Il maestro di setticlavio/Il maestro di setticlavio/II

Il maestro di setticlavio - Parte II

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Il maestro di setticlavio - I Il maestro di setticlavio - III


La fanciulla, che canterellava in un’altra stanza, mentre i due vecchi si bisticciavano sul conto della musica verdiana, la Nene, era figliuola della figlia d’una sorella del maestro Chisiola, il quale, non avendo nessun altro parente sulla terra, concentrava nella dolce nipote, rimasta orfana sin da bambina, tutti gli affetti di padre e di madre, anzi di nonno e di nonna. E la fanciulla lo aveva sempre chiamato nonno. Ella non mancava mai alle funzioni cantate di San Marco, grandi e piccole, nei dì di festa e nei giorni di lavoro. Conduceva il nonno fino a’ piedi della scaletta, che sale alla cantoria dei cori, quella dalla parte della sagrestia; poi se ne andava dritta dritta, a passi corti e frequenti, nella cappella a sinistra dell’altar maggiore, e si metteva a sedere in un angolo buio, raccogliendo le vesti per occupare il minor spazio possibile, tenendo il libro di preghiere aperto sulle ginocchia, e rimanendo con gli occhi bassi, finché il nonno, dopo la messa cantata, la benedizione od i vespri, non andava a pigliarla, camminando tale e quale come lei a passetti solleciti e uguali.

Veramente da un poco di tempo la ragazza non fissava sempre lo sguardo sul libro o sugli intrecci del pavimento di marmi e di porfidi; ma lo alzava spesso alla cantoria, la quale, a stare nel cantuccio della cappella, si vedeva tutta dal sotto in su. Apparivano appena di tratto in tratto le teste dei cantori di prima fila, spesso nascoste dai fogli di musica spiegati sul leggìo o tenuti innanzi agli occhi con le due mani.

Del maestro Chisiola, corto di statura, non si scorgeva che la fronte bianca circondata dai capelli d’argento, sebbene, quando non c’era orchestra, egli montasse davanti all’organista sul rialzo del maestro di cappella; e indicava le battute agitando un grosso scartafaccio, con cui picchiava forte i quarti sul parapetto della cantoria, massime se mutava il tempo della musica, se il canto affrettava e se alcune parti dovevano entrare. Gli stava accanto, a sinistra, lo Zen, primo basso, che faceva rimbombare anche nei pieni le sue lunghe note profonde, vibranti come pedali d’organo, mentre la grande bocca si apriva al pari d’una caverna sotto al naso imponente.

Fra tutte quelle facce sbarbate di uomini attempati o di vecchi spiccava il volto del giovane tenore, soprannominato Mirate dal nome d’un tenore grande e grosso e di potentissima voce, che faceva furore al teatro della Fenice. Portava con alterigia un bel paio di folti baffi neri ed il pizzo lungo, segni della sua indipendenza dalla fabbriceria e dai canonici; non vestiva la cotta, non andava in processione e non cantava nelle funzioni dozzinali. Già i parrochi delle altre chiese lo ricercavano, già se lo strappavano per le messe solenni nei dì di sagra anche nelle pievi della vicina terraferma, già egli aveva aperto delle trattative segrete con qualche agente teatrale per gettarsi nel mare magno del palcoscenico. Doveva condurre il negozio misteriosamente per questa cagione, che s’era legato con uno strozzino a dargli metà di tutti i propri guadagni, finché non saldasse con novemila svanziche un debito di tremila, fatto durante i due anni in cui aveva studiato il canto presso il maestro Zen, cui veniva in aiuto il maestro Chisiola. I maestri non gli erano costati un soldo, ma bisognava pur vivere, e senza troppe angustie. Ora lo strozzino non si fidava di lasciarlo andare lontano da Venezia, pel timore di non saperlo acchiappare mai più.

Figlio d’un gondoliere e d’una lavandaia, era stato egli pure barcaiuolo di traghetto. Cantava a orecchio, facendo strabiliare i forestieri, segnatamente gli inglesi, che menava in gondola; e, celebre fra i suoi compagni di barca, trionfava in una società di cantori, quasi tutti orecchianti come lui, che andavano la sera in un battello, ornato di palloncini variopinti, a cantar cori in Canal Grande, sotto le finestre dei principali alberghi. Una delle più recenti canzonette principiava: Vieni la barca è pronta - vieni l’auretta spira...

Il giovane gondoliere era stato ammirato più volte dal soprano della cappella di San Marco. Questi non aveva nulla di comune con i rotondi soprani di cappella Sistina e di alcuni drammi di Metastasio: misero, verdastro, rachitico, era riuscito a produrre sei figliuoli brutti e cachetici, proprio il ritratto suo, e per i quali avrebbe coniato moneta falsa. Poco mancava in realtà che non ne coniasse: faceva di tutto. Nella cappella era entrato quale basso profondo; ma poi, sciupatasi la voce, passò a cantare in falsetto, quando la musica esigeva il contralto o il soprano: e, a sentirlo, pareva assolutamente una donna. Ma la paga era magra, ed i figliuoli, benché mezzi storpi, avevano un appetito da lupi. S’appigliò alle anticaglie: comperava ceramiche fesse, mobili tarlati, stoffe sfilate, avori slabbrati, ogni sorta di ferramenta arrugginite, e, se gli capitava per un tozzo di pane, qualche oggetto da museo. La bottega di straccivendolo s’alzava via via alla dignità del ferravecchio, del rigattiere, dell’antiquario. Risparmiati un po’ di quattrini, li cominciò a prestare senza rischio a certi impiegati imperial-regi, o previo deposito di vecchi oggetti, che gli restavano spesso pel decimo del loro valore. Finalmente rischiò l’affare con Mirate, perché lo strozzino era lui.

Qui al soprano mancò la consueta prudenza. Il giovinotto avrebbe dovuto seguitar nel mestiere del barcaiuolo; senonché, non potendo attendere al remo tutta la giornata, il soprano si impegnava di anticipargli una svanzica al giorno per un anno e mezzo o per due, finché non avesse imparato sufficientemente a cantare. Dopo, sui primi guadagni, il tenore doveva restituire tre volte tanto: intorno a 1600 o 2200 svanziche al più. Visti i tempi inclinati alle dispendiose cerimonie ecclesiastiche, tenuto conto della voce meravigliosa, due anni, anche lasciando stare il teatro, dovevano bastare ad estinguere il debito, sanzionato, del resto, con contratti fittizi regolarissimi.

Nei primi mesi le cose procedettero abbastanza bene. Era la bella stagione: Mirate vogava la sera, studiava di giorno; il soprano copiava con le sue proprie mani la musica che occorreva al tenore. Ma presto il remo gli principiò a pesare: diceva che quell’esercizio faticava il petto, che il respiro si faceva troppo frequente, che l’espirazione diventava corta. Il maestro Zen gli dava ragione: la gondola fu ceduta, e la svanzica non bastò più. Il padre e la madre del futuro grand’uomo, per soccorrerlo di qualche soldo, raddoppiarono il lavoro: quegli al traghetto, assumendo spesso il servizio dei compagni, questa al mastello, ove stava a lavare anche buona parte della notte. Il bucato della biancheria nuova del figliuolo, di bella tela fina cucita dalla mamma instancabile, si faceva a parte, essendo oggetto di cure speciali per la lisciva, per il sapone, pel modo delicato, quasi a dire rispettoso, di torcerla, di batteria, di sciacquarla, di tenderla. Il bianco lucente di quelle camicie con il largo goletto, con il davanti piegolinato, con i polsini che coprivano metà delle mani, non sembrava mai abbastanza candido per toccare la pelle del nobile rampollo, dal quale la famiglia attendeva gloria e ricchezze. Egli di giorno in giorno gonfiava sempre più, e diventava nervoso. Bastava una macchietta gialla del ferro, un goletto poco inamidato, perché, bestemmiando, sbattesse a terra innanzi alla madre due o tre camicie, che la poveretta, con gli occhi umidi e le labbra sorridenti, raccoglieva e tornava a lavare e a stirare. Lo stanzino, ch’egli occupava accanto alle due cameracce terrene dei genitori, non era più sufficiente alla sua voce ed alla sua persona; non rifiniva di lamentarsi che per andare in piazza di San Marco o dal maestro gli toccasse di fare un viaggio. Si trovò dunque una buona stanza nel centro, in Frezzeria, dove con i suoi gorgheggi metteva sossopra il vicinato. Da allora in poi andò tre volte la settimana dal barbiere, desinò all’osteria, mutò i compagni, frequentò donne galanti, si vergognò della madre e del babbo, che faceva passare per la propria stiratrice e per il proprio lustrino, e che andava di tempo in tempo a vedere con la speranza di spillare qualcosa.

Ci voleva altro? Il rinfranco veniva dal soprano, il quale, dopo avere snocciolato parecchie centinaia di svanziche, si sentiva incatenato al suo debitore assai più di quanto il debitore credesse di rimanere legato a lui. Già Mirate non si degnava più di andar a chiedere con questa scusa o con quella; mandava a dire all’altro che venisse, e subito. Le chiamate avevano luogo, per solito, verso le dieci della mattina, mentre il tenore era ancora a letto.

"Mi occorrono quattrini".

"Non ne ho".

"Isacco figlio di Abramo, mi abbisognano dugento lire, altrimenti non posso saldare una cambialuccia al barbiere, il quale ha meno spirito di te, e mi caccierà dritto in prigione".

"Non lo farà. Dovrebbe pagarti il vitto".

"Pagherà, tanto è puntiglioso. E poi vuol dare un famosissimo esempio agli altri suoi avventori morosi, cui ha prestato al cento per cento".

"Non lo farà, ti ripeto; ma se quell’usuraio sordido lo facesse, che cosa ne importerebbe a me?".

"Non te ne importerebbe, cuore di vero soprano! È dunque sbandito dal tuo animo ogni resto di pietà? Vuoi che ti canti una melodia in Mi minore per impietosirti? Poi, pensaci bene, l’umidità del carcere, la mancanza di moto, l’arrugginirsi della gola (perché non mi lascierebbero forse solfeggiare dalla mattina alla sera), gli insetti, il cattivo mangiare, e sopra tutto l’avvilimento: in una settimana sarei bello e spacciato".

E il tenore parlava con enfasi melodrammatica, mutandosi di camicia e mettendosi i calzini.

"Anzi" replicava l’altro con lo sforzo di un sogghigno, che in quella faccia triste e macilenta diventava una contorsione pietosa "anzi la continenza forzata ti farebbe un gran bene. Usciresti di gattabuia, al pari d’un canarino, più grasso e più canoro".

"Giacobbe figlio d’Isacco, sai che non mi piacciono gli scherzi, massime quando escono da una bocca tetra come la tua. Sono un buon figliuolo, ma non farmi scappare la pazienza. In fondo, chi mi spinse a chiedere danaro al factotum della città? Tu, che non volesti darmelo; ed io ne avevo urgenza per comperare musica, pastiglie pettorali, eccetera, eccetera. Del rimanente non ignori che la mia vita costa una miseria. Il più è questa camera piccola e buia. A desinare e a cena sono spesso invitato, in grazia delle serenate, dei concerti di famiglia o delle orgie musicali tra scapoli; e le donnette per me, piuttosto che una uscita, sono una entrata; la lavandaia mi serve gratis; il sarto confida nella mia prossima gloria, come confidi tu, mio protettore generoso".

Parlava a intervalli, badando a vestirsi, finché, dopo essersi unto bene i capelli, i baffi ed il pizzo con una pomata di muschio, si accomodò i solini e la cravatta.

Intanto l’antiquario lo seguiva con lo sguardo e lottava dentro di sé. Finalmente disse:

"Insomma, anche questa volta farò un sacrifizio. Ti darò le dugento lire".

"Oltre la mesata, s’intende".

"Oltre la mesata; ma, per carità, regolati nelle spese, non mi rovinare, se no avrai sulla coscienza la sventura d’un padre e di sei figliuoli. A proposito, ieri pensavo a te".

"Grazie di cuore. Vuoi dire che pensavi all’affar d’oro, che hai fatto meco".

"No, proprio al tuo bene: pensavo a darti moglie".

"Così subito?".

"Fossi matto! Fra un anno o poco più, quando sarai entrato nell’arte sul serio ed avrai uno stato sicuro. Intanto si potrebbe gettare l’amo".

"Intendo. Quel che ti preme è che io non pericoli in alto mare o non vada a frangermi in uno scoglio. Preferisci di farmi arenare tranquillamente, come una gondola, in secco. Poi un uomo innamorato mangia meno, si svaga meno, spende meno. Poi la dote, perché ci deve essere una dote...".

"Sicuramente".

"La dote servirebbe subito a risarcirti col trecento per cento (altro che il parrucchiere!) delle tue liberali anticipazioni, senza nemmeno il disturbo di aspettare qualche anno".

"Sei ingrato".

"E chi è la bella?".

"Ora non te lo voglio più dire".

"Dimmelo, mio buono, mio adorato Giacobbe".

Era, insomma, la nipotina del maestro Chisiola; la quale aveva ereditato dal babbo un capitaletto, che, fatto fruttare per molti anni e ingrossato dal nonno, poteva ascendere oramai ad una trentina di mila svanziche, senza contare che il nonno, benché rubizzo, non avrebbe tardato molto a lasciarle il resto. Il tenore dichiarò di non avere mai guardato molto attentamente quella monachetta, pure avendola veduta molte volte in chiesa e in istrada mentre accompagnava il vecchio, ed anche in casa di lui, ma di rado. Gli era sembrata una piccola beghina scipita; ma in conclusione, trattandosi di un affare lontano, non diceva né sì, né no. Avrebbe guardato e pensato meglio.

I due si lasciarono questa volta pienamente rabboniti, sebbene in Mirate, malgrado la lettura di romanzi e poesie, cui s’era dato, e la nuova compagnia di persone abbastanza civili, rimanesse inalterata l’indole volgarmente sarcastica e impertinente del barcaiuolo. Ma nell’animo dell’altro era cresciuto un affetto quasi paterno e indulgente ed ansioso verso quel giovine, nel quale in principio non aveva veduto altro che l’utile vittima dell’usuraio; tanto che ora si compiaceva, in fondo, della bellezza, della forza, della spavalderia, degli stessi vizi del suo pupillo musicale, idealizzando ogni cosa, e gli sarebbe sembrato impossibile che una fanciulla lo rifiutasse per marito ed una famiglia non si tenesse orgogliosa d’imparentarsi con lui.

Trascorso poco più di un anno, Mirate entrò nella cappella di San Marco quale supplente del vecchio tenore sfiatato; ed, una settimana dopo, il soprano aveva già persuaso lo Zen di chiedere al maestro Chisiola per il novello cantore la mano della sua nipotina. S’è visto come il nonno rispondesse con una negativa tanto risoluta ed asciutta, che lo Zen non ebbe più ardire d’insistere. Il rifiuto stupì e addolorò lo strozzino, in cui interesse e cuore cospiravano insieme; ma offese vivamente, nel suo amor proprio di bel giovane conquistatore e di famoso cantante, Mirate, il quale per la prima volta guardò con interessamento la modesta fanciulla, giurando a sé medesimo che di quel no il vecchio si sarebbe presto pentito.