Il divino Pietro Aretino a lo Imperadore ne la morte del Duca d'Urbino

Pietro Aretino

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Il divino Pietro Aretino a lo

Imperadore: ne la mor

te del Duca Dur

bino.


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AL SIGNOR DON LOPE SORIA

Illustre essempio di Providenza.


IO Dedico à la degnìta vostra la picola somma dei versi tessuti con lo mio cordoglio, ne la perdita di quel Principe, de cui foste amico & io servo.

Ma se io non so raccontare i meriti di lui à voi nel modo, che egli seppe narrare le qualità di voi à me, non è maraviglia, per cioche sua eccellenza operava con l’animo di Alessandro, è parlava con la lingua di Cesare, onde la eloquenza di cotanto Duce aguagliò in se stesso la virtu de l’armi proprie. Hora nel basciare à Vostra Signoria la mano se le promette tosto il secondo libro de le lettere, che à quella intitulo io Pietro Aretino suo servitore.

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Cesar Sacro egli è morto il Duca fido
   Del qual il pregio, e ’l grado del honore
   In eterno vivra nel comun grido,
E benche non convenga à real core
   Ne gli irremediabili accidenti
   Di rivolger la mente nel dolore,
Saria bel vanto il mostrare à le genti
   Con l’oscuro del habito, è col pianto
   Come vi dolgon gli huomini eccellenti,
Il vestire per lui, lugubre manto,
   E ’l lagrimar di lui, che n’è pur degnio,
   Al mondo vi faria grato altretanto,
Ch’oltre ch’egli era di Marte l’ingegnio,
   De la militia sua gli occhi, è le braccia,
   De l’armi, è de gli esserciti sostegnio,
Oltre che raro è quel, che dica, è faccia
   Cio che dire, è far diesi, onde risponda
   La mano al piede, è l’animo a la faccia.
Fede non fu giamai tanto profonda,
   Ne valor, che spiegato habbia piu l’ale
   A la steril fortuna, à la seconda.
Divin consiglio, è fortezza fatale,
   Maniere tolte à le virtu superne
   In servigio di voi lo fecer tale.
Non si accendono in Ciel tante lucerne,
   Quante opre degnie di statua, & d’historia
   Nota il secol di lui con lodi eterne.
L’alto intelletto de la gran memoria
   Solo ha discorsa, antevista, è compresa
   L’arte del cui sudor nacque la gloria.
Anima non fu mai cotanto accesa
   Di zelo militar, di vigor puro,
   Ne piu spregiante ogni tremenda impresa.

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A le difficultade ei ruppe il duro,
   Sempre facendo in parole, è in effetti
   Il dubio chiaro, e'l periglio sicuro.
Per intender de Pallade i concetti
   Con gravi discorsi, è pensier alti
   D'intrepida prontezza armava i petti
Schifo il repentino de gli assalti,
   Prese il fugace de le occasioni,
   Et lento passi de i nemici salti.
De le vittorie intese le cagioni,
   Sostenne il si, die preminenza al vero
   E crebbe ne la guerra arti, è ragioni
Mostrò in fronte il candor del sincero,
   Fu ne i conflitti, ù l'ordin si disgiugnie
   Hora Duce, hor Pedone, hor Cavalliero
Vide come la sorte ne le pugnie
   Diriza il ferro, è colpi, è la virtute
   Reggie l'animo, è il core, è in un gli giugnie.
Con le scienze de le cose sute,
   Che la memoria gli tenne guardare,
   Haveva le future prevedute.
Deliberò ne la necessitate
   Tutta via essegui cio che propose
   O con l'essempio, ò con l'autoritate.
Fu leva à le facende bellicose,
   Fu polso de le subite occorrenze,
   Fu nervo à l'opportuno de le cose.
Egli era il corpo de le esperienze,
   Egli era i membri de gli stratagemi
   Egli era fiato, è Dio de le avertenze.
Seppe il terror fuggir de i casi estremi,
   E le seditioni enfiate, è dure
   Estinte con la spada, è co i proemi.

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De i paesi conobbe le nature,
   E da se con prestezza ogni hor rimosse
   L'insidie, gli aversari, è le paure.
Mai horror di pericol non lo scosse,
   Mai temenza inimica non retenne,
   Ne indarno mai pur una squadra mosse.
La fatica il digiun fermo si stenne,
   La notte gli fu dì, letto il terreno,
   O vinse altrui, o d'altri il vincer tenne.
Pose à l desir religioso freno,
   A i nimici apparì sempre audace,
   E sempre à i suoi d'ogni clementia pieno
Tempesta, è calma di guerra, è di pace
   Veramente puote chiamarsi Urbino,
   Espirto illustre del tutto capace,
Ei seppe i campi mettere in camino,
   Seppe fargli pugnar, seppe alloggiarli,
   E seppe vincer gli huomini, e'l destino,
Tal che Italia dovrebbe consacrarli
   In questo, & in quel luogo altari, è tempi
   E Mete, & archi, è colonne drizzarli.
Fati rei, sorti inique, & influssi empi
   Gran carco fate à la bonta de i Cieli
   Dando di voi si scelerati essempi.
Dovria salvarsi da gli ultimi gieli
   Un Francesco Maria, un Capitano
   Già mosso à triomphar de gli infideli,
Non che toccar con accidente strano
   La magnanima sua lucida vita
   Riputatione del genere humano.
La creatura nobile è gradita,
   Havendo il cerchio del mondo trascorso
   Con l'ali de la sua fama infinita

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Se ben di morte è necessario il morso.
   Si è trasferita à le celesti sphere
   Perch'ebbe intoppo il natural suo corso.
Del Metauro gemer le ninphe altere
   Nel chiuder di quegli occhi gravi, è immoti
   Già chiari specchi de le franche schiere,
Gli Iddii del mare suo squamosi, è ignioti
   A l'urna lo portar sopra il pheretro,
   Da i cui lati pendean ghirlande, & voti.
La pompa funeral, che seguia dietro,
   Si facea ombra con le insegne invitte,
   Che gli aggiunse Fiorenza, è Marco, è Pietro,
E mentre lo spargean le turbe afflitte
   Di Ghiande d'or, di corone, è di palme
   A la immortalità nel tempio ascritte,
Posate in pace ossa felici, & alme
   Dicea che vide le religuie sole
   Sgravata pur de le vivaci salme.
Ne lo sperar colui, che havea le scole
   Di Minerva nel petto d'honor cinto,
   Onde ne sospirò la Luna e'l sole.
Con supremo stupor d'amor depinto
   Sculto in materia, che lo scritto indora,
   Nel gran cor se gli lesse Carlo quinto,
Hor quello Imperador, che il mondo adora,
   Poscia ch'è'l fedel suo morto, è sepolto,
   Risguardi la Gonzaga Leonora,
Duo fiumi amari gli irrigano il volto,
   Ch'ella piangendo del cor preme, è suelle,
   Da che le ha Giove il buon Consorte tolto.
Torto fareste à le cortesi stelle,
   Che quali gemme vi ornan la corona
   De le lor sorti inviadiate, è belle,

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Mancando à la dignissima persona
   Che rinchiuso il marito in freddi marmi
   Con seco stessa in tal note ragiona.
Da che non posso celebrare i carmi
   L'alta Maesta sua, che ha ricco il nome
   Di spoglie, di trophei, de carri, è d'armi,
Ne singular darle triompho, come
   Le dava il padre di tre miei figlioli
   Con l'haver lire à l'Oriente dome,
Le sue lodi usciranno à stuoli, à stuoli
   Fervidamente fuor de i labbri miei
   De gli altri detti ognihor vedovi, soli.
Adunque voi, che pareggiate i Dei
   Pero'l Cielo ogni gratia vi comparre,
   Resuscitate il suo Signior in lei
Racoglietele homai le gioie sparte,
   Che fe'l merto die giungere à la fede
   Deverebbe entrar con voi ne i Regni à parte
Perche la terra mai non vide, o vede
   Costanza, pertinacia, effetto, & voglia
   Piu intenta al sommo de la vostra fede,
Langue se l'aurea Ispagnia sente doglia,
   Gioisce poi, s'ella in letitia ride,
   con suo ben veste, è col suo mal spoglia
Siche in vece di quel, che la conquide,
   Et in cambio del cor, che vi consacra,
   E perche in le sian le speranze fide
L'alta Gloria di voi inclita, è sacra,
   Con ristorar le Ducali fatiche,
   Li acqueti, ò scemi la pena aspra
Se'l fate, ei, ch'è tra l'eccelse bre antiche,
   E gli heroi di Dio ha per compagni,
   Le militie del ciel terravvi amiche.

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Ecco il thesor de i paterni guadagni
   Ecco la imago de l'huom venerato,
   Ecco la destra de i suoi fatti magni
Guidobaldo dico io Giovane ornato
   Di cio che i buoni bramano in colui,
   Ch'è per regniare, e per dar legge nato.
Rimir il par, se vol veder altrui
   Del suo pio Genitor le virtu conte
   Ringiovanite, e ridondare in lui.
Però vi inchinera l'Appenin Monte
   Quasi à suo Dio terren verace, è caro
   La superba ventosa horrida fronte.
Intanto à Cesar sempre Augusto chiaro
   Bascia il pie l'Aretin servo suo buono.
   Di Venetia alma al mezzo di Genaro.
Ne l'anno Mille Trentesimo Nono.



FINE.

Stampato in Roma in Campo de fiore

per Antonio Blado nel

Anno 1539.