e tornò subito a fissare lo spartito.

— Riconosco questa lettera — disse Elena alzando il braccio per restituire le carte al giudice, che le stava sempre avanti. Egli restò impassibile, ma ella vide un rapido moto di sorpresa tra le folte sopracciglia di Giovanni Carta-Selix, a cui era ben nota la scrittura di lei.

— È scritta da mia sorella Giovanna, sotto mia dettatura. [p. 317 modifica]

— La rilegga — disse il giudice, e racconti il fatto.

Elena diede una sdegnosa occhiata alla lettera, e vedendola così sgualcita, piena di bolli giudiziari francesi, pensò:

— Che viaggio hai fatto! Dove sei stata? Come sei ritornata? Quante cose sono accadute durante il tuo viaggio!

Con un lampo le passarono in mente tutti gli avvenimenti accaduti dal giorno in cui la lettera era stata scritta; molte figure sfilarono fra le righe irregolari della calligrafia di Giovanna, e fra tutte prese forme decise il profilo di Paolo, seduto nell’angolo del pianoforte, in una sera afosa e fosca di estate.

Peppe Spina, col collo un po’ stirato, ascoltava attentamente e pareva interessarsi assai alla faccenda; il giudice invece si mise a passeggiare su e giù per il salotto, guardando le pareti.

Quando Elena ebbe finito egli le si fermò nuovamente davanti, dicendole di esaminar bene lo scartafaccio.

Era scritto in francese, ed Elena, arrossendo anche nell’altra guancia per lo sforzo mentale nel decifrarlo, potè malamente capire che si trattava di una truffa, come Salvatore Brindis aveva sin dalle prime qualificato la faccenda.

La lettera firmata Elena Bancu era stata sequestrata presso madama Bargil, insieme ad altri documenti per simili reali, e veniva spedita [p. 318 modifica] a Nuoro onde si verificasse se la truffa era stata consumata. Carta-Selix lo chiese ad Elena, sprofondando le mani entro le tasche del macfarlan foderate di raso turchino.

— No, — disse Elena.

— Favorisca dettare — disse Carta-Selix accennandole Spina e rimettendosi a passeggiare con le mani in tasca.

— Perchè passeggia così? — pensò Elena sempre esaminando le carte. — A che pensa? Ě impassibile, è freddo come il ghiaccio. Ha dimenticato o ricorda? Le sembrò che Giovanni avesse dimenticato, e nonostante l’indifferenza che anch’ella provava per lui, sentì un senso di sollievo.

— Quanti anni ha? — domandò Spina, scrivendo.

Elena non udì. Pur guardando le carte bollate francesi vide il giudice fermarsi un istante davanti alla finestra. E in quella finestra, altre volte, in un tempo lontano e indeterminato come nel ricordo d’un sogno, ella soleva aspettare il suo primo innamorato che passava in una strada rasente al sottostante giardinetto.

Si rivide al davanzale e rivide la figura alta e magra di lui nella piccola strada; per un secondo, in un palpito più accelerato del cuore commosso, rivisse nel passato e intuì il pensiero, la sensazione che anch’egli doveva in quell’istante provare. [p. 319 modifica]

— Quanti anni ha? — chiese a sua volta il giudice voltandosi rapidamente.

— Ventitrè — rispose ella, rialzando vivamente la testa. I loro sguardi s’incontrarono.

— Ricorda! soffre! — pensò Elena.

Egli continuò a passeggiare e cominciò a interrogarla con voce fredda e indifferente.

Elena rispondeva ironicamente, quasi scherzosa, e ad un certo punto parve che tutto fosse una cosa da burla; a poco a poco Cosimo s’avvicinò e si permise commenti ameni, e mentre Poppe Spina scriveva la risposta della testimone, egli e il giudice si scambiavano osservazioni. Carta-Selix, sempre camminando, non smetteva la sua aria fredda e dura, ma diceva parole così beffarde che Cosimo ne rideva.

Poichè Elena faceva osservare d’aver operato per incarico d’Agada e di Costanza Brindis e per contentarle solamente, era alle spalle delle due donne che si scherzava, ma talvolta sembrava ad Elena che le parole del giudice e il sorriso muto del giallo cancelliere canzonassero anche lei.

Un pensiero strano le venne.

— Fors’egli crede ch’io l’abbia abbandonato in attesa di queste ricchezze! — E guardò il ritratto di Paolo così intensamente che non rispose all’ultima interrogazione. Carla-Selix seguì quello sguardo, e quando ella ebbe firmato, rialzandosi vide il giovine davanti al portaritratti.

— Chi cerca? — pensò ella arrossendo. [p. 320 modifica]

— Favorisca chiamare la signorina Giovanna — disse il giudice.

Cosimo uscì, informò rapidamente Giovanna e la condusse tutta confusa nel salotto.

Ciò non le impedì di ridere graziosamente, raccontando a sua volta la storia con arguzia e disinvoltura.

Il giudice, sempre con le mani in tasca, s’era finalmente fermato e ascoltava con interesse; Elena temeva che Giovanna dicesse qualche sproposito e la guardava un po’ inquieta, ma in breve s’accorse che una leggera malizia le brillava negli occhi e a un certo punto dovette voltarsi verso il fuoco per nascondere un lieve sorriso.

Dopo quel giorno Cosimo condusse spesso in casa il giovane magistrato, e ogni sera si vedevano insieme a passeggio; e così si sparse di nuovo e insistentemente la voce che Elena e Carta-Selix si fossero fidanzati.

Quasi ogni sera Giovanni passava nella piccola strada rasente al giardinetto, ma Elena non riappariva mai più alla finestra grigia e silenziosa del salotto.

Il giovine allora andava a batter la porta di casa Bancu e chiedeva di Cosimo; s’egli non c’era, domandava alla domestica venuta ad aprire come stava la signorina Elena.

— Un po’ meglio — gli rispondevano invariabilmente. Ma Elena non si vedeva mai, nè [p. 321 modifica] alle finestre, nè in chiesa, nè al passeggio, e probabilmente invece di migliorare, peggiorava.

Una sera Carta-Selix vide Giovanna al passeggio, e pur sapendo Cosimo a caccia, andò a chieder di lui.

— Non c’è; è andato a caccia.

— E la signorina come sta oggi? — domandò sfregando un sigaro sulla porta per spegnerlo.

— Un po’ meglio.

— È a casa? Potrei visitarla?

— Passi — disse la fantesca sorridendo maliziosamente, sicura che Elena l’avrebbe ricevuto con piacere. Lo introdusse nel salotto, ma Elena si crucciò.

— Venite, mamma — disse quasi supplichevolmente. Ma donna Francesca pensò candidamente che Carta-Selix — verso cui tutta la famiglia, tranne Elena, nutriva oramai una simpatia sviscerata — si sarebbe offeso se accompagnava la figliola.

Così Elena dovette riceverlo da sola. Lo trovò in contemplazione davanti al portaritratti di raso bianco; appena la vide si scosse e le andò incontro chiedendole: — Come sta? — Così! — rispose lei tendendogli freddamente la mano.

Egli si rattristò, quasi avesse veduto Elena vicina a morire, ma poichè era venuto volle tentare ancora, benchè nelle ultime settimane, dopo quella mattina fredda e chiara in cui aveva sentito rinascere più che mai potente il [p. 322 modifica] suo amore assopito, le avesse scritto due volte senza ottener risposta. Le prese le mani e la guardò insistentemente.

— Elena! — disse piano.

In quel nome tremò tutta la sua amarezza, il suo dolore, la sua passione, e insieme un rimprovero accorato, una supplica estrema.

— S’accomodi — mormorò ella, cercando di liberare le mani. Egli non lo permise.

— Perdonami, Elena, se ho osato venire. Perchè non rispondi alle mie lettere? No, non rimango; voglio da te una sola parola, poi me ne vado.

Ella, ch’era entrata col proposito di offendersi s’egli accennava al passato, non sentì più alcuno sdegno; ma giacchè egli non voleva rimanere a lungo, non cercò più di trattenerlo, neppure per falsa cortesia.

Rimasero così, ritti in mezzo al salotto.

Dalla finestra, donde si scorgeva la piccola strada da lui frequentata, penetrava una luce grigia e tristemente dolce di crepuscolo invernale.

— Qual’è questa parola? — domandò Elena, sempre sfuggendo lo sguardo di lui.

— Elena — diss’egli — ricordi nulla del passato? Quella finestra, quella stradicciuola rasente al vostro giardino, non ti ricordan più nulla? Cosa è accaduto io non so. Certo, qualche cosa assai triste per me.... [p. 323 modifica]

— E anche per me! — pensò Elena. — Ricordo ogni cosa — disse poi.

— Ma inutilmente! Sono io solo a ricordare. Io ho vissuto per te, sempre per te, ma sentivo che un occulto malefizio ti teneva lontana, mi ti toglieva, forse facendoti del male....

— È vero! — pensò Elena, e ricordò quanto aveva sofferto per il suo ultimo amore, ma subito la memoria delle gioie che aveva anche provato scacciò il triste ricordo, e un sentimento di tenerezza accorata la invase. Ricordò inoltre che aveva cessato di amar Giovanni molto tempo prima di conoscer Paolo De-Cerere.

— Rispondi, Elena! — disse il giovine, avvicinandosi alle spalle le mani della fanciulla. — Rispondimi, dimmi una parola sola! Si può rompere questo malefizio, si può, Elena, dimmelo?...

E la sua voce diventava carezzevole, e i suoi occhi cercavano sempre quelli di lei. Vide alcune lagrime bagnarle le ciglia abbassate; credè di averla scossa, e ripetè con nuova supplica straziante la dolce parola:

— Elena!

— No, non si può più spezzarlo.... — disse ella, e grosse lagrime limpide e ardenti, dopo aver brillato fra le lunghe ciglia tremanti, scesero per le guance pallide.

Egli la guardò; subito sentì accertato il dubbio molesto di un nuovo amore di lei, ma non lo espresse, non volle neppur darsi il dolore di [p. 324 modifica] farselo confermare da una confessione. Si creò l’illusione, pur sapendola una illusione, che Elena accennasse al suo stato di salute.

— Guarirai, Elena — disse — non disperarti. Guarirai moralmente e fisicamente, e allora in te sola starà il diventar felice....

Ma la sua voce, facendosi triste e fredda, non riproduceva più l’intimo senso del suo pensiero; pure Elena sentì meravigliosamente ciò ch’egli pensava, e fu contenta che il colloquio finisse così. Eppure le parole di lui le diedero una vaga speranza di guarigione, di lontana rinascita.

— Se guarirò... — disse sollevando il viso illuminato e incontrando finalmente lo sguardo di lui; Giovanni credette di sentire una promessa in quelle due parole e sognò di riprendere l’anima di lei in quello sguardo.

— Guarirai... — disse baciandola in fronte.

Da quella sera ritornò ogni giorno in casa Bancu; lo ricevevano famigliarmente come un fidanzato, e dopo qualche settimana s’abituarono a considerarlo tale, benchè non ci fosse stata nessuna domanda ufficiale di matrimonio.

Ma esisteva con tacito accordo tra la famiglia e lui; capivano tutti che dipendeva da una sola parola di Elena il decidere la situazione.

Ma ella peggiorava sempre e taceva, accogliendo Giovanni con fredda cortesia. Il primo giorno, ed anche nei seguenti, aveva provato una nuova sensazione di vita, di ritorno al passato; [p. 325 modifica] la figura di Carta-Selix, giovane, forte, libero e amante le si ergeva vicina e le impediva d’immergersi ancora nella visione lontana che l’ammaliava. E questa visione, la figura di Paolo, s’era allontanata quasi dissolvendosi in un vaporoso fantasma, senza però scomparire mai del tutto.

Ma dopo pochi giorni, presa l’abitudine di veder Giovanni Carta-Selix, di sentirlo salire le scale, entrare famigliarmente, domandarle come stava, sedersi, mettersi a discorrere di cose inutili, talvolta frivole e spiritose e superficiali, Elena fu a suo riguardo ripresa da una profonda indifferenza. Anzi le parve di non averlo mal amato, giacchè non era quell’uomo giovane ancora, ma dagli occhi stanchi, dalla fisionomia grave, quel magistrato che nell’intimità della conversazione conservava un po’ della posa che assumeva nelle sue funzioni.

Il giovane che attraversava la piccola strada rasente al giardino non era quello; era timido, ma sincero e poetico, e non parlava come ora parlava Carta-Selix il giudice istruttore.

E la sua figura a sua volta si allontanava, si dissolveva, sfumava del tutto, mentre quella di Paolo si ricomponeva e tornava vicina, nell’onnipossente e ineffabile e indistruttibile grandezza del sogno. [p. 326 modifica]



Una sera di marzo, mite e tiepida, piena di nebbia lattiginosa fra cui arrivava indistinto il profumo dei pascoli rinascenti, Elena ricevette una lettera listata di nero.

Era a letto, e oramai le lettere le faceva ritirare dalla posta da una domestica fidata, e dopo averle moltissime volte rilette, le rimetteva entro una borsa di velluto che aveva ricamato negli ultimi mesi dell’anno.

Paolo le scriveva con semplicità profondamente triste, che il suo vecchio padre era morto; ella aspettava da molti giorni la notizia.

Pensò intensamente, a lungo, col gomito puntato sul guanciale e con la lettera aperta sotto gli occhi.

Un gran silenzio era per la casa, perchè credevano che la malata riposasse; la luce tiepida e bianca andava spegnendosi dolcemente per le pareti; i vetri riflettevano la pace grigia e vaporosa della sera, e attraverso questa pace solenne, vibrati nel silenzio e nella trasparenza perlacea dei vetri, giungevano i suoni della via: erano passi tranquilli, voci, grida remote di bambini e l’abbaiar di un cane, il passo di un [p. 327 modifica] cavallo, e, più lontano ancora, rumori confusi e indistinti.

Elena ascoltava e una tristezza senza nome le calava nel cuore; i rumori delle vie le davano una potente sensazione di vita, la percezione di coloro ch’erano sani, che si muovevano, che nessun dolore, nessun intorpidimento, nessun letargo fisico, com’era il suo, richiamava ad una fissa e struggente idea di morte.

E pensò al vecchio gentiluomo israelita, che era morto così tardi, mentre ella moriva troppo presto; ricordò gli scherzi che in un tempo ella aveva detto a proposito del vecchio signore, e per un momento rivisse in quei giorni e sembrandole di intuire soltanto ciò che ora realmente accadeva, ne provò una sensazione di profonda meraviglia. Ma si svegliò tosto, e tornando alla realtà del presente sentì che aveva amato assai il padre di Paolo, perchè padre di lui, mentr’egli certamente era morto ignorando l’esistenza di lei.

Non provava alcuna gioia al pensiero di Paolo libero finalmente di convertirsi; solo, con ostinazione segreta, pensava sempre alla morte del vecchio, al mistero profondo e solenne che si avvicinava anche a lei.

E mentre dall’interno del cuore, evocato dai rumori della via e dalle sensazioni della vita, prorompeva un lamento d’angoscia, una tacita invocazione all’esistenza, la ragione, nel sopore [p. 328 modifica] della febbre lenta e sottile, ripensava in sogno alla visione dolce e cinerea di quell’orizzonte autunnale, di quel confine della terra e dei mari e dei cieli, verso cui un fascino sovrumano attirava gli spiriti, dove ora riposava, fusa nell’essenza stessa dell’infinita visione, l’anima del vecchio gentiluomo ebreo.

Morire a venti, a novantanni, che importava, poichè si doveva morire?

Ricordò d’aver scritto una volta a Paolo, in un giorno della magica primavera lontana, nell’aurora del loro amore:

«Vorrei chinare il viso sulle tue lettere, ascoltando la melodia arcana delle tue parole profonde, e addormentarmi e sognare e morire così, sotto la benedizione tua e del ciclo azzurro, tra i profumi delle rose aperte.»

Il sogno, il desiderio misterioso si compieva: perchè dunque il cuore si lamentava? Ed Elena pregò fra sè: — Sia benedetto il Signore in ogni opera sua!

Una pace sovrana saliva con l’ombra cinerea della sera di marzo; i rumori svanivano, i vetri grigi tacevano, addormentandosi a misura che l’orizzonte impallidiva. Elena ritirò il braccio e appoggiò il viso alla lettera di Paolo, chiudendo gli occhi e sembrandole di cadere nel profondo sopore del cielo e delle cose.

Ma la sua mente continuò a lavorare; il contatto della lettera che la sua guancia riscaldava, [p. 329 modifica] le fece vedere in una confusa visione la testa di Paolo, china sul viso morto del padre con angoscia silenziosa e profonda. E anche negli occhi di lui passava il mistero della morte.

Si sarebbe chinato così anche sulla sua testina, quando riposerebbe, bianca e muta per sempre, su quello stesso ghiaccio? Avrebbe sofferto egli? Più di sua madre? Più di sua sorella, di suo fratello?

Le parve di vederlo, e una voce le diceva, dentro, con angoscia suprema e ad intervalli: — Elena! Elena mia!

E senza avvedersene, bagnò di lagrime tutta la lettera, l’ultima lettera di Paolo, amando e benedicendo.

Ma egli, per otto, per dieci, per quindici giorni, attese invano la risposta, e siccome nella sua ultima lettera Elena gli aveva scritto di sentirsi male, fu preso da una inquietudine triste e nervosa. Aveva forse peggiorato la sua diletta bambina? Cento altri dubbi tormentosi lo investirono, ma la fede suprema che egli riponeva in Elena dava la vittoria al primo timore.

Cominciò dieci lettere, ma giunto alla terza riga di ognuna si fermava, assorto in un pensiero grave e dolce che da due settimane lo dominava. Partire. Ritornare laggiù nella terra triste e misteriosa, che lo richiamava con voce solenne.

Era una voce che lo chiamava da molto tempo, ma giammai l’aveva sentita più forte e imperiosa. [p. 330 modifica]

Elena sentiva il suo nome entro di sè, sussurrato dal cuore di Paolo e Paolo ascoltava la voce arcana delle cose lontane e della sorte che circondava Elena.

Un giorno d’aprile partì.

Tutta la notte, lungo la traversata, rimase sul ponte della nave come un giovine poeta innamorato; gli sembrava che il vecchio piroscafo silenzioso lo conducesse verso un’altra vita, verso un sogno lontano, e sentiva tutto l’immenso mistero della notte sui mari riflettersi entro il suo essere.

Sulle curve del cielo purissimo, che aveva tutta la trasparenza incolore e radiosa d’uno specchio senza sfondo, grandi stelle ignote palpitavano come smeraldi, e sul mare senza confine, altre stelle ancora tremavano fra l’acque di un color lilla smorto.

All’alba, nel pallore liquido dell’occidente, mentre le ultime stelle si scioglievano nella luce, apparvero le coste violacee della Sardegna.

Paolo guardò laggiù come verso una plaga sacra e infinita; l’alba recava una brezza freschissima e pura; il mare, riflettendo la luce cristallina dell’oriente, cominciava a risplendere, e anche negli occhi di Paolo salì la luce e il riflesso dell’alba. Si ritirò un poco e occupò gli ultimi momenti della traversata scrivendo ad Elena.

«Io vengo, io vengo, mi senti, piccola fata? Stanotte, lungo la traversata, ho vegliato [p. 331 modifica] pensando a te, pensando al mistero grande che ci ha uniti, che mi attira e mi trasporta ineffabilmente sino a te. Ed io vengo per leggerlo negli occhi tuoi, questo mistero inenarrabile, per leggerlo come l’ho stanotte letto nei mari profondi, nel cielo, nelle stelle, nell’infinito. Ora le coste dell’isola tua appaiano sull’orizzonte, ed io, guardandole poco fa con profonda commozione, ho pensato che laggiù è il porto della Fede, della Speranza, della Luce, verso cui, per tutta la mia vita, ho sinora agognato invano.

«Elena, Elena, io vengo, mi senti?

Stendimi le tue braccia tenere e forti, accoglimi tutto entro di te. Io vengo a te purificato e redento; sarò tuo e del tuo Dio, ma senti bene, Elena, che della mia Fede migliore, la mia nuova religione, il mistero sublime della mia nuova vita, sarai tu....»

In treno, solo in uno scompartimento di prima classe, cercò di riposare e dormire un poco; ma quello ch’egli chiamava il mistero di tutto il suo spirito, unito ad inquietudini precise ed umane sul modo con cui Elena l’avrebbe accolto nella realtà, sullo stato in cui ella poteva trovarsi, lo tenevano desto e turbato.

Cercò di sviare e disperdere il corso dei pensieri, e fra sè, lentamente, disse dei versi, evocando l’immagine materiale che corrispondeva ad ogni parola. Ci riuscì. Cento cose diverse, figure di navi, di fiori, d’anelli, amuleti, sirene, [p. 332 modifica] montagne, donne, nuvole, statue, e di tante altre cose nominate dai versi, gli passarono rapidamente nella percezione forzata, a cui il pensiero finiva con l’adattarsi dolcemente.

A poco a poco perdette la sensazione spiacevole della luce e dei rumori del treno; altre figure, non chiamate, gli apparvero, fra cui quella di una bambina bella in costume nuorese, e di un muro cadente coperto di musco, su cui il sole batteva dolcemente, così dolcemente che il pensiero vi si smarrì, tremò un poco e si spense del tutto.

Giunse a Nuoro alle cinque pomeridiane. Per non incontrare persone che riconoscendolo potevano fermarlo e trattenerlo, uscendo dall’albergo s’avviò a casa di Elena per strade poco frequentate.

Era un pomeriggio quieto e splendido; nelle vie soleggiate non s’incontrava nessuno, e nell’aria spirava un lontano profumo d’erba calda, di campagna, di pascoli addormentati nel tepore e nella luce del tramonto.

Paolo camminò tranquillo fino allo svolto della via nel cui centro s’ergeva la casa d’Elena; ma quando fu vicino alla porla provò un profondo smarrimento, quasi un senso di tristezza. Per qualche secondo il cuore cessò di pulsare, poi, mentre la mano afferrava il battente della porta, e gli occhi scorgevano tutte le finestre [p. 333 modifica] ermeticamente chiuse, battè con violenza. E la mano picchiò sulla porta quasi con la stessa violenza.

Venne ad aprire una domestica, con gli occhi rossi e gonfi, e la testa imbacuccata in un fazzoletto nero.

— La signora Bancu? — chiese Paolo sapendo che ad ogni modo sarebbe uscita Elena a riceverlo.

— Favorisca — disse la donna precedendolo con passo grave per la scala semibuia.

Nel salotto eguale penombra. Paolo restò in piedi vicino alla porta, fissandola intensamente; un tremito leggero, ch’egli cercava invano di dominare, gli agitava la mano sinistra.

Era una vibrazione indefinita, che partiva dal cuore, una vibrazione di gioia, d’attesa e d’inquietudine.

Perduta la sensazione del tempo, in quella penombra silenziosa, i pochi minuti d’attesa parvero lunghissimi; il tremito aumentava, comunicandosi al polso, a tutto il braccio.

Il movimento della porta che si apriva lo rese ancor più forte, ma invece d’Elena apparve Peppina Marchis, e appena Paolo l’ebbe distinta sentì la sua mano chetarsi.

Peppina s’avanzò col suo bel passo aristocratico, la testa un po’ indietro, fissando Paolo.

— Scusi, signore — disse con evidente sorpresa — lei è a Nuoro? [p. 334 modifica]

Paolo la sapeva moglie di Cosimo, ma non ignorava ch’erano divisi, e benchè avesse chiesto della signora Bancu, ora, vedendola, si turbò.

— Lei è la moglie di Cosimo? — disse toccandole freddamente la mano. — Ho piacere di conoscerla. Sono arrivato stasera; avrei piacere di riveder Cosimo.... le signorine....

Peppina non rispose, ma lo guardò quasi piangente, ed egli se ne avvide; e anch’egli la guardò con forza, come pochi momenti prima fissava la porta.

— Elena.... come sta? — pronunziò, e la mano tremò di nuovo; egli non se ne accorse.

— Elena? Oh, sta benissimo, ora! — rispose la giovine signora, e un singhiozzo sfumò nella sua voce piena d’amarezza.

— Signora, che è accaduto?

Paolo ebbe la sensazione d’aver gridato così, ma poi, per qualche tempo, non capì, non intese, non vide più nulla, come se l’oscurità del salotto si addensasse, e il pavimento, sprofondandosi, si cangiasse nel fondo di un abisso indefinito.

Quando, con un violento sforzo di volontà, riprese la cognizione del vero, vide la giovine signora piangere, e l’ascoltò raccontare gli ultimi momenti d’Elena, ch’era spirata poche ore prima, serenamente, benedicendo la riunione di Cosimo con la moglie. Pregata a nome di Elena, Peppina era venuta a trovarla, e la dolce anima [p. 335 modifica] morente l’aveva trattenuta: ella poi non s’era più sentita il coraggio d’andarsene.

Paolo pensò alla lettera scritta sul piroscafo, alla notte passata in mare. E taceva, senza dire una parola di condoglianza, senza pensare di muoversi.

L’ombra s’addensava nel salotto; e un certo punto la giovine signora tacque anch’essa; Paolo comprese ch’ella desiderava ch’egli se ne andasse. Si alzò: ma implorando disse:

— Perdoni, signora. Vorrei rivederla....

Peppina si stupì, comprese confusamente qualche cosa, e s’alzò a sua volta.

— Favorisca — disse, andando avanti senza smettere mai il suo maestoso ed elegante incedere. Aprì la porta e Paolo passò inchinandosi. Camminarono silenziosi, egli a testa nuda e pallidissimo, con raccoglimento profondo, quasi attraversassero una chiesa.

Nella camera d’Elena ardevano lunghi ceri in candelabri di metallo, e la luce del sereno crepuscolo, entrando per le imposte socchiuse, tremava in lunghe strisce sulla porta, fondendosi col bagliore rossastro e quieto dei ceri.

Giovanna, inginocchiata presso il letto, piangeva silenziosamente, bevendosi le lagrime con singulti radi.

Peppina le toccò una spalla.

— Giovanna — disse amorevolmente, con dolce [p. 336 modifica] rimprovero — sei di nuovo qui? Vattene, levati su, sii forte, via, Giovanna!

La fanciulla sollevò il volto, acceso per le lagrime, e vedendo Paolo De-Cerere cessò di piangere; si alzò rapidamente, e, ritirandosi a pie’ del letto, guardò il suo antico amico con grandi occhi spalancati di bambina sorpresa e curiosa.

Ma egli non le badava.

Egli guardava Elena, e non vedeva altro.

La «piccola fata» era tutta vestita del suo abito candido; aveva le scarpette di raso bianco, i guanti bianchi, i capelli raccolti entro un pettine d’argento e di brillanti che scintillavano alla luce dei ceri.

Il volto, sebbene scarno e cereo, parve a Paolo più bello di quello conservato nell’ultima memoria. Un cuscinetto di velluto nero ricamato a grandi rose le posava accanto; e Paolo (avendoglielo ella una volta scritto) indovinò che racchiudeva le sue lettere, e che, per desiderio estremo, doveva servirle da pietoso guanciale nel letto dei sogni eterni.

Ei guardava intensamente le lunghe ciglia abbassate della «piccola fata» e di nuovo pensava alla lettera scritta all’alba, al gran mistero intraveduto e sfuggito.

Di nuovo smarrì l’idea del tempo, del luogo, dei suoi movimenti; solo gli sembrò di chinarsi chiamando dolcemente:

— Elena! Elena! [p. 337 modifica]

Giovanna si rimise a piangere sconsolatamente, gemendo e singhiozzando.

La cognata allora le si avvicinò, la prese dolcemente per le spalle e la condusse fuori della camera.

— Giovanna, Giovanna! — le disse Carta-Selix, che, nonostante il suo gran dolore, cercava di confortare gli altri. — Sia forte, si faccia coraggio! Per sua madre!

Certo, non pensava in quel momento che più tardi egli e Giovanna si sarebbero confortati scambievolmente, ma che neppure il gaudio del loro amore, neppure il sorriso di un’altra Elena, fiore gentile della loro felicità, avrebbe consolato il dolore della madre, e tanto meno un altro dolore lontano, più inenarrabile ancora.

fine.