Il maestro di setticlavio/Il maestro di setticlavio/VII

Il maestro di setticlavio - Parte VII

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Il maestro di setticlavio - VI Il maestro di setticlavio - VIII


Se il soprano avesse dovuto cantare nella messa del Furlanetto, scritta solo per tenori e bassi, non avrebbe potuto far uscire una nota dal gorgozzule, così l’improvviso terrore di perdere i suoi quattrini gli otturava la strozza. Non sapeva quasi più respirare: era diventato addirittura verde. Non di meno andò a precipizio in Frezzeria dalla donna, che appigionava la camera a Mirate, e ch’era stata allora allora interrogata da quel corista, il quale per primo aveva recato in chiesa la grande novella.

"È scappato?" domandò ansando.

"Scappato, un corno. È partito col suo bravo passaporto in pienissima regola, pagandomi sino all’ultimo soldo, anzi dandomi un mese di soprappiù".

"E quando è partito?".

"Ier l’altro verso le quattro".

"Subito dopo l’ultima prova, brigante! E come mai ieri, allorché venni qui, mi rispondeste che non era in casa?".

"Che non fosse in casa era la verità. Ma poi m’aveva pregata di non dir nulla della sua partenza fino alle undici di stamane, temendo di essere rincorso da certe gonnelle".

"Gonnelle, sì davvero! Ditemi ancora: se ne andò solo, o in compagnia di un tale, che parlava forestiero?".

"Non faccio mica la spia io. Vada ad informarsi dove vuole, ché mi pare di avere ciarlato anche troppo" e gli serrò l’uscio in faccia.

Il soprano corse all’osteria del Selvatico, al bacaro della Biondina, al Caffê dei Segretari, a quello di San Luca, frequentato da cantanti ed attori e conosciuto col nome di Caffè chiodi, poi dal famigerato parrucchiere, che prestava quattrini agli avventori, dal sarto, dal tabaccaio, da una certa signora Giulia: insomma in ogni luogo dove Mirate era consueto di andare. Racimolò tante informazioni quante bastarono a renderlo persuaso che il tenore si fosse diretto verso la Spagna o il Portogallo, insieme con l’impresario spagnuolo, il quale fra due brevi fermate a Venezia aveva girato mezza Europa per comporre tre o quattro compagnie di canto e di ballo da trasportare nella penisola Iberica. Sfogandosi nel ripetere: "Truffatore, dissanguatore, ladro, assassino" l’ingannato soprano passò dalla propria bottega d’antiquario a prendere nello scrigno i documenti comprovanti il debito di Mirate, e, postili gelosamente nella tasca spaziosa ed unta del vecchio soprabito, si recò alla Direzione generale di Polizia. Il Direttore, un austriaco magro stecchito e piccolo, con le fedine tinte di color biondo e gli occhiali a grossi cerchi d’oro, accolse il soprano assai male, senza neppure invitarlo a sedere. Quando ebbe udito di che cosa si trattava, disse, asciutto asciutto, col suo accento tedesco queste poche parole:

"So da un pezzo ch’ella è uno strozzino. La Polizia non farà niente per lei. Vada".

Il Governatore non volle nemmeno riceverlo.

Allora pensò agli alleati, e risolvette di parlare innanzi tutto con la Nene, ragionando così:

"O Mirate è partito in buon accordo con lei, e scoprirò qualcosa; o è andato via abbandonandola, ed ella diventerà la mia più fiera compagna nel domandare che venga costretto a mantenere i suoi impegni".

Non mise tempo in mezzo; scorsi pochi minuti suonava alla casa del maestro Chisiola. Il vecchio, ch’era rincasato in quel punto, andò egli stesso ad aprire, e s’infastidì un poco vedendo il soprano, per il quale aveva sempre provato una invincibile contrarietà. Dopo i saluti, assai freddi dall’una parte, assai impacciati dall’altra, il soprano, che non sapeva come principiare, disse:

"Dunque è scappato".

"Chi?".

"Mirate".

"Ah, non ci pensavo più. Sarebbe stata una scena comica, se non fosse successa in chiesa e se non fosse andata a scapito della musica, sebbene, in verità, quella musica abbia poco del religioso".

Il soprano rimase sconcertato di contro a tanta indifferenza, pure insinuò:

"Avrei creduto, maestro, che la scomparsa del tenore le avesse fatto maggiore impressione".

"A me? Con i matti non ci son patti, insegna il proverbio. La cappella non poteva contare su quella testa sconclusionata; e poi si può dire che io da oggi non appartenga più alla cappella, come non appartengo alla scuola dell’Orfanotrofio. Era tempo, con i miei ottant’anni passati, di lasciar posto ai giovani" ed il maestro sorrideva bonariamente; ma, seccato dalla presenza dell’usuraio, continuò:

"È un gran pezzo che non ho il piacere di vederla in mia casa. A che cosa posso attribuire il bene della sua visita?".

L’altro, confuso e con la propria idea fissa nel capo, balbettò:

"Ero venuto, passando, a informarmi della salute della signorina Nene".

"Non è mai stata malata, Dio piacendo".

"Pure mi sembrava stamane..".

"Le sembrava?".

"Mi sembrava così pallida, ella che per solito è tanto colorita; e aveva gli occhi stravolti".

"Quando?".

"In chiesa".

"Avrà avuto paura, non conoscendo la cagione del trambusto".

"Io credevo anzi che si sentisse male, perché conoscesse la causa del disordine, o la immaginasse".

A queste parole il vecchio si rammentò di un fatto, cui aveva dato poca importanza: la domanda della mano di Nene da parte di Mirate, a istigazione dell’usuraio. Guardò in faccia il soprano, esclamando:

"Che cosa intende ella di dire?".

"Io, niente di male. Quello che dicono tutti".

Il Chisiola, senza proferire parola, aprì con mano tremante la porta di strada, facendo segno all’altro che uscisse, e gli sbatté l’imposta dietro le spalle.

"Ov’è Nene?" domandò alla serva.

"Credo che sia in fondo all’orto" rispose la Maria dalla cucina, continuando a tritare le cipolle per il soffritto.

Il vecchio andò sino al piccolo spazio destinato a giardino, girò il frutteto, entrò nel chiosco: non c’era nessuno. Vide il portone della riva socchiuso. Nene stava al di fuori, sui gradini, guardando l’acqua verde, che le scorreva ai piedi. Singhiozzava, senza piangere; aveva sul volto i segni della disperazione: un terribile desiderio la invadeva tutta. Appena vide il vecchio scoppiò in pianto dirotto e gli si gettò alle ginocchia, ripetendo con voce strozzata:

"Ti ho disonorato, nonno. Ho disonorato la memoria della mia povera mamma. Sono una donna infame. Lasciami morire".