Il maestro di setticlavio/Il maestro di setticlavio/I

Il maestro di setticlavio - Parte I

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Il maestro di setticlavio Il maestro di setticlavio - II


L’uno insisteva timidamente:

"Eppure, maestro, mi scusi. In fondo è un buon giovine. Ha un gran capitale in quella sua voce da Mirate".

L’altro ripeteva risolutamente:

"No, no e poi no. Tu non capisci niente. Gli basterebbe mangiarsi quel po’ di dote. È uno scavezzacollo. Povera Nene!".

L’uno stava alla coda del pianoforte, in piedi, con la testa bassa; l’altro seduto alla tastiera. Al di là dell’uscio chiuso si sentiva una vocina soave canterellare.

Il meno vecchio, quegli che stava in piedi, era alto di statura, magro, sbarbato; aveva intorno a sessant’anni, ma ne mostrava di più, sebbene i capelli fossero tuttavia folti e quasi neri, ed i denti grandi, quando l’ampia bocca si apriva, apparissero tutti regolari e candidi. Vedendolo passare in cotta fra gli altri cantori nella lunghissima fila della processione del Corpus Domini, che in quegli anni aveva ancora luogo attorno alla piazza di San Marco, sembrava tale e quale uno dei cantori dipinti l’anno 1496 da Gentile Bellino nel gran quadro della processione famosa delle Reliquie. Un veneziano puro e pretto. Naso lungo aquilino, mento grosso un poco sporgente, labbra sottili. Cantava il basso profondo, scendendo al Do sotto, toccando appena il Re sopra; e non ostante gorgheggiava con facilità, interrompendosi spesso per ischiarirsi la gola con tanto fragore, che pareva una cannonata. Conduceva spesso i suoi allievi a cantare in coro nella cappella di San Marco; ma prima voleva che andassero in un bacaro1 a berne un quartuccio per uno (egli faceva qualche ritornello) ed a mangiare un’aringa, appena scaldata sulla graticola, perché giurava che le aringhe salate ripuliscono, e ingigantiscono la voce. Quando, di botto, cacciava fuori una nota, tremavano le piccole invetriate della bettola.

L’altro, che diceva risolutamente di no, era un vecchietto piccolo, snello, vispo, pulito, di ottant’anni passati, con un’aureola d’argento intorno alla fronte senza rughe, con le guance nude rosee, e due occhietti in cui si leggeva la bontà serena. Allievo del Furlanetto, cantava da tenore; e ancora, socchiudendo appena le labbra, lasciava uscire una vocina flebile flebile; intonatissima, limpidissima, che pareva scendesse dall’alto. Da cinquant’anni aveva l’ufficio di maestro dei cori nella cappella.

Il basso, Luigi Zen, non sapeva fare sul pianoforte altro che qualche accordo. Cercava ben bene le note una ad una, poi, contento di averle alla fine trovate, si sfogava a pestar sui tasti; e intanto gli scolari attendevano che il secondo accordo nascesse sotto le lunghe dita. Finivano per cantare senza nessun accompagnamento, salvo le battute d’aspetto picchiate dal maestro fragorosamente coi piedi e con le mani e contate a gran voce.

L’accompagnamento lo faceva sentire di quando in quando il maestro dei cori, Annibale Chisiola, in casa sua, sopra uno strumento, che stava tra il gravicembalo e la spinetta; e le bianche mani del vecchietto andavano sulla tastiera senza scosse, senza scatti, mentre le dita, incurvate sotto le palme, non pareva si muovessero affatto. Eppure le scale, i trilli, i gruppetti, gli arpeggi si succedevano con una precisione, una rapidità, una scorrevolezza ammirabili. Le più intricate fughe delle partiture manoscritte erano sgrovigliate all’improvviso. I canoni, le imitazioni, i moti contrari assumevano sotto quei dorsi convessi delle piccole mani una chiarezza lampante.

Se il canto degli allievi procedeva liscio sopra l’accompagnamento, che udivano per la prima volta; se i duetti ed i terzetti andavano innanzi senza intoppi, la faccia dello Zen raggiava di consolazione. Il Chisiola, indulgente, bisbigliava:

"Non c’è male. Proprio benino. Bravi figliuoli".

Ma talvolta interrompeva per dare un consiglio, per correggere uno sbaglio, per far ripetere un passo, ed allora lo Zen, rannuvolandosi, prendeva le difese del proprio scolaro, e rifaceva il canto con il suo vocione portentoso, sicché il vecchietto finiva per turarsi le orecchie, dicendo:

"Si sente che l’hai proprio mangiata oggi l’aringa salata". Il basso Zen era conservatore arrabbiato. Per esempio, non poteva soffrire le opere del Verdi: ne diceva un mondo di male, specialmente del Rigoletto, allora fresco fresco; resisteva, finché poteva, al desiderio dei giovani, quando volevano studiarle; si bisticciava perciò anche col Chisiola, il quale gli aveva insegnato a cantare quasi mezzo secolo addietro. Un giorno che, a proposito di uno scolaro, baritono verdiano per la pelle, la questione s’era incalorita più del solito, il vecchietto roseo, fissando in volto il suo bisbetico discepolo con uno sguardo di rimprovero affettuoso, gli disse:

"Il Verdi, sai, vale quanto il Rossini, il Cimarosa od il Furlanetto" e l’altro, scandalizzato, alzava le spalle, ghignando.

"Tu vorresti" continuava il maestro "che il mondo si fosse fermato agli anni della tua giovinezza, quelli degli amori e della presunzione; ma, vedi, fra noi e la musica c’è questa differenza, che noi abbiamo una sola maniera di essere onesti, mentre la musica ha infinite maniere di essere bella; e noi invecchiamo e siamo mortali (anzi’ io me ne sto già mezzo in sepoltura), mentre la musica è eterna".

Lo Zen abbassò la testa, come un can barbone scottato; poi se ne andò nello sguancio di una finestra, ove un giovinetto stava ripassando da sé, con la musica sotto gli occhi, un allegro, che diceva: Amor perché mi pizzichi, mi pizzichi, mi pizzichi perché? e continuava: Amor perché mi stuzzichi, mi stuzzichi, mi stuzzichi perché? Il basso borbottò nelle orecchie del giovinetto, credendo di parlare sottovoce:

"È un sant’uomo. Darei gli ultimi anni della mia vita per allungare la sua. Ma in musica, per Bacco, è un carbonaro".

"E tu" replicò sorridendo il vecchietto, che aveva l’udito fine "sei un sanfedista".

Per una cosa lo Zen si sarebbe fatto squartare innanzi di cedere: pel metodo di legger musica. Aveva da essere il setticlavio, non altro che il setticlavio. E se qualcuno gli faceva osservare che oramai tutti leggevano col metodo comune, egli, fremendo di bile, tuonava:

"Non è possibile. Asini hanno da essere senza il setticlavio. Il setticlavio è il vangelo della musica: la sola vera credenza". Quando poi uno gli domandava che cosa fosse il famoso metodo, egli, assumendo un’aria soddisfatta e mettendosi a sedere, principiava:

"In quattro parole te lo spiego, perché la cosa è lucente come il sole. Dimmi, quale è la tonica nella chiave di Do?".

"Il Do".

"Bene. E il Mi che cosa è?".

"La terza".

"E il Si?".

"La settima".

"Ora senti, dal Do al Mi che salto si fa?".

"Di terza maggiore".

"Dunque quando dici Do Mi dici e canti una terza maggiore".

"Sicuro".

"Quando canti Si Do che intervallo fai?".

"Di mezzo tono".

"Dunque quando dici Si Do come Mi Fa dici e canti un mezzo tono".

"Certamente".

"Adesso rispondi. Se nel tuo maledetto sistema di lettura, che chiamano comune, canti, per esempio, in chiave di Re, il Do Mi che cosa diventa?".

"Una terza minore".

"E il Mi Fa o il Si Do?".

"Un tono intiero d’intervallo".

"Oh, vedi, vedi che miserabile, che infame confusione. Si legge una cosa e si canta l’altra. Non c’è più regola, non si capisce più nulla".

"E come ci si rimedia?".

"Nel modo più semplice di questo mondo. Chiama sempre Do la tonica, sempre Mi la terza, sempre Si la settima e così via tutte le altre note della scala in qualunque tono tu debba cantare, e l’imbroglio sparisce, e gl’intervalli corrispondono sempre agli stessi nomi delle medesime note".

"Ma gli accidenti?".

"Gli accidenti sono accidenti, e si vedono scritti chiari e tondi quali eccezioni alla regola. Il proverbio dice appunto, che le eccezioni confermano la regola".

"Ma bisogna dunque imparare a leggere in tutte le chiavi?".

"Certo, e non sai leggere tu in due? E non ci sono degli strumenti, che obbligano a leggere in tre? La voce umana è sì o no il più nobile degli strumenti?".

"È il più nobile, senza dubbio".

"Ergo dev’essere il più difficile. I pigri vadano al diavolo".

"Scusi, maestro, ma le modulazioni, i cambiamenti di tono, che non si trovano scritti in testa al pezzo?".

"Te li trovi da te, in nome del cielo, con un poco di pazienza, con un tantino di pratica d’armonia. Poi ti senti solido, ti senti incrollabile come il campanile di San Marco".

E il vecchio lungo, entusiasmato, schizzava scintille dagli occhi, e solfeggiava tuonando:

"Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si, Do Do".


Note

  1. Osteria.