Il ponte di Veja
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IL PONTE DI VEJA
POEMETTO
DEL SIGNOR ABATE
GIUSEPPE LUIGI
CONTE PELLEGRINI
Già di Cuzan biancheggiano a rimpetto
Le doppie torri; il vicin olmo a l’euro
Già comincia a fischiar; pure d’aratro
Ferro non anco stride; e il colle intorno
5Tace di Romagnan; se non che sciolti
Latrar s’odono i veltri, e su la fosca
Valle suggetta di lontan rimbomba
De i vigilanti cacciatori il corno.
Veja dov’è? dov’è il marmoreo Ponte
10Raro lavor di cento lustri, e cento,
Che architettò la Dedala natura?
Su presto s’esca de le mute stanze,
E andiamlo a contemplar. Dimice il vuole,
Dimice bella al par del primo raggio,
15Che omai spunta del sol. Ella da gli occhi
Con le dita di neve il resto terge
D’un languidetto sonno; e immantinenti
Di rustico cimier preme le trecce
Sparse in parte sul nudo omero, in parte
20Strette di nastro, che le fregia, e annoda.
Indi raffrena al rilevato fianco
Gli ondosi lembi de la veste, e sciolta
La ben tornita gamba, e il picciol piede
Desta la schiera, e la garrisce, e incita
25A divorar la via. Ma oimè! che troppo
Ardua tra sassi inospiti sormonta,
E impervia a cocchi frettolosi appena
Apre a lenti cavalli alpestre il varco.
Eccoli presti. Le dimore ingrate,
30Dimice, rompi, ed il più altero imbriglia,
Che scalpendo il terren par che dimandi
A farsi docil di tua mano il freno.
Io son con teco. Teco l’inaccesso
Alcenago tentar; l’aprico Fane
35Teco veder m’è dolce: e dove dolce
Non fa teco il vagar; fosse pur anco
Sul dorso de’ Rifei gioghi; o piuttosto
D’Affi paterno per le piagge amiche.
Era alto il sol, d’onde piovean più larghi
40I bei color, che a varia luce il piano,
Ed il colle vestian; quando a fatica
Di balzo fero omai l’erta saliti
Ne passiamo la cima. È desso il balzo
D’Alcenago petroso, ed ecco in faccia
45Amena aprirsi, ampia pianura, dove
Fuor del duro sentier, come si spande
Da racchiuso canal libera l’onda,
Cost tosto si corse da ogni lato
A rimirar attoniti Pincanto,
50Che offriva al basso la cedente scena
Di vitiferi colli aprichi gli uni,
E di biade dorati; e gli altri opachi,
E folti d’olmi, e di fronzuti cerri.
Qui nido a’ lepri ermi burroni, e cespi
55D’umil ginepro: là schiette pendici,
E verdeggianti ulivi ai tordi asilo.
Poi da le rocce giù cadenti rivi,
Che si perdon tra fassi: poi ruscelli,
Che serpeggiando per erbosi prati
60Cari a le gregge, ed a i pastor, con lento
Mormorio destan le zampogne: e lungi
Le tranquille acque di Benaco, altrici
De gli auricomi cedri: e più dappresso
Eccelle torri, e logge colte, e ville
65D’archi, di statue, di giardin, di fregi
Lucide, e adorne, che dovunque sparse
Traspajon fuor de i boschi oscuri, e l’ampio
Ingemman di splendor piano selvoso.
Quale nel verno a i lieti di, che in festa
70Di nuove mode la Città pompeggia,
La nereggiante, ed ora tanto estesa
Di ben alti capei selva odorosa
Ingemman sparse a Dimice sul capo
Le bianche perle, ed i rubini ardenti.
75Ella in quel mi si volse, disadorna
Com’era allora: se non che più ardenti
Rubin mostrava il roseo viso, e perle
Schiudea più bianche la vermiglia bocca,
Che apri col dire: questa, che si vaga.
80A noi soggiace, e sopra cui trascorre
A immenso tratto l’avid’occhio, è questa
La valle Policella: altero nome
Non ignoto oltre al mar; poichè l’opima
India posposta, parve meglio a Bacco
85Qui la sede fissar, che in riva al Gange.
Pur non a Bacco è sacro il luogo, a cui
Ci ha scortati il cammin. Fane si noma
Con voce al Lazio non ignota, e ch’anco
Fa fede, che vi avea qui stesso, dove
90Non vedi ch’ermi casolari, un tempio,
Che a Giove vincitor dédica il volgo.
Ella sì disse; ed io di sotto visti
Pochi tetti straminei, il guardo giro,
Se sopra mostri quella cima avanzo
95Di delubro sdrucito. In quella ascolto
Sonoro fischio, e stupefatto miro
Di terra uscir con aureo-azzurra cresta
Lungo serpente, che non torvo porta
Il foco, che ha ne gli occhi; e mite in vista
100Senza orror vibra la trisulca lingua.
Diè un alto strido Dimice, e sbalzando
Non lungi al figliuolin, troppo gelosa
Parte pur egli de la schiera; curva
Sul caro pegno al palpitante seno
105Trepida se lo stringe, e volge in dietro.
Io le corro da lato, e folla accorta,
Che a nessun segno l’apparito mostro
Non presagiva inaugurato evento.
Al non dubbio parlar ritorna a l’alma
110Il vigor de lo spirto; a poco a poco
Solleva il viso languido; e mi parve
La bianca luna, quando trae serena
La fronte de le nubi, in cui s’avvolse
Timidamente, se d’ingrata pioggia
115Presenti forse non lontano il nembo.
Disciolti intanto quel serpente aveva
I nodi, ond’era raggruppato, e steso
Il liscio tergo lucido di squamme,
Che sotto i rai parean squamme d’argento,
120Frammisto a più color, quanti ne spande
Di Giunone l’augel, Indi sublime
Erge la testa; a guisa d’onda spinge
Il flessibile corpo; a più volute
Striscia la polve; e dove retti, e dove
125Obliqui segna con la coda i solchi.
Nè guari non istette. Ei d’onde prima
Lubrico uscì, là sdrucciolò sotterra.
E noi ci femmo il vacuo loco allora
Taciti ad osservar, quale contorno,
130E quale forma le intralciate spire
Deserivesser sul suol. Era di vago
Edificio il disegno, e quello appunto
Parea d’un tempio. Del tuo certo, o Giove,
Quando il prode d’Arpin fugati i Cimbri
135Ne la valle vicina, a te te spoglie
De la Dania sacrò, di Roma i voti.
Abbiti i nostri pur. Cosi giulivi
Del buon presagio dove pria s’offrisse
Di che a Giove libar, libar a Giove
140Concordi promettiam.
Non lungi dove
Il cammino declina, ermo villaggio
In fra i monti s’asconde, e la minuta
Ond’è sparso il terren ghiara gli diede
Il volgar che ritien nome di Giare.
145Quivi dunque discesi, ecco che tosto
Di qua e di là da gli umili tugurj
Escono fuor donne, e fanciulli, a cui
C’insegnino, chieggiamo, ove fal puro
Trovar si possa, ove trovar del latte
150Smunto allor da la greggia, e chi di vino
Riposte anfore serbi, e chi dispensi
Di gialleggiante gran fresca farina.
Non occorre di più. Già fiamo accolti
Dentro di pastoral povero albergo,
155Povero per altrui, ma per la casta
Famigliuola innocente albergo ricco
D’auree virtudi. I numi stessi, i santi
Numi del ciel torcendo il volto schivo
Da gli Attici tappeti di profane
160Mense corredo, e da le tazze d’oro,
Che versa impura man; avuto quivi
A vile non avrian di rozzo legno
L’apposto desco, e le apprestate coppe
Di creta informe. Ardea lucido intanto
165Il focolare, e nel pajuol col sale,
Che infuse di sua man Dimice, il latte
Bolliva, e la farina; e fatta densa,
Di esperto braccio femminil fatica,
Con girevol baston la gialla massa
170Si rovescia sul desco. Il colmo ondosi
Volve globi di fumo; e d’alto irrora
Di gratissimo odor l’aure campestri.
Giove l’offriamo a te. Se qui l’incenso
De l’Arabo odorato, se la mirra
175Qui non ti fuma del Sabeo felice,
Tu questa, o padre, arida piaggia accusa.
Accusa questi monti inerti, e queste
Capanne di pastor, da cui non lunge
Pur ti piacque abitar. Al punto stesso
180Ampia tazza di vin spargendo al suolo
Dimice prima, e dopo gli altri in giro
Sciogliemmo il voto. La vivanda agreste,
Che ancor restava su l’intatta mensa,
Poi si divide a satollar la fame,
185Che il cammino, e il digiun vieppiù raccende.
Un bianco fil ne fende in lunghe liste
Larga parte a ciascun. Intorno vanno
Del vin le conche; ed essa pur si allegra
Sparsa a corteggio per l’angusta slanza
190La rustica famiglia, che ravviva
Con moti arguti la canuta madre.
Era dolce il vedere a lei soggetti
Tre adulti figli, e de gli adulti figli
Le caste mogli, e i picciolin nipoti
195Tutti intesi a giovar, spiranti tutti
Giovenile allegrezza, e tutti pieni
Di candor puro, omai sol de le selve
Romito abitator. Quivi l’amore
De i dolci parti; la concordia quivi
200De i ben guardati talami, e la fede,
E il pudore, e il timor santo de i numi.
E questi, volta a Dimice, son questi,
L’ava antica dicea, de l’erme rupi,
Che ci tessono in cerchio ombra, e corona,
205I più cari tesor. So ch’altre rupi
Nutron nel sen fecondo, se si narra
A noi semplici il vero, altri tesori
Di argento, e d’oro. E fian di qui lontane,
O ciel, per vostro don; che pur lontane
210Di qui faran le colpe, a cui sospinge
D’oro, e d’argento la rea voglia ingorda,
Credilo si, d’esse fiam scevri, e questi
Che insiem trastullan teneri fanciulli
Sin d’ora abborron la menzogna, e il tristo
215Di nuocer inuman genio: satolli
La sera affai ne i lunghi giorni estivi
Del cibo vil, che un picciol ci ministra
Orticel qui dappresso, e assai difesi
Nel crudo verno da i vellosi panni.
220Che prevenendo il sole al muto lume
D’esiguo foco con le nuore appresto
Torcendo il fuso. Ma già troppi, oh troppi
Ora son gli anni miei. Pur tu nel fiore
Di giovinezza, e di beltà, tu forse
225Più sereni non gli hai; sebben ravvifo
Ne le dolci sembianze un’alma pura,
E un generoso cor: quale palesa
Il figlio tuo, che figlio tuo cotesto
A la soave, e accorta indole il credo;
230Il credo a gli atti, al portamento, al viso.
In così dire al fanciulletto Inalco
Ella fè cenno; e a Dimice si sparse
Gaudio improvviso nel materno seno.
Nè più tarda a partir, grazie rendute
235Ai buoni albergator. Impaziente
Ferve la schiera, e chiede il ponte. O Giare
Vale: vale o terra ospital! Se in cielo
V’ha cura di color, che in parte sola
S’ascondon da le genti, e a tutti ignoti
240A se bastano soli, ne l’inopia
Non inopi, e di cuor prodighi; o Giare,
Nè nembo infesto mai, nè mai non turbi
I tuoi liquidi rivi, e le beate
Tue ombre grandin procellosa. Piombi
245I fulmin, piombi su le ardite torri
De le città piuttosto, e il fasto spezzi
De i prepotenti cittadin. Che sono
Le colte logge, e gli archi immensi, e gli alti
Tenti di marmo? O alberghi ingrati, dove
250Su lucidi terrazzi insiem passeggia
L’incivil boria co l’insano lusso;
E dove fu sostà serici insieme
Con l’ozio vil si adagia, ambra spirando
Di crini inanellati, la mollezza
255Ministra del piacer, che noi da gli avi
Fa degeneri troppo, e da noi troppo
Più degeneri i figli. Il sai tu Roma,
Che vedesti così sparir gli aviti
De le prische tue genti aurei costumi.
260I tuoi teatri, le tue terme, i templi,
Ei fori, e i ponti, e il si famoso Circo,
Opre ammirande a i secoli trascorsi,
Ammirar non poss’io, se su le sparse
Membra del Campidoglio, e su gli avanzi
265De le cadute moli anco sospiro
I cretosi abituri, e il sasso, d’onde
A pompa solo del poter sovrano
Fatto di legno ancor Giove tonava
Su le genti non trepide, e di lui
270Ne l’innocente povertà secure,
O età felici, che pur anco puote
Solinga piaggia riprodur! simile
Giare a la tua, che a lo squallor io tolgo
Del muto obblio, e con invidia forse
275Varcando le città, vincendo gli anni
Su l’ale porto di non bassi carmi
A destar la virtù dovunque annidi.
Ma quale omai mi si discopre nova
Di nove rupi varia scena, e quanta
280Mi sorge innanzi di ben quadri massi
Altera mole, che gli opposti giunge
Selvaggi monti, ed a grand’arco incurva
I fianchi alpini, ed il petroso dorso,
Veja si è questa: è questo certo il ponte
285Oltre a Battro famoso, e in pregio tanto
Al Gallo, al Sveco, a l’ultimo Britanno.
Erge il frontal di candido macigno
Giustamente nel mezzo: offre di sopra
D’ambi i lati il tragitto ampio; e di sotto
290Figlio d’ignobil non lontana selce
Rompendo tra burroni discoscesi
La picciola onda, e mal fugace, geme
Con roco suono un povero ruscello,
Che ricco forse un dì del non suo flutto
295Seppe torrente minacciar le rive.
Or se la cura di solerte ingegno
Condusse a fine sì regale impresa;
E a qual mai uopo? e se la man piuttosto
La disegnò de l’arbitra natura;
300Come la squadra, e lo scalpel poteo
De l’arte pareggiar? Così mi chiede
Dimice accorta ed io parte per parte
Ogni faccia, ogni lato, ogni angol cerco
Con l’occhio indagator, se di risposta
305La sapefssi appagar. Quando a la salda
De l’un de’ monti da sinistra dietro
Il lento mormorar dei picciol rivo
Aperta ne la selce ecco una bocca
D’orribil antro, ch’è di dentro bujo
310Di notte eterna, e fuor sì basso ha il varco
Che entrar vi puoi carpone a pena. Io punto
Dal desio di saper, la bolgia orrenda,
E i cavi seni à penetrar m’accingo.
Ne le due man due faci impugno, e il corpo
315Con fatica non vana a terra steso
Mi spingo ne l’angusto adito. Invano
Dimice mi richiama: io son già dentro;
Già m’ergo in piè; già con i lumi in alto
Sollevo gli occhi, e veggio.... ahi come a quella
320Vista odiosa, o Dimice, la voce
Onde me richiamasti al cor mi scese!
Era lo speco ampio dapprima, e scarso
Dopo, e profondo, e cupo tutto, e tutto
Nido di sozzi augelli, che a le scabre
325Volte del tetto con adunchi artigli
Qua, e là aggrappati a torme, come furo
Percossi allor da l’improvvisa luce,
Con strillo acuto, e spaventoso rombo
Mi piombarono addosso. A l’ale, a l’ugne
330Al puzzo tetro, a lo schiffoso ceffo
Le oscene mi parean sordide, Arpie;
E già d’udir anco a mio mal temea
La profetante un dì Celeno infesta
Al pio restaurator de l’arsa Troia.
335Non soffro quell’orror. Di nuovo tento
Carpone al giorno uscir. E quanto ancora
I ciel ringrazio, o Dimice, che presa
Dal desio di vagar, tu no non fosti
Del mio periglio testimone! in quella
340Che fuori del pertugio il capo sporgo,
Orribile portento! ambe le faci
Estinguonsi d’un soffio, e faccia a faccia
Un serpente mi fischia, che a lo stesso
Pertugio slava per entrar. M’arretro,
345E risorgo, ed agghiaccio, ed ardo, e tremo;
E allora più che l’occupato varca
Omai trapassa, e miserabil pasto
Mi credo de’ suoi morsi. A i lumi spenti
Suppliva il foco, che gli ardea ne gli occhi,
350E mel fa ravvisar quale, e quant’era
Là sul giogo di Fane. Il dorso, il collo,
E l’aureo-azzurra cresta, e il liscio ventre,
E il color de le squamme, e il mite aspetto
Tutto è di lui tal che di speme un raggio
355Mi lampeggiò su l’alma oscuramente,
Come da foco elettrico improvvisa
Strisciando esce una lista, e fosca incende
L’acquoso sen de le tonanti nubi.
E forse che a quest’ora il dente acuto
360Non m’avrebbe, io dicea, nel petto infisso,
S’egli pur fosse del mio sangue ingordo è
Poi dubbioso tacea: nè il voto sciolto,
Ne il sommo Giove venerato in Giare
Di mente non mi uscir. Pure nel fondo
365De l’orribile speco i lunghi indietro
Passi ritiro, e lento mi rintano
Ne l’ultimo confin. Lento par l’altro
Vienmi rimpetto, e mi fa chiaro giorno
Dov’è notte profonda. Oimè nè loco
370Più non avvi, nè scampo. D’una parte
Mi chiude il monte estremo, ed il serpente
Da l’altra inevitabile mi guarda.
Che posso io inerme ardir? S’era il destino;
Che dovessi perire inenorato
375Senz’altra tomba fuori de la lorda,
Che d’un angue m’apriva il ventre impuro;
Men mi dolea, che l’Apollinea fronda
Premio de’ vati già non fora sparsa
Sul muto eener mio fuor de l’avito
380Sepolcro errante, e eternamente a i cari
Amici ignoto; che ancor più, ti giuro,
Non mi dolesli, o Dimice, che ignoto
Pur anco a te sperava invan, che a le ossa
Gelide unito di tua man venisse
385Fra molta rosa, e fra licor soavi
Poi mollemente là riposto, dove
Cura ti fosse di chiamarmi a nome;
E di onorar se non di largo pianto,
Almeno d’un sospir l’ombra, che ignuda
390Sariati ancor fedele; e illustre, e conta
Faria la fama tua di là da Stige.
Tal volgea ne la mente, e l’angue rossi
Fè gli occhi a un punto più che bragia, e dardi
Lanciò di foco a illuminar sì chiaro
395Un bianco sasso, che sovr’esso incise
Legger potei queste dolenti note.
= Cerèo Pastor troppo beato, mentre
Era la grotta, era la bella seco
Veja amorosà, or miserabil troppo,
400Che più la grotta, più la bella seco
Non è Veja infelice: in questa selce
Pria di morir de la tremante mano
Vuol d’ambi insculta la memoria acerba,
Se uom disperato la ritrovi un giorno.
405Ella a un punto colà perì de l’acque
Rapina ingiusta. Io giusta preda infine
Pero qui del dolor. Gregge paterne
Conscie di quel destin, che con lei sola
Tutto rapimmi, o voi paterne gregge,
410Fuggite il lito infame, e del sepolto
Pria che estinto Cerèo l’ombra fuggite =.
Io letto avea stupidamente a pena
Sì tristi versi, che repente un bujo
Mi circonda oscurissimo, e fa fede,
415Che il serpente sparì. Pietate, e lutto,
E sospetto, e speranza, e ardire, e tema
Mi sospendono il piede. Infin prevalse
De’ varj affetti il più tenero, ch’era
Di rivederti ancor, Dimice; e io solo,
420Io senza luce, e senza guida incerti
I passi tento brancolando, ognora
Gli occhi, e le orecchie acutamente inteso
Se suon, se raggio, se pur veggia, o ascolti
Indizio a ritornar anco fra vivi.
425E vi ritorno sì, io dissi in quella,
Che un barbaglio scoprii di lume fosco
Trapelare ne l’antro; e il grido a un tempo,
Dimice, intesi che mettea la doglia,
Ond’eri punta di cercarmi invano.
430Quanto l’incauto Orfeo comparve tristo
Da poi che vincitor d’Erebo surse
Un’altra volta al giorno, che Euridice
Non facea più seren de’ suoi begli occhi;
Tant’io festoso su l’uscir mi sento
435Ad un punto ferir dal doppio raggio
Del tuo guardo, e del sol: nè so dei due
Qual di più gioia penetrasse l’alma:
Che sebben eri al paragon per tema
Tu del mio danno pallidetta, e lassa;
440Nè mai più dolce nel guardar d’allora,
Nè mi sembrasti mai di allor più bella.
E qui la man prendendoti più volte
Umile la baciai nel farti parte
Del corso rischio; e poi che meglio appresi
445Sul tuo volto l’orror del mio periglio,
La strinsi al cor; e con parole ardenti
Io dissi: a questo cor che mai non puote,
Dimice, il tuo desir, se infin mi trasse
A penetrar intrepido di morte
450Le oscure case? E non invan, ch’or posto
Sciorre il quesito, onde m’avevi ingombra
Di diversi pensier la mente ignara.
Tal io parlava, e la raccolta schiera
Accusando del dì rapide l’ore
455Affrettava il partir. Anco umidetto
Faceati l’occhio, e il labbro sospiroso
Del mio terror l’immagin negra: ed ecco
Inalco tuo dolce ridendo in fretta
Correrti innanzi con la preda in mano
460Di vago augello. Egli per sorte aveva
Presta una rete, genial lavoro
De le ore estive; ed a recarsel seco
L’imprigiona là dentro: nè si avvede
Prima il meschin de la sdrucita maglia,
465Che ne smuccia l’augel libero a volo,
E cantando a l’aperto aere, delude
In fra l’universal riso la voglia
De l’innocente predatore, e il guardo.
A Dimice ciò fu, come soave
470Di primavera venticel, che scosse
Le ingrate brine, a bel giardin la faccia
Scolorita ravviva, se si aggiri
Lieve a lambir le giovinette foglie.
Perchè disgombra dal piacevol viso
475La nebbia del pallor si mette allegra
Su la via del ritorno; a cui dappresso
Io provando venia che opra de l’arte
Non era il Ponte. E a qual mai pro? se chiuso
Fra monti alpestri, non potè tragitto
480Mai certo offrir a Catulo, od a Mario,
O ad altro tal, che l’impeto de i Marsi
Seco traesse, ed i tesor di Roma.
Meglio il pensava dal maestro braccio
De la natura artefice costrutto,
485Poi che là stesso s’avvisò con altre
Prove industre apparir. Ella del tempo
Preso in man lo scalpel le scaglie rudi
Levò dapprima, e iberne piogge dopo
Chiama ad ajuto, e liquefatte nevi
490A rafforzar contra quel saldo masso
L’urtante piena del torrente alpino.
Già no che saldo in tutto, e in tutto uguale
Fosse al macigno, che da i lati sorge
A quella sostener, ch’anco congiunge
495I due monti fra lor marmorea strada;
Ma sì che vuoto in mezzo, il vano dentro
Di qua di là poi si chiudesse, quasi
Da doppio muro di men fermo sasso
Con solo aperto da la faccia opposta
500Al pendio della valle agevol varco
A cavo speco: e rammentai lo speco,
Dove un dì per Cerèo la giovin, Veja
Arse d’amor. Tu, Dimice, che instrutta
Già t’avea poco pria de le scolpite
505Su la selce feral note lugubri;
In udir quale immaginando tetra
Quinci storia io tessea, tu no non fosti
Nè di pietate a la donzella amante,
Nè di lagrime avara.
O mal accorta,
510Che dal romper de l’alba in fino al tardo
Rimontar de le stelle ognor le note
Seguendo orine di fui, non pose mente
Che ai tristi giorni del piovoso verno
Il suo nido metteva argine a l’acque
515Per lo declive de l’angusta valle
La portate a stagnar. Più queste intanto
Smovean da l’imo la frapposta ai sassi
Alliquidita creta; e a un puato forse
De le imminenti rupi per la china
520Giù traboccando più dirotte immenso
Crebber torrente, che nel buio corse
Di notte tempestosa, e col tugurio
Trasse pur lei da gli amorosi sogni
Destata invano, e invan chiamando il caro
525Nè già più suo pastor.
Ed oh che disse
Egli al mattin, quando da l’erto giogo,
Ove avea la capanna, il flutto mira
Torbido rivoltar sparse fra gorghi
530Le vesti, e l’altre ai dì più gai serbate
Spoglie dell’idol suo! Già se compiange
Oimè! diserto, e palpitando vola
A la grotta di Veja; nè la grotta
Più non vede di Veja. Occupa il sito
535Di sciolte pietre un vasto ingombro, a cui
Urta la piena, che spruzzando passa.
Fattosi allor su l’otlo estremo, dentro
Vi si volle slanciar; ma poi sofferma
Ritto su piedi, mutolo, pensoso,
540Immoto gli occhi, irto i capegli, e a guisa
D’uomo che in sasso e trasforma. Meno
Viene lo spirto; si dilegua spento
Il color de le guancie; su le labbra
Tace il respiro; il corpo torpe; e resta
545Penzolone le braccia; e con la bocca
In atto aperta a mandar fuor la voce,
Che l’aspra doglia soffocava in petto.
Pur un lungo sospir larga dappoi
Apre al pianto la via; nè de la greggia,
550Ne di se stesso più curante, torce
Il viso urlando, e nel partire a l’onda
Soverchio iniqua de la man fa segno
Di dispetto, e d’orror. Invan trascorre
Burroni, e balze, l’odiato, raggio
555Rifuggendo del sol, che infin ritorna
Al fatal loco; e pria che disperato
Dolor lo meni a chiudersi nel fondo
Del vicin antro sepolerale, il guardo
Già moribondo per l’ultima volta
560Cader lascia su le acque ognora sorde
A i gridi de gli amanti, e ingiuste ognora,
Quali un tempo già fur tra Sesto, e Abido.
Era quivi a veder, com’esse il muro
Disciolser prima già sommosso, e dentro
565Si sparser vincitrici; e come fuori
Uscendo poi de l’adito, per dove
La romita donzella su la sera
Chiudeasi a tetto, seco trasser l’altro.
Pur muro in modo, che atterrate al pari
570D’ambe le parti le sassose sbarre
De lo speco interposto, e non più speco
Libere infine trapassar fra mezzo
A i non percossi fianchi, e sotto l’alta
Pia ferma cima, che tuttor s’inarca
575Di Ponte a guisa, ed ha da Veja il nome.
Tal io narrava, e mi parea pur anco
L’erma stanza veder, sì dolce un giorno
Di sacri pegni, e di fè santa asilo,
Ed ora troppo spaventoso, e troppo
580De le non evitabili sciagure
Superbo monumento.
In questo mentre
Vedutol comparir sul noto colle
L’amico salutiamo olmo, che ai passi
Di Dimice è riposo, se dal lungo
585Lavor de l’ago, o del telajo lassa
Ami di ber la fresca aura più pura,
Che al cedente del sol raggio respira.
A quel segnale il pargoletto Inalco,
Che ai patrii Lari si conosce appresso,
590Alza voci di festa; e il faticoso
Destrier sollecitando, in cor s’applaude
D’udir il primo i clamorosi viva
De i dolci fratellini, e indi di trarli
Saltanti per la gioia incontro a i baci
595De i cari genitor già non lontani.
Fortunato Fanciul! No non invano
Mescendo il pianto a i providi consigli
Del sen ti svelse l’avveduta madre;
Se ora là, dove la Mosella amica
600Di se medesma fa superbo il Reno,
Di più bei studj il ben crescente ingegno
Pasci operoso, e docil lo conformi
Al vegghiante su te Genio regale
Del gran Clemente, che ti prese in cura.
605Fortunato Fanciul! O l’inesperta
Lingua snodi a non tue colte favelle;
O addestri al balle l’agil piede; o meglio.
Tratti fiero la spada, e ardito il dorso
Premi a giovia destrier; omai consoli
610Gli affannosi sospir, ond’ella allora
Te segui lungo l’alpi, ed oltre a tanta
Parte di ciel. Oh ch’io la veggio ancora,
Poi che a gran pena in guardia altrui ti mise
Sul difficil cammin di clima ignoto,
615Smorta nel viso, e con la fronte bassa
Immobile giacer; e ancor l’ascolto
De l’erma stanza fu le porte sorde
Or richiamarti mille volte a nome,
Ora del letto su l’ingrata sponda
620Gli alti gioghi accusar, le nevi eterne,
Su l’età tua, sul tuo periglio sempre
Pensosa, infin che dal favore augusto,
Onde fosti protetto, un’aura mosse
Lusingatrice de i materni affetti,
625Che a l’agitato cor tornò la calma.
Quinci con mente più serena scorse
Le vie mille d’onor, su cui l’avita
De’ Sassonici Re gloria ci mostra
Il degno di virtù premio, che deve
630Esserti ognor, come a corsier lo sprone.
Lo tocca a pena, e da le aperte nari
Già spira il foco impavido, che fede
Fa del paterno generoso armento.
Vedil, che trema impaziente, e a un punto
635Fervido avvampa; e scosso il crin sul collo,
E del rapido piè sparsa l’arena,
Delude l’occhio de le genti, e vinte
Lascia dietro di se l’aure seguaci.
T’accora dunque a vie maggior fatica,
640Fortunato, fanciul. Già non da lungi
Fra gli applausi stranier, fra i patrii voti
Te chiede il primo l’onorata meta
Ne l’arringo a sudar. È il corso breve,
E presto te vedrò, se invan non parla
645Amica spene nel presago petto,
Te vedrò presto di vittrice palma
Cinto la fronte, e de le grazie onusto,
Onde gli ingegni largamente onora
Il tuo Signor, a i colti genii in mezzo;
650In mezzo a le belle arti, e a i modi egregi
Qua ricondurti; e su la nota riva
De l’Adige natio, presso l’albergo
De’ tuoi maggior, a lui sacrando un’ara,
Ornarla tutta de’ leggiadri doni,
655Che in te raccolti sua mercè, pur anco
Risorgere da l’urne polverose
A noi faranno, ed a le piagge insubri
De gli avi Medicei la gloria, e il nome.
Ma su quest’arpa oimè! che versi allora
660Non più, Dimice, udrai. Negano gli anni
Il vigore del canto, ed a l’orecchio
Bisbigliano fin d’or, ch’esce già roca
La voce mia, come a Dicembre è il vento,
Se giù piombi la neve. A pena stride
665Fra le palustri canne, e fcuote a pena
L’ebulo folitario. Il gelo tristo
Odia la villanella, e il muto campo.