Il filosofo inglese/Atto III

Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Gioacchino e Birone.

Gioacchino. Birone, hai desinato?

Birone.   Ho terminato or ora.
E tu, Gioacchino?
Gioacchino.   Ed io non ho pranzato ancora.
Birone. Perchè mangi sì tardi?
Gioacchino.   Perchè? Perchè il padrone,
Per quello che si vede, ha poca discrezione.
Va a casa colla moglie, ch’è una rabbiosa vecchia:
Ella cucina, ed egli la tavola apparecchia.
Son ricchi, e sono avari; compran ossi spolpati,
E a me li mandan poi quando li han rosicchiati.
Birone. Col mio padron, per dirla, ci cavo maggior frutto;
Ei molto non guadagna, ma gode e mangia tutto.

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SCENA II.

Maestro Panich con un altro paio di scarpe, e detti.

Panich. Buon giorno, giovinotti.

Gioacchino.   Maestro, vi saluto.
Panich. E tu non mi rispondi?
Birone.   Che siate il benvenuto.
Ma vi ho sentito fare di molte querimonie
Contro color che usano di far le cerimonie.
Panich. La cerimonia, è vero, è un vizio ed un difetto;
Ma inchinansi i miei pari per obbligo e rispetto.
Birone. E meglio ch’io men vada, pria che gli ammacchi il muso.
Questo degl’impostori, questo degli empi è l’uso:
Insegnan le virtudi, insegnan la morale,
E credon che a lor soli sia lecito far male.
(entra nella bottega)

SCENA III.

Maestro Panich e Gioacchino.

Panich. Colui è un temerario. Pregiudica al padrone.

Non stamperà il mio libro senza scacciar Birone.
(a Gioacchino)
Gioacchino. Signor, questa mi pare che chiamisi vendetta.
Panich. È un atto di giustizia. Cosa sai tu, fraschetta?
Gioacchino. Signor, non strapazzate.
Panich.   In faccia mia si tace.
Via, portami del ponce, che poi farem la pace.
Gioacchino. Se ’l porto, il pagherete?
Panich.   Portal, son conosciuto.
Gioacchino. Oh, vi conosco anch’io: siete ignorante, e astuto.
(entra in bottega)
Panich. Eh ragazzaccio... no, c’insegna la morale,
Che a chi ci fa del bene, noi non facciam del male.
Se il ponce che dà gusto, senza quattrini io bevo,
Soffrir per umiltade qualche cosuccia io devo.

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Gioacchino. Ecco il ponce, vel porto, se irato più non siete.

(di lontano)
Panich. Portalo, Gioacchino. Ti voglio ben.
Gioacchino.   Prendete.
(gli dà la tazza del ponce, ed egli beve)
Panich. Questo paio di scarpe portar deggio a colei (bevendo)
Che abita in quella casa. Se ci è, saper vorrei.
Gioacchino. La serva? l’ho veduta.
Panich.   No, la padrona io dico.
Gioacchino. Colei alla padrona?
Panich.   Io non la stimo un fico.
(Stimata non l’ho mai, ma dopo la lezione
Di uno de’ miei compagni, le donne ho in avversione).
Credi che ella sia in casa?
Gioacchino.   Sì, vi sarà, cred’io.
Panich. Prendi dunque la tazza.
Gioacchino.   E chi mi paga?
Panich.   Addio.
Gioacchino. Pagatemi, ch’io deggio render conto al padrone.
Vi prenderò le scarpe. (gli leva le scarpe)
Panich.   Lasciale star, briccone.

SCENA IV.

Jacobbe dalla parte del libraio, Birone dalla bottega; e detti'.

Jacobbe. Birone.

Birone.   Signor mio.
Jacobbe.   Porta questo viglietto
A madama Brindè. Qui la risposta aspetto.
Birone. Vi servirò. (entra dalla Brindè)
Gioacchino.   Signore, fatemi voi giustizia.
Non vuol pagarmi il ponce. (passa nella strada)
Panich.   Nol faccio per malizia.
Ma un poco di acqua calda col valor di un quattrino
Fra zucchero, limone e spirito di vino,

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Si paga troppo cara a questi bottegai;

E poi non ho denari, e non ne porto mai.
Jacobbe. Dunque, signor maestro, filosofo da bene,
A ber per le botteghe senza denar si viene?
Panich. Ma tu che qualche cosa sai di filosofia,
Puoi approvar nel mondo una cotal pazzia?
Nati siam tutti eguali, quel ch’è nel mondo, è nostro,
E dir non si dovrebbe: questo è mio, questo è vostro.
Se l’uomo dell’altro uomo si serve ed abbisogna,
Pretender pagamento mi sembra una vergogna.
Io vengo da costui a ber senza denari;
Quando ha le scarpe rotte, le acconcio, e siam del pari.
Gioacchino. Non so di tante scarpe; mi viene uno scellino.
Vi pagherò ancor io, maestro ciabattino.
Panich. A me?
Jacobbe.   Taci; ha ragione, e la ragione è vaga:
Fra gli uomini di vaglia la roba non si paga.
Si cambia. Avrò bisogno di scarpe immantinente:
Panich farà ch’io le abbia, e le averò per niente.
(a Qioacchino)
Panich. Adagio; se le scarpe ti do, che mi darai?
Jacobbe. Nulla, poichè mestiero non fo, come tu fai.
Panich. Se tu non fai mestiero, io faccio qualche cosa.
Non cambio le mie scarpe con una mano oziosa.
Jacobbe. Con voi, per ragion pari, non cambierà Gioacchino
Il prezzo di un Perù con quel di uno scellino..
Panich. Non sai quel che tu dica; voglio le scarpe mie.
Gioacchino. Pagatemi.
Panich.   Coteste si chiaman tirannie.
Voler che paghi a forza un uom senza monete,
O pur contro natura abbia a morir di sete?
Jacobbe. È ver, saziar la sete esige la natura;
Ma quando non si spende, si bee dell’acqua pura.
Panich. Non sai quel che tu dica. Vo’ le mie scarpe. Intendi?
(a Gioacchino)

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Jacobbe. Dagli le scarpe sue. Ecco un scellino. Prendi.

(a Gioacchino)
Gioacchino. Ecco le scarpe vostre. Più non vi bagno il gozzo.
Potete andare a bere alla fontana o al pozzo. (parte)
Panich. Jacob, non ti ringrazio, se l’hai per me pagato:
Soccorrer ciascheduno il prossimo è obbligato.
Natura ti ha sforzato a far codesta azione,
Per questo io non ho teco veruna obbligazione.
(entra dalla Brindè)

SCENA V.

Jacobbe Monduill solo.

Sensi di un cuor perverso, di un animo inumano,

Tanto di mente astuto, quanto di cuor villano.
È ver che la natura ci sprona a far del bene,
Ma le cagion seconde considerar conviene;
E se qualunque bene a noi provien dal cielo,
Il ciel rimunerato vuol di chi dona il zelo.
Mercede i’ non ti chiedo di una moneta vile,
Condanno te soltanto per l’animo incivile.
Ah, che non vi è nel mondo peggior triste animale
Dell’uom che con il vizio confonda la morale.
Superbia senza freno suole appellar contegno,
Col nome di giustizia suol colorir lo sdegno;
L’usura e l’interesse vantar economia,
L’asprezza del costume chiamar filosofia.
Color che di virtude san mascherar gl’inganni,
Sono i più cari al mondo, ma sono i più tiranni.

SCENA VI.

Emanuel Bluk e detto.

Emanuel. (Sempre egli è qui costui). (da sè, osservando Jacobbe)

Jacobbe.   (Ecco il fratel di quello).
(da sè, vedendo Emanuel)

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Emanuel. Buon giorno. (a Jacobbe)

Jacobbe.   Vi saluto. (si cava il cappello)
Emanuel.   In testa il tuo cappello.
Queste son cerimonie, le quali in capo all’anno
Consumano i cappelli, e apportano del danno.
Jacobbe. Se tutti, come voi, avesser tal pensiero,
L’arte de’ cappellai si ridurrebbe al zero.
Emanuel. Arte non vi è nel mondo più inutile di questa:
Una berretta, un panno basta a coprir la testa.
Jacobbe. Più inutile di questo parmi un altro mestiere,
Che toglier si potrebbe.
Emanuel.   E quale?
Jacobbe.   L’argentiere.
Emanuel. (Di pungere non cessa, filosofo mordace). (da si)
Jacobbe. (Si cerca la riforma, ma in casa sua dispiace). (da sè)

SCENA VII.

Birone dalla casa della Brindè, con altro viglietto; e detti.

Birone. Eccovi la risposta. (dà il biglietto a Jacobbe, e si ritira)

Jacobbe.   (Non l’ho spedito invano). (da si)
Emanuel. Questo è il mestiere indegno.
Jacobbe.   Qual è?
Emanuel.   Fare il mezzano.
Colui con una carta uscì da quelle soglie,
D’un uomo effeminato a lusingar le voglie.
Jacobbe. Un uomo che mal pensa, un maldicente siete.
D’amor qui non si tratta.
Emanuel.   Sciocco non son.
Jacobbe.   Leggete.
(gli esibisce la carta ancor chiusa)
Emanuel. Leggere non vogl’io, de’ fatti altrui non curo;
Ma di una cosa sola son certo e son sicuro.
Jacobbe. Di che?
Emanuel.   Che colla donna, sia vana o sia prudente,

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Di un uomo esser non possa la tresca indifferente;

Che non si possa mai trattar col debil sesso,
Senza smarrire il cuore e l’intelletto istesso.
Jacobbe. Voi v’ingannate, amico; la provida morale
Dell’uomo e della donna non parla in generale.
Si trattano i congiunti, si trattano gli amici,
Dell’uno e l’altro sesso si tolleran gli uffici.
La donna è qual noi siamo d’alta virtù capace.
Emanuel. È sempre perigliosa la donna quando piace.
Jacobbe. Sì, quando piace in lei la grazia, il brio, l’aspetto;
Non quando in lei si ammira lo spirto e l’intelletto.
Emanuel. Che spirto, che intelletto? È stolto chi lo crede;
Il bello della donna è quello che si vede.
Jacobbe. Stolto è colui che parla di donna in guisa tale;
L’origine di lei è della nostra eguale.
Lo spirito è lo stesso, son simili le spoglie,
La macchina diversa diverse fa le voglie;
Ma in ogni mente umana comanda la ragione,
Diretta dal costume e dalla educazione.
Dell’organo ciascuno armoniche ha le corde:
Quella che più si tocca, risponde più concorde;
E se taluna ottusa al tasto non risuona,
L’altra ch’è tesa, acuta vibra i suoi colpi e suona.
Se fra le donne hai visto donna al garrir portata,
Fia dall’esempio indotta, o male organizzata.
La corda dissonante dell’organo si tocca,
Ed esce strepitoso il suono per la bocca.
Se del piacer la vedi in traccia oltre al dovere,
Nell’organo tintilla la corda del piacere;
E il molle suon che rende, par che i sospiri scocchi,
Quando ragion non regga la mente degli sciocchi.
L’una dell’altra donna più pensa, e più ragiona;
Ma in genere la donna non è che cosa buona.
Emanuel. Ed io sostengo e dico, e se lo vuoi, lo scrivo:
La donna fra i viventi è un animal cattivo.

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SCENA VIII.

Maestro Panich sulla loggia, e detti.

Panich. È vero. Lo sostengo anch’io con argomenti:

Le donne sono corpi che non son mai contenti.
Faccio le scarpe a tante, e mai non trovo quella
Che dica, questa scarpa sta bene, e mi par bella.
Madama di Brindè non vuol le scarpe mie;
Le donne sono donne, son piene di pazzie.
Jacobbe. Pazzi voi siete entrambi. Udirvi più non voglio.
(Mi aveva per costui quasi scordato il foglio).
(da sè; entra dal libraio)
Panich. Le donne sono donne...

SCENA IX.

Madama Saixon, Rosa e Maestro Panich sulla loggia; ed Emanuel Bluk nella strada.

Rosa.   Ben, che vorreste dire?

Panich. Le donne sono donne.
M. Saixon.   Olà, non si ha a finire?
Panich. Perchè non vuol le scarpe? Perchè mi fa tai scene?
M. Saixon. Perchè non son ben fatte.
Rosa.   Perchè non le stan bene.
Emanuel. Scendi per carità, scendi dal fatal loco:
Il cielo ti difenda; in mezzo sei del foco.
M. Saixon. Itene, impertinente, e non tornate più.
Rosa. Itene per le scale, o noi vi buttiam giù.
Panich. Portatemi rispetto, non sono uno stivale.
M. Saixon. Voi siete un villanaccio.
Rosa.   Voi siete un animale.

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SCENA X.

Signor Saixon che esce di casa, e detti.

Emanuel. (Panich è mal condotto). (da sè)

Panich.   Oh donne indiavolate!
Rosa. Si parte o non si parte?
M. Saixon.   Andate o non andate?
Saixon. (Si volta, osserva le donne che gridano, si pone a ridere fortemente, e parte senza dir nulla.)
Panich. Vado; se più ritorno, che sia tagliato in fette.
Vi venga la saetta, che siate maledette. (parte)
M. Saixon. Indegno! (lo seguita)
Rosa.   Disgraziato! (lo seguita)

SCENA XI.

Emanuel Bluk, poi Milord Wambert.

Emanuel.   La donna è un animale;

Ma pur con qualche donna non l’ho passata male.
Conviene saper fare; trovarle il lor diritto;
Trattarle con dolcezza, amarle, ma star zitto.
Milord. Vedeste voi Jacobbe?
Emanuel.   Milord, non te l’ho detto?
Ei legge dal libraio di madama un viglietto. (parte)
Milord. La tresca scellerata continua ad onta mia?

SCENA XII.

Maestro Panich dalla casa di madama Brindè, e Milord Wambert.

Panich. Farò che me la paghi, strega, mezzana, arpia.

(verso la porta)
Milord. Con chi l’avete, amico?
Panich.   (Vo’ farle il mal che posso), (da sè)
Io l’ho con tre donnacce, che hanno il demonio addosso.

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Madama vuol Jacobbe, per lui fa cose strane;

La serva e la sorella le fanno le mezzane.
Correggo i loro vizi, ricordo la modestia,
Minacciano, mi sgridano, rispondono da bestia. (parte)

SCENA XIII.

Milord Wambert.

Più dell’amor mi punge l’onor, lo sdegno il petto;

Madama con Jacobbe mi perdono il rispetto.
Noi non sappiamo in Londra, al volgo superiori,
I torti impunemente soffrir degli inferiori.
Vo’ vendicarmi, e voglio cercare una vendetta
Che pari sia all’offesa, ma da ragion diretta.
Mi accende in un momento talor furore e sdegno;
Misero allor chi fosse di mie vendette il segno.
Ma la ragion ponendo ai primi moti il freno,
Tempo a risolver prendo, e non mi pento almeno.

SCENA XIV.

Jacobbe Monduill dal libraio, e detto.

Jacobbe. (Ecco milord, che a torto m’insulta e mi minaccia.

Lo compatisco. Amante non sa quel che si faccia), (da sè)
Milord. (Viene il ribaldo. Ah, sento un di quei moti al cuore.
Meglio sarà che io parta. Si accende il mio furore).
(da sè, in atto di partire)
Jacobbe. Signor. (chiamando Milord)
Milord.   Meco ragioni?
Jacobbe.   Bramo parlar con voi,
Se farlo mi è permesso.
Milord.   Parla. Da me che vuoi?
Jacobbe. Possibile che a un tratto un cavalier gentile
Cambiato abbia costume con chi gli parla umile?

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Milord. Spicciatevi, parlate. Da me che pretendete?

Jacobbe. Vorrei giustificarmi, signor, se ’l permettete.
Milord. Nuove proteste i’ sdegno udir da un menzognero.
Jacobbe. Punitemi, signore, s’io non vi dico il vero;
E ben potete voi punirmi in tal maniera,
Che della morte sia pena più cruda e fiera.
Se il re mi condannasse, saprei morir contento:
La morte non è il male ch’io fuggo e ch’io pavento.
Ma a un suddito la vita togliere altrui non spetta;
Altre saran le mire in voi della vendetta.
Che mai potete farmi? Con forza e con danari
Farmi insultar dai sgherri? Non è da vostro pari.
D’ingiurie caricarmi? Dirmi mendace, astuto?
Son povero, egli è vero, ma alfin son conosciuto.
La pena ch’io pavento, che a me da voi si appresta,
È della grazia vostra la privazion funesta.
Un uomo che all’onore consacra i suoi pensieri,
Ama le genti oneste, rispetta i cavalieri;
Ed essere da questi sprezzato e mal veduto,
È pena tal che al cuore porta uno strale acuto.
Povero nato io sono; vivo co’ miei sudori;
Condiscono il mio pane le grazie ed i favori.
Se voi sì saggio e onesto, (per questo i’ mi confondo)
Se voi mi abbandonate, di me che dirà il mondo?
Capace voi non siete di dir quel che non è,
Ma udransi i miei nemici a mormorar di me.
E voi, sol col privarmi di vostra protezione,
Fate la mia rovina, la mia disperazione.
Eccomi innanzi a voi, mi getto al vostro piede...
Milord. Fermatevi.
Jacobbe.   Siam soli, nessuno ora ci vede.
E quando sia veduto, signor, non ho rossore
Gettarmi in faccia al mondo a’ piè di un protettore:
Di un protettor sdegnato, che in sen virtuti aduna,
Che vuolmi abbandonare, ma sol per mia sfortuna.

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Non condannarvi ardisco d’ingiusto all’innocenza;

Credetemi, signore, v’inganna l’apparenza.
O reo non sono, o almeno esserlo non mi pare;
Se fossi reo, punito mi han le mie pene amare.
Dalla clemenza vostra chiedo pietade in dono;
Per grazia, o per giustizia, donatemi il perdono.
Certo che non lo chiedo spinto da vil timore,
Ma sol perchè mi cale del cuor di un protettore.
Milord. Jacob, mi conoscete. Non sono un disumano.
Al cuor di un cavaliere voi non parlaste invano.
Serbate il dover vostro, portatemi rispetto,
E nella grazia mia rimettervi prometto.
Jacobbe. Signor...
Milord.   Voi con madama sapete i desir miei.
Jacobbe. Non fui, da che li seppi, veduto andar da lei.
Milord. È ver, ma si coltiva l’abuso degli affetti
In lontananza ancora, coi messi e coi viglietti.
Jacobbe. L’arte de’ miei nemici conoscere vi prego.
Alla Brindè un viglietto mandai, non ve lo nego.
Mandommi la Brindè risposta immantinente;
Serbo il suo foglio ancora: ecco, Jacob non mente.
Che trattisi di amori per altro non si pensi;
Sono diversi molto di questa carta i sensi.
Anzi, se li leggeste, milord, io mi lusingo
Che chiaro si vedrebbe s’io son leale, o fingo:
Se voi non lo sdegnate, la pongo in vostra mano,
Vedrete che i nemici mi hanno accusato invano.

SCENA XV.

Madama di Brindè dalla propria casa, e detti.

Milord. (Parla in tal guisa e prega, e tanto offre e s’impegna,

Che la natura e il grado l’ira a frenar m’insegna). (da sè)
Il foglio di madama leggere non ricuso. (a Jacobbe)
Jacobbe. Eccolo.

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M. Brindè.   De’ miei fogli, Jacob, si fa tal uso?

(lo leva di mano a Jacobbe)
A voi chi diè licenza di por nelle altrui mani
I sensi del mio cuore, del mio pensier gli arcani?
Milord, un cavaliere saprà che non conviene
Leggere questa carta, che a lui non appartiene.
Milord. (Fa una riverenza a madama, parte senza dir nulla, ed entra nella bottega del libraio.

SCENA XVI.

Jacobbe e Madama di Brindè; poi un garzone del libraio.

Jacobbe. Perdonate, madama.

M. Brindè.   Sì, vi perdono. Intendo.
Il foglio era opportuno; per ciò non vi riprendo.
Vorrei non esser giunta sul punto d’impedirlo;
Ma letto in mia presenza io non dovea soffrirlo.
Jacobbe. Sensi che un cuore onesto dettati ha con saviezza,
Offendere non ponno la sua delicatezza.
Che mai contiene il foglio, che a voi non faccia onore?
Vi scrissi, vi pregai, per grazia e per favore,
Di ritornar da voi per ora dispensarmi,
Che per il comun bene dovevo allontanarmi.
Benigna rispondeste con saggia e franca mano,
Che stima di me avreste, ancorchè da lontano.
Cotali sentimenti non so di meritarli;
Ma la ragion non vedo, ond’abbiasi a celarli.
M. Brindè. Questo non è che io bramo celare agli occhi altrui;
Ma quel che viene appresso, quel che domando a vui.
Jacobbe. Quel che chiedete a me, non è che una questione
Che spiega e che dimostra di Newton l’attrazione.
M. Brindè. È ver che l’attrazione è il general soggetto,
Ma io la riduceva ai semi dell’affetto;
E non vorrei che male la tesi interpretata,
Il mondo mi credesse accesa, innamorata.

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Jacobbe. Si sa che voi amate lo studio e le bell’arti.

M. Brindè. È ver, ma sono umana; e il cuor fa le sue parti.
Jacobbe. Madama, io non v’intendo. Qual sentimento è questo?
M. Brindè. Parto di un cuor sincero, parto di un labbro onesto.
Jacob, voi non verrete in casa mia?
Jacobbe.   Vi prego
Dispensarmi per ora.
M. Brindè.   Restate, io non lo nego,
Ma in pubblico parlarmi almen non negherete.
Jacobbe. Farò quel che vi aggrada.
M. Brindè.   Meco, Jacob, sedete.
Jacobbe. Soffrir mal vi conviene l’incomodo sedile.
Recateci due sedie. (alla bottega del libraio)
M. Brindè.   Filosofo gentile!
(il garzone porta due sedie)
Amico, sui principi di Newton immortale,
Dell’attrazione appresi il moto universale.
Gravitazione, impulso, magnete e simpatia,
Per attrazion soltanto afferma che si dia.
Degli atomi dicendo la forza equivalente
Tanto nel corpo attratto, quanto nell’attraente,
Su tal principio adunque ragiono, e così dico:
Un corpo esser non puote nemico dell’amico;
Poichè virtù attrattiva con tante forze sue
O entrambi li allontana, o unisce tutti due.
Pari ragione io trovo ne’ corpi razionali:
Si odiano, se fra loro non son gli atomi eguali;
Si amano, se fra loro si trova analogia,
Traendosi a vicenda con forza e simpatia;
Onde se attrar si sente per un oggetto il core,
E l’altro non risponde con atomi di amore,
O ancor dell’attrazione fia la sentenza oscura,
O il corpo che resiste, fa fronte alla natura.
Jacobbe. Madama, la questione bizzarra è inver non poco.
So che la proponete per passatempo e gioco.

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Però dando risposta, siccome è mio dovere,

Sincero e brevemente dirovvi il mio parere.
È ver che opra per tutto la forza di attrazione,
Ella però rispetta l’arbitrio e la ragione;
Poichè se ella sforzasse con barbara violenza,
L’uom perderebbe il dono più bel di provvidenza.
Non sol ne’ corpi vari, ma nelle idee si prova,
A forza di argomenti, che l’attrazion si trova;
Ma son ragionamenti che fan pompa d’ingegno:
Niun delle occulte cose giugne a toccare il segno.
M. Brindè. Negar potete voi, Jacob, che non si dia
Fra due diversi oggetti virtù di simpatia?
Jacobbe. Anzi sostengo e dico, che l’odio e che l’amore
Hanno la loro fonte negli atomi del cuore;
Ond’è che al sol mirare non più veduto oggetto,
Accendesi di amore, ovvero di dispetto.
M. Brindè. Ma donde avvenir puote, stranissima ragione,
Che uno di amor si accenda, e l’altro di avversione?
Jacobbe. Ciò non sarà, madama; diversa è la sentenza.
Può credersi avversione di amor la indifferenza.
M. Brindè. Indifferenza e amore son due diversi obietti;
Incerti di attrazione dunque saran gli effetti.
E se cotal sistema altrui non parrà strano,
Newton con sue scoperte avrà sudato invano.
Jacobbe. Ditemi, se vi aggrada, questo parlar sì forte
Di amor donde proviene? Andiamo per le corte.
Madama, in confidenza, provate voi nel petto
D’impulso, di attrazione, di simpatia l’effetto?
M. Brindè. Non spiego i miei pensieri, non fo tal confidenza,
Col dubbio d’incontrare disprezzo o indifferenza.
Jacobbe. Non può temer disprezzi donna dal volgo esente:
Può darsi che troviate un’alma indifferente.
Ma tal se la trovate a fronte dell’affetto,
Per voi la scorgerete ripiena di rispetto.
M. Brindè. Ah Jacobbe...

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SCENA XVII.

Birone e detti.

Birone.   Signore. (a Jacobbe)

Jacobbe.   Da me che cosa vuoi?
Birone. Col foglio e questa borsa milord mi manda a voi.
M. Brindè. Stelle! che fia?
Jacobbe.   Leggiamo.
M. Brindè. (Si alza) Servitevi.
Jacobbe.   Sedete.
Dei sensi di milord voi testimon sarete.
(siedono, e Jacobbe apre e legge)
Amico, in Voi favelli timore ovver rispetto,
Le scuse, le discolpe, le umiliazioni accetto.
Mi scordo d’ogni offesa, ogni onta vi perdono;
In atto di amicizia, cento ghinee vi dono:
Ma a ciò che immantinente da Londra allontanato,
A viver vi portiate, Jacob, in altro Stato.
Nulla al bisogno vostro vi mancherà, lo giuro:
Ma se doman qui siete, di me non vi assicuro.

M. Brindè. Che sento? (si alza)
Jacobbe.   Non partite. Recatemi da scrivere, (a Birone)
M. Brindè. Oimè!
Jacobbe.   Non si sgomenta un uom che sappia vivere.
M. Brindè. Milord è risoluto, conosco il suo costume.
Jacobbe. Bastami in mia difesa dell’innocenza il nume.
Birone. Eccovi il calamaio.
Jacobbe.   Aspetta.
Birone.   Sì, signore.
M. Brindè. Deh, non vi rovinate.
Jacobbe.   Non abbiate timore.
Scusi, milord, s’io scrivo su questo foglio istesso.
Al cuor che mi ridona, tenuto io mi professo.
Se il suo dinar rimando, egli è perch’io nol merto;
La libertà non vendo con un mercato aperto.

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Se il re vorrà ch’io parta, andrò dal suolo inglese;

Come son qui vissuto, vivrò in ogni paese.
(scrivendo pronunzia forte quello che scrive)
M. Brindè. L’irriterà quel foglio.
Jacobbe.   No, se ragione intende.
Reca a milord il tutto. (a Birone)
Birone.   (La borsa ancor gli rende?) (parte)
Jacobbe. Madama, io non m’inganno: vi esce dagli occhi il pianto.
M. Brindè. Jacob, la mia virtude ora non giugne a tanto.
Vorrei coprir del duolo la debolezza estrema,
Ma sono donna alfine, ma il cuor vi adora e trema.
Jacobbe. Cotal dichiarazione tor mi potria la pace,
Se di essere turbato fosse il mio cuor capace.
Per voi duolmi, madama, più che per me il mio danno,
Se pon le mie sventure a voi recare affanno.
Ora dei studi nostri, ora il maggior profitto
Tragga fra le passioni l’animo forte, invitto.
Ai colpi di fortuna resistere c’insegna
Vera filosofia, che l’avvilirsi sdegna.
Porgano i studi vostri aiuto alla ragione;
Per me quel dolce affetto cambiate in compassione.
Lasciatemi partire senza cordoglio all’alma:
Virtù nel vostro seno porti trionfo e palma. (parte)

SCENA XVIII.

Madama di Brindè sola.

Ah, non fia ver ch’io perda di vista il di lui piede:

Lo seguirò da lungi ancor dove non crede.
Lo seguirò, infelice, giacchè l’uso ha permesso
Tal libero costume in Londra al nostro sesso.
Filosofia mi parla all’intelletto, al cuore;
Ma tace ogni altra lingua dove favella amore.
(parte dietro Jacobbe)

Fine dell’Atto Terzo.