Il sogno di Scipione/Il sogno di Scipione

Il sogno di Scipione

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Scipione dormendo, la Costanza e la
Fortuna.

Fortuna

Vieni e siegui i miei passi,
O gran figlio d’Emilio.

Costanza

I passi miei
Vieni e siegui, o Scipion.

Scipione

Chi è mai l’audace
Che turba il mio riposo?

Fortuna

Io son.

Costanza

Son io:
E sdegnar non ti dei.

Fortuna

Volgiti a me.

Costanza

Guardami in volto.

Scipione

Oh Dèi
Quale abisso di luce!
Quale ignota armonia! quali sembianze
Son queste mai sì luminose e liete!
E in qual parte mi trovo? e voi chi siete?

Costanza

Nutrice degli Eroi..

Fortuna

Dispensatrice,
Di tutto il ben che l’universo aduna.

Costanza

Scipio, io son la Costanza.

Fortuna

Io la Fortuna.

Scipione

E da me che si vuol?

Costanza

Ch’una fra noi
Nel cammin della vita
Tu per compagna elegga.

Fortuna

Entrambe offriamo,
Di renderti felice.

Costanza

E decider tu dei
Se a me più credi, o se più credi a lei.

Scipione

Io? Ma, Dèe... che dirò?

Fortuna

Dubiti!

Costanza

Incerto
Un momento esser puoi!

Fortuna

Ti porgo il crine
E a me non t’abbandoni?

Costanza

Odi il mio nome,
Né vieni a me?

Fortuna

Parla.

Costanza

Risolvi

Scipione

E come?
Se volete ch’io parli,
Se risolver degg’io, lasciate all’alma
Tempo da respirar, spazio onde possa
Riconoscer se stessa.
Ditemi, dove son, chi qua mi trasse,
Se vero è quel ch’io veggio,
Se sogno, se son desto, o se vaneggio.
Risolver non osa
Confusa la mente,
Che oppressa si sente
Da tanto Stupor.
Delira dubbiosa,
Incerta vaneggia
Ogni alma che ondeggia
Fra’ moti del cor.

Costanza

Giusta è la tua richiesta:
a parte, a parte
Chiedi pur e saprai,
Quanto brami saper.

Fortuna

Sì; ma sian brevi,
Scipio, le tue richieste. Intollerante
Di riposo son io. Loco, ed aspetto
Andar sempre cangiando è mio diletto.
Lieve son al par del vento;
Vario ho il volto, il piè fugace;
Or m’adiro, e in un momento
Or mi torno a serenar.
Sollevar le moli oppresse
Pria m’alletta, e poi mi piace
D’atterrar le moli istesse,
Che ho sudato a sollevar.

Scipione

Dunque ove son? La Reggia
Di Massinissa, ove poc’anzi i lumi
Al sonno abbandonai,
Certo questa non è.

Costanza

No. Lungi assai
È l’Africa da noi. Sei nell’immenso
Tempio del ciel.

Fortuna

Non lo conosci a tante,
Che ti splendono intorno,
Lucidissime stelle? a quel che ascolti
Insolito concento
Delle mobili sfere? a quel che vedi
Di lucido zaffiro
Orbe maggior, che le rapisce in giro?

Scipione

E chi mai tra le sfere, o Dèe, produce
Un concento sì armonico e sonoro?

Costanza

L’istessa, ch’è fra loro,
Di moto e di misura
Proporzionata ineguaglianza. Insieme
Urtansi nel girar; rende ciascuna
Suon dall’altro distinto;
E si forma di tutti un suon concorde.
Varie così le corde
Son d’una cetra; e pur ne tempra in guisa
E l’orecchio, e la man l’acuto e ’l grave,
Che dan, percosse, un’armonia soave.
Questo mirabil nodo,
Questa ragione arcana
Che i dissimili accorda,
Proporzion s’appella, ordine e norma
Universal delle create cose.
Questa è quel che nascose,
D’alto saper misterioso raggio,
Entro i numeri suoi di Samo il saggio.

Scipione

Ma un’armonia sì grande
Perché non giunge a noi? Perché non l’ode
Chi vive là nella terrestre sede?

Costanza

Troppo il poter de’ vostri sensi eccede.
Ciglio che al sol si gira
Non vede il sol che mira,
Confuso in quell’istesso
Eccesso di splendor.
Chi là del Nil cadente
Vive alle sponde appresso
Lo strepito non sente
Del rovinoso umor.

Scipione

E quali abitatori...

Fortuna

Assai chiedesti:
Eleggi al fin.

Scipione

Soffri un istante. E quali
Abitatori han queste sedi eterne?

Costanza

Ne han molti, e varie in varie parti.

Scipione

In questa,
Ove noi siam, che si raccoglie mai?

Fortuna
Guarda sol chi s’appressa, e lo saprai.


Publio, coro d’Eroi, indi Emilio e detti.

Coro

Germe di cento Eroi
Di Roma onor primiero,
Vieni, che in ciel straniero
Il nome tuo non è.
Mille trovar tu puoi
Orme degli avi tuoi
Nel lucido sentiero
Ove inoltrasti il piè.

Scipione

Numi! è vero o m’inganno? Il mio grand’Avo,
Il domator dell’African rubello
Quegli non è?

Publio

Non dubitar, son quello.

Scipione

Gelo d’orror! Dunque gli estinti?

Publio

Estinto,
Scipio, io non son.

Scipione

Ma in cenere disciolto
Tra le funebri faci,
Gran tempo è già, Roma ti pianse.

Publio

Ah taci:
Poco sei noto a te.
Dunque tu credi
Che quella man, quel volto
Quelle fragili membra onde vai cinto
Siano Scipione? Ah non è ver. Son queste
Solo una veste tua. Quel che le avviva,
Puro raggio immortal, che non ha parti,
E scioglier non si può; che vuol, che intende,
Che rammenta, che pensa,
Che non perde con gli anni il suo vigore,
Quello, quello è Scipione: e quel non muore.
Troppo iniquo il destino
Sarìa della virtù, s’oltre la tomba
Nulla di noi restasse; e s’altri beni
Non si fosser di quei,
Che in terra per lo più toccano a’ rei.
No, Scipion: la perfetta
D’ ogni cagion Prima Cagione ingiusta
Esser così non può. V’è dopo il rogo
V’è mercé da sperar. Quelle che vedi
Lucide eterne sedi
Serbansi al merto; e la più bella è questa.
In cui vive con me qualunque in terra
La patria amò, qualunque offrì pietoso
Al pubblico riposo i giorni sui,
Chi sparse il sangue a benefizio altrui.
Se vuoi, che te raccolgano
Questi soggiorni un dì,
Degli avi tuoi rammentati,
Non ti scordar di me.
Mai non cessò di vivere
Chi come noi morì:
Non meritò di nascere,
Chi vive sol per sé.

Scipione

Se qui vivon gli Eroi...

Fortuna

Se paga ancora
La tua brama non è, Scipio, è già stanca
La tolleranza mia. Decidí...

Costanza

Eh lascia
Ch’ei chieda a voglia sua. Ciò ch’egli apprende,
Atto lo rende a giudicar fra noi.

Scipione

Se qui vivon gli Eroi
Che alla patria giovar, tra queste sedi
Perché non miro il genitor guerriero?

Publio

L’hai su gli occhi, e nol vedi?

Scipione

È vero, è vero.
Perdona, errai, gran genitor; ma colpa
Delle attonite ciglia
È il mio tardo veder, non della mente,
Che l’immagine tua sempre ha presente.
Ah sei tu! Già ritrovo
L’antica in quella fronte
Paterna maestà. Già nel mirarti
Risento i moti al core
Di rispetto e d’amore. Oh fausti
Numi!
Oh caro padre! oh lieto dì! Ma come
Sì tranquillo m’accogli? Il tuo sembiante
Sereno è ben, ma non commosso. Ah dunque
Non provi in rivedermi
Contento eguale al mio!

Emilio

Figlio, il contento
Fra noi serba nel cielo altro tenore.
Qui non giunge all’affanno, ed è maggiore.

Scipione

Son fuor di me. Tutto quassù m’è nuovo
Tutto stupir mi fa.

Emilio

Depor non puoi
Le false idee che ti formasti in terra,
E ne stai sì lontano. Abbassa il ciglio;
Vedi laggiù d’impure nebbie avvolto
Quel picciol globo, anzi quel punto?

Scipione

Oh stelle!
È la terra?

Emilio

Il dicesti.

Scipione

E tanti mari,
E tanti fiumi, e tante selve, e tante
Vastissime provincie, opposti regni,
Popoli differenti? e il Tebro? e Roma?

Emilio

Tutto è chiuso in quel punto.

Scipione

Ah padre amato,
Che picciolo, che vano,
Che misero teatro ha il fasto umano!

Emilio

Oh se di quel teatro
Potessi, o figlio, esaminar gli attori;
Se le follie, gli errori,
I sogni lor veder potessi, e quale
Di riso per lo più degna cagion
Gli agita, gli scompone,
Gli rallegra, gli affligge, o gl’innamora,
Quanto più vil ti sembrerebbe ancora!
Voi colaggiù ridete
D’un fanciullin che piange,
Ché la cagion vedete
Del folle suo dolor.
Quassù di voi si ride
Ché dell’età sul fine
Tutti canuti il crine,
Siete fanciulli ancor.

Scipione

Publio, padre, ah lasciate,
Ch’io rimanga con voi. Lieto abbandono
Quel soggiorno laggiù troppo infelice.

Fortuna

Ancor non è permesso.

Costanza

Ancor non lice.

Publio

Molto a viver ti resta.

Scipione

Io vissi assai;
Basta, basta per me.

Emilio

Sì, ma non basta
A’ disegni del Fato, al ben di Roma
Al mondo, al Ciel.

Publio

Molto facesti e molto
Di più si vuol da te: senza mistero
Non vai, Scipione, altero
E degli aviti, e de’ paterni allori:
I gloriosi tuoi primi sudori
Per le campagne ibere
A caso non spargesti, e non a caso
Porti quel nome in fronte,
Che all’Africa è fatale. A me fu dato
Il soggiogar sì gran nemica, e tocca
Il distruggerla a te. Va, ma prepara
Non meno alle sventure,
Che a’ trionfi il tuo petto. In ogni sorte
L’istessa è la virtù. L’agita, vero,
Il nemico destin, ma non l’opprime;
E quando è men felice, è più sublime.
Quercia annosa su l’erte pendici
Fra ’l contrasto de’ venti nemici
Più sicura, più salda si fa.
Ché se ’l verno le chiome le sfronda,
Più nel suolo col piè si profonda;
Forza acquista, se perde beltà.

Scipione

Giacché al voler de’ Fati
L’opporsi è vano, ubbidirò.

Costanza

Scipione,
Or di scegliere è tempo.

Fortuna

Istrutto or sei;
Puoi giudicar fra noi.

Scipione

Publio, si vuole
Ch’una di queste Dèe...

Publio

Tutto m’è noto.
Eleggi a voglia tua.

Scipione

Deh mi consiglia,
Gran genitor.

Emilio

Ti usurperebbe, o figlio
La gloria della scelta il mio consiglio.

Fortuna

Se brami esser felice,
Scipio, non mi stancar: prendi il momento
In cui t’offro il crin.

Scipione

Ma tu che tanto
Importuna mi sei, dì: qual ragione
Tuo seguace mi vuol? Perché degg’io
Sceglier più te che l’altra?

Fortuna

E che farai, s’io non secondo amica
L’imprese tue? Sai quel ch’io posso? Io sono
D’ogni mal, d’ogni bene
L’arbitra colaggiù. Questa è la mano
Che sparge a suo talento e gioie e pene,
Ed oltraggi ed onori,
E miserie e tesori. Io son colei,
Che fabbrica, che strugge,
Che rinnova gl’imperi. Io, se mi piace,
In soglio una capanna, io quando voglio,
Cangio in capanna un soglio. A me soggetti
Sono i turbini in cielo,
Son le tempeste in mar. Delle battaglie
Io regolo il destin. Se fausta io sono,
Dalle perdite istesse
Fo germogliar le palme; e s’io m’adiro
Svelgo di man gli allori
Sul compir la vittoria ai vincitori.
Che più? dal regno mio
Non va esente il valore,
Non la virtù; ché, quando vuol la Sorte
Sembra forte il più vil, vile il più forte:
E a dispetto d’Atrea
La colpa è giusta, e l’innocenza è rea.
A chi serena io miro
Chiaro è di notte il cielo;
Torna per lui nel gelo
La terra a germogliar.
Ma se a taluno io giro
Torbido il guardo e fosco
Fronde gli niega il bosco,
Onde non trova in mar.

Scipione

E a sì enorme possanza
Chi s’opponga non v’è?

Costanza

Sì, la Costanza.
Io, Scipio, io sol prescrivo
Limiti, e leggi al suo temuto impero.
Dove son io, non giunge
L’instabile a regnar; ché in faccia mia
Non han luce i suoi doni,
Né orror le sue minacce. È ver che oltraggio
Soffron talor da lei
Il valor, la virtù; ma le bell’opre
Vindice de’ miei torti, il tempo scopre.
Son io, non è costei,
Che conservo gl’imperi: e gli avi tuoi
La tua Roma lo sa. Crolla ristretta
Da Brenno, è ver, la libertà latina
Nell’angusto Tarpeo; ma non ruina.
Dell’Aufido alle sponde
Si vede, è ver, miseramente intorno
Tutta perir la gioventù guerriera
Il console roman; ma non dispera.
Annibale s’affretta
Di Roma ad ottenere l’ultimo vanto,
E co’ vessilli suoi quasi l’adombra
Ma trova in Roma intanto
Prezzo il terren, che il vincitore ingombra.
Son mie prove sì belle e a queste prove
Non resiste Fortuna. Ella si stanca;
E al fin cangiando aspetto,
Mia suddita diventa a suo dispetto.
Biancheggia in mar lo scoglio,
Par che vacilli, e pare
Che lo sommerga il mare
Fatto maggior di sé.
Ma dura a tanto orgoglio
Quel combattuto sasso;
E ’l mar tranquillo e basso
Poi gli lambisce il piè.

Scipione

Non più. Bella Costanza
Guidami dove vuoi.
D’altri non curo;
Eccomi tuo seguace.

Fortuna

E i doni miei?

Scipione

Non bramo e non ricuso.

Fortuna

E il mio furore?

Scipione

Non sfido e non pavento.

Fortuna

Invan potresti,
Scipio, pentirti un dì. Guardami in viso:
Pensaci, e poi decidi.

Scipione

Ho già deciso.
Dì che sei l’arbitra
Del mondo intero,
Ma non pretendere
Perciò l’impero
D’un’alma intrepida,
D’un nobil cor.
Te vili adorino,
Nume tiranno,
Quei che non prezzano,
Quei che non hanno
Che il basso merito
Del tuo favor.

Fortuna

E v’è mortal che ardisca
Negarmi i voti suoi? che il favor mio
Non procuri ottener?

Scipione

Sì, vi sono io.

Fortuna

E ben provami avversa. Olà, venite
Orribili disastri, atre sventure,
Ministre del mio sdegno:
Quell’audace opprimete; io vel consegno.

Scipione

Stelle! che fia! qual sanguinosa luce!
Che nembi! che tempeste!
Che tenebre son queste!
Ah qual rimbomba
Per le sconvolte sfere
Terribile fragor! Cento saette
Mi striscian fra le chiome; e par che tutto
Vada sossopra il ciel. No, non pavento,
Empia Fortuna: invan minacci; invano
Perfida, ingiusta Dea... Ma chi mi scuote?
Con chi parlo? ove son? di Massinissa
Questo è pure il soggiorno. E Publio? e il padre?
E gli astri? e il ciel? Tutto sparì. Fu sogno
Tutto ciò ch’io mirai? No, la Costanza
Sogno non fu: meco rimase. Io sento
Il Nume suo, che mi riempie il petto.
V’intendo, amici dèi: l’augurio accetto.

Licenza

Non è Scipio, o signore, (ah chi potrebbe
Mentir dinanzi a te!), non è l’oggetto
Scipio de’ versi miei: di te ragiono,
Quando parlo di lui. Quel nome illustre
È un vel, di cui si copre
Il rispettoso mio giusto timore.
Ma Scipio esalta il labbro
E Girolamo il core.
Ah perché cercar degg’io
Fra gli avanzi dell’oblìo
Ciò che in te ne dona il ciel!
Di virtù chi prove chiede,
L’ode in quelli, in te le vede:
E l’orecchio ognor del guardo
E più tardo e men fedel.

Coro

Cento vuolte con lieto sembiante,
Prence eccelso, dall’onde marine
Torni l’alba d’un dì sì seren.
E rispetti la diva incostante
Quella mitra che porti sul crine
L’alma grande che chiudi nel sen.