Atto III

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Atto II Nota storica

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ATTO TERZO.


SCENA PRIMA.

Momolo e Trappola.

Momolo. Caro vu, lasseme star. Me sento dei cani in tel stomego, che me divora.

Trappola. Il desinare gli ha fatto male?

Momolo. Ho magnà tanto tossego, tanto velen.

Trappola. Ma perchè mai?

Momolo. Se savessi! no parlemo altro. Son un omo desfortunà. Più che procuro de trattar ben, vegno mi tratta mal. A tola chi me fava el muson de qua, chi me fava dei sbarleffi1 là. Mia sorella instizzada, no so per cossa. Mio cugnà rabioso co fa un can. Siora Clarice no m’ha mai vardà in viso. Colù de quel sior Leandro, me dava occhiae da basilisco. No ghe xe sta altro che sior Ottavio, el fradelo de siora Clarice, che [p. 306 modifica] ha magnà co fa un lovo, senza mai alzar i occhi dal piatto, e in ultima el m’ha fatto un brindese per carità.

Trappola. Gli volevo parlar del grano....

Momolo. Gh’ho altro in testa adesso, che sentir a parlar del formento.

Trappola. Volevo dire che ho trovato il compratore.

Momolo. L’ave trova el comprador?

Trappola. Si è misurato, e siccome dei cento staia....

Momolo. Adesso no gh’ho testa da sentir a discorrer de interessi; co l’averè vendù, parleremo.

Trappola. L’ho venduto.

Momolo. Sì? bravo. Dove xe i bezzi?

Trappola. Ne ho qui con me una porzione.

Momolo. Via, demeli.

Trappola. Ma facciamo un poco di conto.

Momolo. Adesso no gh’ho tempo de far conti2. Deme qualcossa, tanto che no sia senza bezzi, e pò stassera, o domattina faremo i conti.

Trappola. Se vuole intanto dieci zecchini....

Momolo. Via, deme diese zecchini.

Trappola. Eccoli, e poi vedrà il conto. (gli dà il danaro)

Momolo. I sarà boni per sta sera alla festa da ballo, se vegnisse occasion de zogar; si ben che mi no zogo, ma delle volte qualchedun che ha perso i bezzi, domanda qualcossa in prestio, e me piase far servizio, co posso.

Trappola. E poi quando hanno ricevuto il servizio, non restituiscono il danaro, e si perdono ancora gli amici.

Momolo. Oh, con quanti che la me xe successa cussì! Ma no importa, co dono, m’ingrasso; za spero che se farà sto aggiustamento, e diese zecchini più, diese zecchini manco, sarò sempre l’istesso.

Trappola. Così penso ancor io. (E per questo mi prendo il mio bisogno senza riguardi; di già il suo lo vuol gettare così). (da sè)

Momolo. Stassera faremo sta festa. Fe pulito; vardè quel che manca, e spendè quel che occorre. [p. 307 modifica]

Trappola. Circa alla cena, come vuol che si faccia?

Momolo. Fe vu; mi no voggio de ventar matto; fe vu.

Trappola. Ma se dice che tutti sono ingrugnati, avrà poco gusto alla festa e alla cena.

Momolo. Anzi co sto poco de devertimento ho speranza de desmissiarli, Siora Clarice, vedendo che fazzo de tutto per devertirla, la butterà più cortese. Dei altri no ghe penso, me basta de vederla ela aliegra3 e contenta. Vardè un poco dalla so zente de recavar cossa che più ghe piase, e procure de trovar tutto a peso d’oro, se occorre.

Trappola. I danari del grano finiranno presto.

Momolo. No me parlè de malinconie, che son malinconico tanto che basta. Stassera aspetto el Dottor Desmentega colla bona nova4, e se credesse che me andasse tutti i campi, che spero de recuperar, vaga tutto per acquistar la grazia de siora Clarice.

Trappola. Non occorr’altro; ho inteso. (Vada pur tutto, purchè vi sia sempre una porzione per me). (parte)

SCENA II.

Momolo solo.

Mi no so che razza de donna sia sta siora Clarice. Ghe n’ho praticà tante altre, e ho sempre visto che coi regali le se obbliga, le se innamora, e le se placa co le xe in collera. Questa la xe tutta al contrario; i regali la fa instizzar. O che i ghe par troppo piccoli, o che la xe differente dalle altre. Me proverò coi devertimenti. Me servirò del mezo de mia sorella. Ma anca ela la me par in collera. So mario gh’ha parlà in secreto, e tutti do i s’ha unito contra de mi. No so cossa dir; son proprio desfortunà; e pur xe vero, ho tanto speso, ho tanto donà, ho fatto del ben a tanti a sto mondo, e no posso dir d’aver un amigo de cuor. [p. 308 modifica]

SCENA III.

Ottavio e detto.

Ottavio. Signor Momolo, vi ringrazio infinitamente di tutte le vostre finezze, compatite l’incomodo che vi ho recato, e preparatemi i vostri comandi.

Momolo. Coss’è? voleu andar via?

Ottavio. Mia sorella vuol partir questa sèsèra, e ora vado a fare allestire il burchiello.

Momolo. Coss’è ste furie? coss’è sta novità?

Ottavio. Sapete che le donne, quando hanno fissato, sono ostinatissime; per quanto abbia detto, non vi è rimedio; ella vuol partire assolutamente.

Momolo. Stassera no se va via, se credesse de dar fogo al burchiello.

Ottavio. Voi non conoscete bene mia sorella; sarebbe capace di andare a piedi sino a Fusina.

Momolo. Ma cossa mai xe stà? cossa gh’hoggio fatto? Pussibile che la me fazza sto torto? pussibile che no la voggia restar almanco stassera? Stassera almanco; domattina, se la vol andar, pazenzia, vegnirò a Venezia anca mi. Ma me preme che la resta stassera; ho parecchià una festa da ballo, che spero sarà qualcossa de particolar. Via, caro amigo, manizeve, fe che la resta, ve devertirè anca vu, ballerè, starè allegramente.

Ottavio. Io, per dire il vero, del ballo non mi diletto.

Momolo. Se vorè zogar, zogherè; ghe sarà da devertirse a zoghetti, ghe sarà dei taolini de bassetta, de faraon.

Ottavio. La bassetta mi piace, ma non ho portato meco danari per cimentarmi.

Momolo. Voleu bezzi? sè patron, comandè.

Ottavio. Vi ringrazio, non sono vizioso a tal segno di prender danari ad imprestito per giocare.

Momolo. Cossa serve? Tolè dei bezzi, e zoghè. Se vadagnarè, me li restituirè; se perderè no m’importa; farò conto d’averli persi per mi.

Ottavio. Troppo generoso, signor Momolo; se farete simili [p. 309 modifica] esibizioni a degli uomini meno onesti di quel ch’io sono, le accetteranno, e poi dopo, credetemi, si burleranno di voi.

Momolo. No so cossa dir; compatì la premura che gh’ho de no perder sta sera la vostra cara compagnia, e quella de siora Clarice; ve prego, fe de tutto perchè la resta.

Ottavio. Capisco che sarà difficile.

Momolo. Me despiaserave mo anca, che tutto quel che xe fatto per sta sera, andasse de mal. La festa sarà qualcossa de particolar. I rinfreschi xe parecchiai, e una cena, dove el cuogo s’ha impegnà de far tutto quello che el sa.

Ottavio. Una cena magnifica! Questa, per dirvi la verità, mi tocca più della festa da ballo. La tavola è la mia passione, e questa mattina i piatti del vostro cuoco mi hanno assai soddisfatto.

Momolo. Stassera ghe sarà de meggio. Gho vinti cai de salvadego, che scometto che no ghe xe altrettanto in tutta Venezia.

Ottavio. Non mi dite altro, che mi fate venire appetito, benchè non sia mezz’ora che abbiamo pranzato.

Momolo. Via, vedè con bona maniera de persuader siora Clarice.

Ottavio. Eccola qui per l’appunto.

Momolo. Ho gusto; la pregherò anca mi. Ma vien con ela quel seccagine de sior Leandro; no lo posso soffrir.

SCENA IV.

Clarice, Leandro e detti

Clarice. Ebbene, signor Ottavio, il burchiello si è ritrovato?

Ottavio. Non si potrebbe aspettar domattina?

Clarice. No certo: voglio partir questa sera.

Momolo. Mo via, cara siora Clarice, che la sia bona: xela su i spini? che la soffra almanco sta sera.

Leandro. La signora Clarice vuol partir subito.

Momolo. Mi no parlo con ela, patron. (a Leandro)

Ottavio. Il signor Momolo ci ha preparato un festino, una cena, un divertimento magnifico. [p. 310 modifica]

Momolo. Me son inzegnà de corrisponder in qualche maniera all'onor che i m’ha fatto.

Leandro. Vi rendiamo grazie, ma vogliamo partire.

Momolo. Per ela, patron, non ho fatto gnente, e xe superfluo che la me ringrazia. (a Leandro)

Clarice. Non volete andare adunque a far allestire il burchiello? (ad Ottavio)

Ottavio. Mi parerebbe di fare un torto ad un galantuomo, che fa di tutto per trattarci bene.

Momolo. Caro sior Ottavio, dasseno che ve son obligà.

Clarice. Ho inteso. Signor Leandro, favorite voi di ritrovare quegli uomini, che qui ci hanno condotto, e ordinate che si allestiscano al ritorno.

Leandro. Subito, signora. Sarete servita.

Momolo. Cospetto de bacco! se sior Leandro me farà sta scena, el me ne renderà conto.

Leandro. Io non penso, che ad obbedire la signora Clarice, e le vostre parole non le calcolo un fico.

Momolo. Siora Clarice xe patrona de tutto, ma con vu la discorreremo.

Leandro. Da me che pretendereste?

Momolo. Pretenderave che vu, sior scartozzo, me dessi soddisfazion.

Clarice. Mi maraviglio di voi, signor Momolo, che così parliate in faccia mia, con uno ch’è venuto meco, e che meco deve partire. Rispettate nel signor Leandro una persona ch' io stimo. Sì, a dispetto vostro, sappiatelo, se noi sapete, io stimo il signor Leandro, e lo credo degno della mia stima5 più di quello che siete voi. (Per mortificare il signor Momolo, abbia questo poco di bene Leandro). (da sè)

Momolo. Pazenzia! son sfortunà.

Leandro. Sentite? La signora Clarice mi onora della sua stima. Io sono degno della sua stima, e dietro alla stima non va lontano l'amore. Non m’ingannai nella mia speranza. Ecco il merito della servitù, della sofferenza. La verità si conosce alla fine. Grazie alla bontà della signora Clarice. Vado sollecito per obbedirvi. (parte)

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SCENA V.

Clarice, Ottavio e Momolo.

Clarice. (S’inganna, se crede la mia dichiarazione sincera. Spesse volte succede, che noi donne usiamo delle finezze a chi non le merita, per far dispetto ad un altro). (da sè)

Momolo. (Son fora de mi; no gh’ho più coraggio de averzer bocca). (da sè)

Ottavio. (Povero signor Momolo, mi fa compassione). (da sè) Compatitemi, sorella, siete un po’ troppo ingrata con chi vi usa delle finezze.

Clarice. Le finezze del signor Momolo mi costerebbero6 troppo care, se continuassi a soffrirle. Che volete che dica il mondo di me, s’egli fa cose da pazzo a riguardo mio, che lo mettono al precipizio e alla derisione? Una festa da ballo? una cena? Paghi i suoi debiti, che sarà meglio. Mi offre un anello? in faccia mia, per vendicarsi del mio rifiuto, lo sacrifica ad una serva? Meglio era non lo levasse dal dito della sorella, per ostentare imprudentemente con me la sua vergognosa prodigalità. Finezze simili si offeriscono a donne vili, non a quelle del mio carattere. L’onestà, il buon costume, la sincerità, l'amore sono i mezzi per vincere il cuore di una femmina onesta. Il signor Momolo è indegno della mia stima, e tutti i momenti, che seco io resto, sono tanti rimorsi alla delicatezza dell’onor mio. (parte)

SCENA VI.

Ottavio e Momolo.

Momolo. Cossa diseu? se pol dir de pezo? (ad Ottavio)

Ottavio. Dico, che se la cosa è così, mia sorella ha ragione; e si può dire di più di quello che ha detto: che siete un pazzo, che siete un uomo incivile, che non sa trattare con delle persone della condizione che siamo noi. (parte) [p. 312 modifica]

SCENA VII.

Momolo, poi Beatrice.

Momolo. S’arecordeli altro? Tolè, spendo e spando, e sora marcà tutti me strapazza. Come hala savesto dell’anello de mia sorella? No credo mai, che Beatrice abbia fatto pettegolezzi. So che la me vol ben, che per mi la se desferia, e che no la xe capace de darme un desgusto. Vela qua che la vien, almanco me sfogherò con ela, me consolerò un poco con qualche bona parola.

Beatrice. Bravo, signor fratello.

Momolo. Aveu savesto?

Beatrice. Ho saputo che siete indegno d’amore e di compassione, che la vostra pazzia va agli eccessi, e che chi s’impaccia con voi, corre pericolo di pentirsi d’averlo fatto. Sì, io pure sono pentita d’avervi amato, d’avervi creduto. L’anello, che mi levaste di mano, l’avete bene impiegato. Darlo alla serva? gettarlo sì malamente? Che sciocchezza! che stolidezza! Mio marito ha saputo la mia debolezza e la vostra. Mi rimprovera giustamente, ed io non so che rispondere, se non che protestare di abbandonarvi, e lasciarvi per sempre nei precipizi, nei quali volete correre per un fanatismo sciocco, stolido, irremediabile, odioso. (parte)

SCENA VIII.

Momolo, poi Colombina.

Momolo. Anca questa m’ha dà el mio siropetto. Le xe in collera perchè ho dona l’anello a Colombina; le gh’ha rason. El xe sta un trasporto de bile, per vendicarme del rifiuto de siora Clarice. Per diana, che Colombina xe qua. La vien a tempo. Vederò colle bone de recuperarlo; più tosto ghe darò dei bezzi, ghe darò sti diese zecchini.

Colombina. Bel regalo che V. S. mi ha fatto! [p. 313 modifica]

Momolo. Cara Colombina, ve voria pregar de un servizio....

Colombina. Sì, certo; mi preghi, che ho motivo di far di tutto pel mio padrone, così caro, così generoso! È vero che sono una serva, ma non sono poi da disprezzare così. Donarmi un anello, che non era suo, per mettermi in un impegno da comparire una ladra, o una poco di buono? Mi maraviglio di lei. Si provveda, che io in casa sua non ci voglio stare; e quest’affronto me lo ricorderò fin ch’io viva, e farò tanto, che spero un giorno di vendicarmi e fargli vedere che, sebbene sono una donna ordinaria, ho spirito per rifarmi di una azione così cattiva. (parte)

SCENA IX.

Momolo, poi Celio.

Momolo. Mi resto incanta, e no so più cossa dir. Adessadesso anca i villani me bastona, e i cani me vien a far sporco adesso.

Celio. Signor cognato, alle corte, o pensate ad assicurare i miei crediti, o farò i miei passi, e con tutta la parentela vi farò cacciare in prigione.

Momolo. A mi, sior cugnà?

Celio. Sì, a voi, che non contento di quello che mi avete cavato dalle mani, vi prevalete della dabbenaggine di mia moglie, sino per ispogliarla della roba sua. Ma che dico della roba sua? della roba mia. Quest’anello mi costa cento zecchini, e voi, pazzo, insensato, lo donate alla vostra serva? Corda, ospitale, catene. (parte)

SCENA X.

Momolo, poi Truffaldino.

Momolo. Corda, ospeal, caene! son in stato da far un lazzo e picarme. Son desperà; e per cossa? per esser troppo generoso. Ah, pur troppo xe vero quel che cento volte me xe sta dito; no son generoso, son prodigo. No dono, ma butto via, i mi interessi xe in precipizio, e se perdo la causa, e se [p. 314 modifica] no segue l’aggiustamento? povereto mi, no gh’ho più gnente, ho vendù tutto. Presto, voggio andar a Venezia a veder i fatti mii, a tender a sto aggiustamento, a sta lite; za tutti me lassa, tutti me dise roba. Chi è de là? gh’è nissun?

Truffaldino. Ghe son mi.

Momolo. Vame a chiamar el fattor.

Truffaldino. El fattor? savì dove che el sia, el fattor?

Momolo. Mi no lo so7.

Truffaldino. Gnanca mi.

Momolo. Valo a cercar, che ti lo troverà.

Truffaldino. Chi lo vol el fattor?

Momolo. Mi.

Truffaldino. Donca cerchelo vu.

Momolo. Tocco de aseno, cussì ti parli?

Truffaldino. Coss’è sto aseno, sior? la me porta respetto. E a un omo che ha sfadigà sin adesso, no se ghe dis aseno, sior.

Momolo. Cossa hastu fatto, che ti ha sfadigà fin adesso?

Truffaldino. Ho porta el gran, sior; e a mi no se me dis aseno, sior?

Momolo. Dove l’hastu porta el gran?

Truffaldino. L’ho tolto dal graner de sta casa, e l’ho porta in tel graner del patron.

Momolo. Del patron? chi elo el patron?

Truffaldino. El fattor.

Momolo. El fattor xe el patron, tocco de bestia?

Truffaldino. Mi no son una bestia, sior.

Momolo. E ti ha portà el gran in tel graner del fattor?

Truffaldino. Lustrissimo, Zelenza, sì, sior.

Momolo. (Com’elo sto negozio? Trappola fa portar el formento dal mio graner in tel soo?) (da sè) Presto, chiameme el fattor, dighe che ghe voggio parlar.

Truffaldino. El fattor no se descomoda per nissun. Quando i contadini ghe vol parlar, i va a casa da lu, e se l'ha da far, i aspetta; e se ghe volì parlar, podì far cussì anca vu, sior. (parte) [p. 315 modifica]

SCENA XI.

Momolo solo.

Momolo. Possio esser più strapazzà? Costori i magna el mio pan, e no i me cognosse gnanca per patron. Ma i gh’ha rason, el fattor xe assae più paron de mi, perchè ghe lasso far tutto a elo; e co ghe domando bezzi, par che el me li daga per carità. Sto negozio de sto formento in tel so graner me dà un pochetto da sospettar. Da qua avanti voggio averzer i occhi. Sempre fe vu, sempre fe vu, no la xe una cossa che staga ben. No vorave, che col fe vu, el fasse tutto per elo e gnente per mi.

SCENA XII.

Trappola e detti.

Trappola. È vero, che V. S. mi domanda?

Momolo. Sior sì; aveu vendù el formento?

Trappola. L’ho venduto.

Momolo. A che prezzo? quanti stari gerelo? quanti bezzi avemio cavà?

Trappola. Non ha ella avuto dieci zecchini?

Momolo. Sì ben, li ho avudi, e m’ave dito de mostrarme el conto. Animo, dove xelo?

Trappola. Adagio, con un poco di flemma, ci sarà il conto, vederà i fatti suoi.

Momolo. Diseme, caro vu, perchè portar el formento in tel vostro graner?

Trappola. Chi ha detto che lo porto8 nel mio granaio?

Momolo. Me l’ha dito chi lo sa. Ve despiase che lo sappia? ghe xe sotto qualche scondagna9?

Trappola. Mi maraviglio. Sono un galantuomo. Si è messo il grano nel mio granaio per far servizio al compratore. [p. 316 modifica]

Momolo. Benissimo, ve la passo; femo i conti, che voggio andar a Venezia.

Trappola. Che conti vuol ella fare?

Momolo. Della vendita de sto formento.

Trappola. Quando V. S. vuol far conti, si hanno da fare i conti di tutto il tempo che io la servo, perchè sono io creditore, e gli ho dato tanto danaro del mio, che sono scoperto10 di più di mille ducati; e non voglio dar altro, se non si vede chiaro quel che ho d’avere, e non mi rimborsa di quel che avanzo; e per far conti di sei anni, vi vuol del tempo; onde se vuol andar a Venezia, vada, che verrò colà a ritrovarla, e vedrà i miei conti, e vedrà che io sono un uomo onorato, e si prepari a pagarmi. (parte)

SCENA XIII.

Momolo solo.

Oh, che baron! prencipio a conosserlo adesso. Nol vol far i conti, el xe avezzo a magnarme tutto, e a darme quel che ghe par; e pò el dise che el va creditor. Oh poveretto mi, cossa hoggio fatto? Che regola hoggio tegnù fin adesso? Son precipità, son in rovina. Chi sa che anca a Venezia non sia servio co sto bon cuor da i mi avvocati, dal mio interveniente11? e mi cussì alla orba gh’ho donà un anello. Sto donàr senza sugo, sto spender senza misura, che credito m’halo acquista? Che merito m’halo fatto? Ecco qua, tutti me rimprovera, tutti me strapazza, tutti me scampa e me lassa solo. E co no gh’averò più gnente a sto mondo, chi me agiuterà, chi me darà da viver, chi gh’averà de mi compassion? Nissun a sto mondo, perchè le mie spese le ho fatte con troppa ambizion. Ho buttà via dei ducati a miara, e no posso dir d’aver dona un ducato per carità. M’ho fatto magnar el mio, e no ho mai soccorso una fameggia de miserabili. Adesso ghe penso, adesso cognosso i spropositi della mia condotta. Ho sempre avudo dei adulatori, [p. 317 modifica] che m’ha lodà per magnar el mio, e adesso che me sento rimproverà da zente onorata, cognosso la verità. Remedio, se se pol. Ma semio a tempo de remediar? Tutto dipende da sta lite, che gh’ho a Venezia. Stassera aspetto el Dottor. Se nol vien, doman subito corro a Venezia. Se la va ben, torno in pie, remedio ai desordeni, e sto baron de fattor me renderà conto dei negozi, che el m’ha fatto far. Se la va mal, una delle do, o un abito da pellegrin, o un schioppo in spalla a farme mazzar. (parte)

SCENA XIV.

Camera.

Beatrice e Clarice.

Beatrice. Credetemi, amica, ho una passione sì forte per mio fratello, che non mi posso dar pace. Ci siamo amati sempre sin da bambini, e son forzata ad amarlo ad onta de’ suoi disordini e dei dispiaceri, che provar mi tocca per sua cagione. L’ho mortificato poc’anzi, e l’ho veduto rimanere stordito, e quasi mi pento di averlo fatto; pure, se credessi che le mie parole bastassero a farlo ravvedere, tornerei di bel nuovo a mortificarlo.

Clarice. Si vede che voi l’amate davvero, e convien dire che siate di cuore assai tenero, se seguitate ad amarlo, ancora quando meno lo merita.

Beatrice. Se voi lo aveste conosciuto sei o sett’anni sono, lo avreste ritrovato degno d’amore. Non si dà un uomo di miglior cuore di lui. Egli non ha alcun vizio di quelli che fanno agli uomini disonore. Per un amico si getterebbe nel fuoco. Fa stima grande di tutti. Onora le persone di merito. Ama con tenerezza, con sincerità, con costanza. Compiacentissimo in tutto colle persone ch’ei tratta, e questa sua compiacenza è stata causa del suo precipizio. Rimasto solo, fu attorniato da gente trista, da falsi amici, adulatori, mendaci. Si è lasciato condurre da’ suoi domestici, da un fattore briccone; in somma è un povero cieco, che corre al precipizio senz’avvedersene. [p. 318 modifica]

Clarice. Non si può dir meglio in di lui favore di quel che dite; ma il male si è troppo avanzato, e dubito non vi sia rimedio.

Beatrice. Eppure io credo che con poco si potrebbe ricondurlo sulla prima strada. Siccome i suoi difetti non provengono da un cattivo animo, ma da una troppo facile condiscendenza, basterebbe ch’ei cambiasse la pratica delle persone che lo adulano, in altre sincere ed oneste, vorrei scommettere, ch’ei si riduce come un agnello.

Clarice. Felice lui e felice voi, se ci aveste pensato prima! Ora che non ha più niente di suo, anche il suo pentimento potrebbe credersi disperazione, per non aver più il modo di scialacquare, com’ei faceva.

Beatrice. Se si verificasse l’aggiustamento della sua lite, sarebbe egli ancora nel caso di far conoscere il suo cambiamento.

Clarice. Dubito che anche la lite andrà come il resto delle cose sue.

Beatrice. Se va bene l’affare, vo’ certo procurare di dargli moglie.

Clarice. Non vi riuscirà così facilmente.

Beatrice. Con quattro mila ducati d’entrata, nel suo stato può sperare un conveniente partito.

Clarice. Ed i suoi debiti?

Beatrice. Sono di tal natura, che può con poco ricuperare gli effetti, che ha ipotecato.

Clarice. Avrete in animo di procurargli una buona dote.

Beatrice. No, amica. Vorrei cercar di trovargli soltanto una buona moglie, sendo io persuasa, che una donna di garbo in una casa sia la miglior dote, che possa un uomo desiderare.

Clarice. Quand’egli sia in istato di mantenerla, e dia segni di pentimento del suo costume passato, non vi sarà difficile di ritrovarla.

Beatrice. Così voi foste di lui persuasa, come vi pregherei di secondare le mie intenzioni.

Clarice. Con qual animo mi consigliereste voi che io lo facessi? Non vi vuol poco per vederlo cambiato.

Beatrice. Fatemi una grazia; ve la domando io per la nostra buona amicizia: non partite per ora. Trattenetevi qui qualche giorno. [p. 319 modifica]

Clarice. Ho detto di voler partire, ed il burchiello sarà allestito.

Beatrice. Poco costa a dir che vi siete pentita.

Clarice. Voi mi vorreste esporre a delle scene maggiori.

Beatrice. Chi è quegli? Il Dottore, che è ritornato. Sentiamo che novità ci reca. Vediamolo noi prima di mio fratello. Ehi, ehi, signor Dottore, favorisca. (verso la scena)

SCENA XV.

Il Dottore e dette.

Dottore. Dov’è il signor Momolo?

Beatrice. Or ora lo faremo chiamare. Ditemi, come va l’affare?

Dottore. Benissimo. L’aggiustamento è seguito.

Beatrice. Sia ringraziato il cielo! Ritornerà la possessione in potere di mio fratello?

Dottore. Ho meco la lettera per la liberazione del sequestro.

Beatrice. Ah? Che ne dite? Le cose principiano per buona strada. (a Clarice)

Clarice. Sono a parte del vostro piacere, come se io medesima fossi in ciò interessata.

Beatrice. Ancora spero che abbiate da interessarvene.

Clarice. Come?

Beatrice. Colle nozze di mio fratello.

Clarice. Siete pure graziosa!

Beatrice. Ne parleremo. Signor Dottore, già che tanto vi siete portato bene in favore di Momolo, avete da fare un’altra cosa per lui utile non meno di questa.

Dottore. Son qui disposto a tutto per un galantuomo di questa fatta.

Clarice. Dite, signor Dottore, è vero ch’egli vi ha donato un anello?

Dottore. È verissimo.

Beatrice. Vedete? Ha questo di buono ancora mio fratello, non dice bugie. (a Clarice) Caro signor Dottore, voi saprete all’incirca i disordini, in cui egli si trova. Per farlo un poco più ravvedere, è necessario mortificarlo. Facciamogli dubitar per un poco ancora dell’esito della causa, per fargli concepire con più [p. 320 modifica] forza l’orribile aspetto della miseria; ritiratevi in una stanza, e quando vi farò cenno, verrete a dargli la buona nuova.

Dottore. Mi dispiace dovergliela differire. Son venuto da Fusina a qui per la posta per consolarlo, ed ora non vedo l’ora di farlo.

Beatrice. Fate a modo mio, che sarà sempre meglio. Vi prego, so quel ch’io dico.

Dottore. Non voglio lasciar di farlo, per una sorella che gli vuol bene. (parte)

SCENA XVI.

Beatrice, Clarice, poi un Servitore.

Clarice. Ammiro il vostro amore, ma ancora più la vostra condotta. In verità siete una donna di un talento e di uno spirito sorprendente.

Beatrice. Io non so niente; ma è l’amore che mi consiglia. Chi è di là?

Servitore. Comandi.

Beatrice. Dite al padrone che venga qui.

Servitore. Non so che cos’abbia, signora. Passeggia solo, batte i piedi per terra, guarda il cielo, e pare che pianga.

Beatrice. Cercatelo subito, e ditegli che venga da me, che mi preme.

Servitore. Sarà servita. (parte)

Beatrice. Sentite in che stato di afflizione si trova? Non merita compassione?

Clarice. Può anch’essere ch’egli si affligga, temendo di non poter più menare la vita solita.

Beatrice. Perchè volete pensar sì male di lui? Compatitemi, siete troppo indiscreta.

Clarice. Credetemi, ch’io lo desidero quanto voi cambiato, e se temo, temo appunto perchè.... basta, non vo’ dir altro.

Beatrice. Ditelo, perchè l’amate.

Clarice. Sì, non lo so negare.

Beatrice. Che siate benedetta! Eccolo, ch’egli viene. [p. 321 modifica]

SCENA XVII.

Momolo e dette.

Momolo. (Siora Clarice co mia sorella! Me vergogno de comparirghe davanti). (arrestandosi)

Beatrice. Avanzatevi, signor fratello. Il vergognarsi è superflua con chi sa i disordini vostri. Siamo agli estremi per la vostra màla condotta, e per compimento delle vostre disgrazie, abbiamo nuove sicure che la vostra causa è precipitata.

Momolo. Ah, pazenzia! Cara sorella, abbiè compassion de mi; son un povero miserabile, e confesso de esserlo per causa mia.

Clarice. Conoscete ora i vostri disordini?

Momolo. Pur troppo li cognosso, e me despiase de esser in sto stato che so, per no poder far veder al mondo la premura che gh’averia de remetter el mio concetto, de scambiar vita, e de comparir quell’omo civil e onorato, che vol la mia nassita e l’esser de galantomo.

Clarice. Buone massime, se venissero veramente dal cuore.

Beatrice. Ditemi un poco. Se la causa fosse andata bene per voi, se aveste ricuperati gli effetti arrestati, che cosa avreste fatto per dimostrare pubblicamente la verità di quello che ora vantate?

Momolo. Cognosso che da mia posta no son capace per adesso de piantar un novo sistema, e de seguitarlo con regola e con profitto. M’averia volesto buttar in brazzo de qualche persona amorosa, e m’averia lassà regolar fin tanto che m’avesse cognossù capace de far mi medesimo i mi interessi, e regolar la mia casa. Cognosso, vedo e capisso che per esser stimà galantomo, no s’ha da buttar via el soo in sta maniera. Vedo, pur troppo, che ho fatto mal.... ma cossa serve che diga, se za per mi no ghe xe remedio?

Beatrice. Nel caso che aveste ricuperati i vostri effetti, vi fidereste che io e mio marito vi facessimo l’economia?

Momolo. Cussì fussimo in stato, come ve pregheria in zenochion vu e sior Celio de farlo per carità. [p. 322 modifica]

Beatrice. Ancora potrebbe darsi che la causa non fosse perduta, che l’aggiustamento seguisse e che voi foste padrone del vostro.

Momolo. El ciel volesse che fusse vero.

Beatrice. Cosa fareste in quel caso?

Momolo. Scrittura per dies’anni de viver come un fio de fameggia.

Beatrice. Sentite, signora Clarice?

Clarice. E per dieci anni non occorrerebbe ch’ei parlasse di maritarsi.

Beatrice. Perchè no? Una moglie saggia e discreta potrebbe ella prendere il carico di regolar la sua casa.

Momolo. Anca de questo saria contento. Ma no merito tanto ben, e pur troppo me sento sulle spalle el mio precipizio.

Beatrice. Parmi di vedere colà il signor Dottore. Sì, è desso. Venga avanti, signor Dottore.

SCENA XVIII.

Il Dottore e detti.

Dottore. Signor Momolo, allegramente.

Momolo. Bone nove?

Dottore. Migliori non possono essere di quel che sono: l'aggiustamento è seguito, ed ecco la liberazione del sequestro. (mostra un foglio)

Momolo. Bravo, evviva; respiro; torno da morte a vita; diseme, l'aggiustamento come xelo? Cossa gh’avemio da dar?

Dottore. Si è accomodato l’avversario con duemila ducati pagabili in quattro tempi a cinquecento ducati l’anno. Siete di ciò contento?

Momolo. Contentissimo. No se podeva far meggio; no la me podeva costar manco de cussì.

Dottore. Converrà che voi ratifichiate l’obbligazione, mentre sulla mia fede mi hanno accordato anticipatamente la liberazione suddetta.

Momolo. Xe giusto, me sottoscriverò12 immediatamente. [p. 323 modifica] dottor, lasse che ve daga un baso de cuor. Me arecordo, che v’ho promesso cento zecchini, e me par che li mente; ma co ve li ho promessi, gera un orbo, che no saveva conosser nè oro, nè arzento, nè merito, nè demerito, nè rason, nè torto, nè convenienza. Adesso son un poco illuminà: ma no tanto che basta, e da qua avanti no me voggio fidar de mi. Consegno tutti i mi interessi in man de mia sorella e de mio cugnà; lasso che i fazza lori, e da lori aspettè la recompensa delle vostre fadighe. Tutto quello che posso far per vu, xe questo, de metterghe in vista el merito della vostra attenzion, della vostra onestà, e de pregarli de trattarve ben. (da sè)

Dottore. Per me, sono un galantuomo, e mi contenterò di quello che si compiaceranno di darmi. (Mi pareva impossibile d’aver a guadagnare in un colpo cento zecchini). (da sè)

Beatrice. Io veramente di queste cose forensi non me ne intendo, e molto pratico non è nemmen mio marito, e però non vorrei che si eccedesse, nè che restasse pregiudicato il merito del signor Dottore. Che fareste voi in tal caso, signora Clarice, se aveste voi da disporre?

Clarice. So quel che farei, se a me toccasse arbitrare.

Beatrice. Vi contentate, fratello, che la signora Clarice decida?

Momolo. Son contentissimo; ghe darave l’arbitrio sulla mia vita, figureve se no ghel darò su sta piccola diferenza!

Beatrice. Dunque l’affare è a voi rimesso; decidete come vi piace. (a Clarice)

Dottore. (Dubito di aver fatto una cattiva giornata). (da sè)

Clarice. Veramente lo spendere con profusione, come sin ora ha fatto il signor Momolo, è una eccedenza viziosa che passa i limiti della generosità, e diventa un difetto. Ma quando si tratta di mantener la parola e di riconoscere un benefizio, è necessario allargar la mano. Dunque io dico che il signor Dottore merita i cento zecchini, e che se ciò fosse in arbitrio mio, glieli darei senza alcuna esitanza.

Momolo. La sentenza no poi esser più giusta, e mi la lodo e la sottoscrivo. Sior Dottor, averè i cento zecchini, no dalle mie [p. 324 modifica] man, perchè mi per un pezzo no veggio più manizzar, ma da quelle de mia sorella, che sarà l’economa dei mi interessi.

Dottore. Rendo grazie a V. S. ed alla signora Clarice, e lascio tutto il comodo alla signora Beatrice di favorirmi. (Non credevo mai da una donna poter sperare tanta giustizia e tanta generosità). (da sè)

Beatrice. Che dice, signora Clarice, della costante rassegnazione di mio fratello?

Clarice. Io certo me ne consolo, e ne sarò ancora più persuasa, quando effettivamente lo vedrò cedere a voi ed a vostro marito il regolamento della sua casa.

Momolo. Sior Dottor, za che sè qua presente, ve prego stender una scrittura de cession de tutto el mio a sior Celio e a siora Beatrice, perchè i paga i mi debiti, e che i me assegna a mi un trattamento onesto, e quel che avanza se metta da banda per dies’anni, per farne un fondo de cassa, per non aver più bisogno de mendicar un miar de ducati in tuna occorrenza.

Dottore. Lo farò volentieri.

Beatrice. Ditemi, fratello mio, quest’accordo che volete fare con noi, non lo potreste fare colla signora Clarice?

Momolo. Magari che la se degnasse acettarlo.

Clarice. Non conviene ad una donna vedova, e non ancor vecchia, far l’economa di un giovanotto.

Beatrice. Converrebbe bene a una moglie far l’economa del marito.

Momolo. Oh brava! cossa disela? (a Clarice)

Clarice. A una tale sorpresa non so rispondere.

Momolo. Chi tase, conferma. Sior Dottor, femo un contratto de un’altra sorte. Cedo tutto a siora Clarice.

Dottore. Con che titolo? di donazione?

Momolo. Tutto quel che volè.

Clarice. Ecco il prodigo. Non è ancor guarito della sua malattia.

Beatrice. Interpretate meglio i trasporti dell’amor suo. Accettate il maneggio de’ suoi interessi, e avrete voi il merito di averlo fatto cambiar condizione.

Momolo. Via, siora Clarice, che la se mova a pietà de un omo, ch’ha bisogno de ela per tutti i versi. [p. 325 modifica]

Beatrice. Fatelo per amicizia, per compassione.

Momolo. E anca un pochettin per amor. Passibile che la me trova tanto pien de difetti, che no sia degno della so grazia? Possibile che no la me voggia gnente de ben?

Clarice. Sì, lo confesso, vi ho amato e vi amo ancora, ma....

Beatrice. Questo ma è fuor di tempo; l’obbietto principale è rissolto. Momolo viverà a modo vostro.

Momolo. Me lasserò condur da ela co fa13 un putelo.

Dottore. Su dunque, signora, dica un generoso, e lasci a me la cura di stendere un contratto, come va steso.

Momolo. Da brava, la lo diga sto , che me pol consolar.

Beatrice. Ditelo questo benedetto, che si sospira.

Clarice. Ma quando è detto, è detto.

Momolo. La lo diga, se la vol che el sia dito.

Dottore. Ho da scrivere? ho da formare il contratto?

Clarice. Andate.... scrivete.... non so resistere.

Momolo. Hala dito de sì?

Clarice. Caro Momolo, sì.

Momolo. Evviva.

Dottore. Vado a scrivere immediatamente. (parte)

SCENA XIX.

Beatrice, Clarice, Momolo.

Beatrice. Ora sono perfettamente contenta.

Momolo. Son fora de mi dalla contentezza.

Clarice. Non mi ricercate niente della mia dote?

Momolo. Che dota? la so prudenza, el so cuor. E po quel viso, quei occhi! oh che bella dota!

Clarice. Non siate sì poco accurato. Vi darò la dote, ch’ebbe l'altro marito mio.

Momolo. Son contentissimo, e anca che no la fusse tutta, n’importa. [p. 326 modifica]

SCENA XX.

Celio, Ottavio e detti.

Celio. È vera la nuova dataci dal signor Dottore?

Beatrice. Verissima, e ve n’è un’altra più bella. Mio fratello è sposo della signora Clarice.

Ottavio. O signora sorella, mi rallegro con voi.

Clarice. Il suo cambiamento mi ha indotto a farlo.

Celio. Ho anch’io da darvi, signor cognato, una nuova curiosa. Ho saputo che il fattore cercava in fretta di vendere a precipizio del grano, e che faceva bauli per andarsene via. Ho sospettato di qualche sua bricconata, e l’ho fatto metter in prigione.

Momolo. Bravissimo, avè fatto ben. Cussì el me renderà conto de tutto quello che el m’ha magnà.

SCENA XXI.

Leandro e detti.

Leandro. Signora Clarice, il burchiello è pronto, i barcaruoli son lesti e dicono che bisogna sollecitare.

Clarice. Signor Leandro, vi ringrazio infinitamente della vostra attenzione. Mi dispiace dell’incomodo che vi siete preso; ma ora non sono più in arbitrio di dispone di me medesima, dovendo dipendere dallo sposo.

Leandro. Dallo sposo? E chi è questi?

Momolo. Son mi, per servirla. (a Leandro)

Leandro. Questo è un affare condotto in simil guisa, affine di maggiormente insultarmi. Non so da chi provenga l’ingiuria, ne vo’ saperlo; ma voi me ne dovrete dar conto, (a Momolo)

Momolo. Sior sì, quando che volè; adesso gh’ho spada e scudo, che no gh’ho paura.

Clarice. È superfluo che vi riscaldiate; sapete già... (a Leandro) [p. 327 modifica]

Leandro. So quel che volete dirmi. Di me non avete mai fatto conto. Lo doveva comprendere; merito ancora peggio, e colle donne saprò regolarmi meglio per l’avvenire. (parte)

Momolo. Bon viazo; a revederse co se vederemo.

SCENA ULTIMA.

Truffaldino e detti, poi Villani e Villane.

Truffaldino. Siori, xe qua la nobiltà campagnola, venuda per la festa da ballo.

Momolo. No vôi balli, no vôi feste.

Beatrice. Via, per questa sera, in grazia delle nozze e dell’apparecchio già fatto, si può ballare e cenare e divertirci, per scordarsi affatto dei dispiaceri passati; che dite, cognata? (a Clarice)

Clarice. Son contentissima, e ora mi divertirò volentieri.

Momolo. Animo donca, ballemo e devertimose per sta volta; e pò farò tutto quello che piaserà alla mia cara Clarice. (segue il ballo de’ contadini, e con questo)

Fine della Commedia.

  1. Zatta: sberleffi.
  2. Così Zatta; Paperini ha conto.
  3. Così Zatta; Paperini: aliegra.
  4. Zatta: niova.
  5. Zatta aggiunge: molto.
  6. Paperini: costarebbero.
  7. Zatta: mi no so gnente.
  8. Zatta: che l’ho portato.
  9. Scondagna, azione nascosta.
  10. Zatta: allo scoperto.
  11. Vedi nota (3) a pag. 270.
  12. Zatta: me sottoscrivo.
  13. Co fa o cofà = come, a guisa di.