Il conte di Cavour in parlamento/La questione di Roma

La questione di Roma

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XVII.

LA QUESTIONE DI ROMA.


Chi bene consideri, il Papato e l’Impero che pur trassero la loro origine da Roma erano due istituzioni troppo grandi perchè una sola nazione potesse in sè comprenderle entrambe. Vittima del cómpito immenso che le assegnò la storia, l’Italia, ebbe a scontare con la servitù dei suoi figli e lo smembramento delle sue provincie il sogno d’essere sovrana dell’universo. La riforma religiosa prima, poi la rivoluzione francese che fece risorgere nella mente di un gran genio l’idea tutta romana d’un impero europeo, spezzarono il meccanismo su cui reggevasi l’Europa del medio evo. E invano più tardi, la diplomazia riunita a Vienna cercò di assicurare la pace e l’indipendenza delle nazioni, con un ordinamento artificiale: essa non vi riuscì più che non vi riuscisse l’antico antagonismo fra il Papato e l’Impero, dacchè volle descrivere i varii Stati d’Europa a misura di territorio e di popolazione, in tutto dimenticando che il vero equilibrio fra loro non può risiedere altrove che nella stretta osservanza delle leggi della natura, e nel dare a ciascheduno i confini che queste le assegnano.

Delle due grandi idee colle quali si è tentato inutilmente di ridurre a forma sistematicamente unitaria la perpetua varietà dei rapporti politici e sociali, una è scomparsa per sempre. L’Impero non è più; nè v’ha più Cesare alcuno che possa nutrire la speranza di comandare su tutto il mondo. Niccolò di Russia che si stimò un giorno tanto forte da potere da sè solo risolvere le grandi questioni del suo tempo, imparò, a sue spese, che l’Europa, comecchè debole e divisa, diventa forte ed unanime quando trattasi di difendere la propria libertà. Ma l’altra istituzione cosmopolita, il Papato, è tuttavia in piedi, e quantunque abbia molto perduto dell’antica potenza, non solo vive, ma sostiene ancora gagliardamente la lotta. Certo non è più a Roma che [p. 631 modifica]si accentrano le più chiare intelligenze del mondo; ma egli è ancora di là che partono parole le quali hanno virtù di commuovere, in tutto l’universo, un gran numero di coscienze ed il Papato, come già fu per secoli, così è anch’oggi il più forte ostacolo alla completa rigenerazione d’Italia. Che devesi egli fare? Attaccarlo corpo a corpo? Adoperare ogni forza per rovesciarlo, o indietreggiare, spaventati, dinanzi a lui e sacrificargli l’unità d’Italia?

È nota la soluzione che il conte di Cavour proponeva all’arduo problema; ed i particolari che il lettore ha trovato nelle prime pagine di questo libro, ci dispensano di tornare sull’argomento. Egli, nel suo pensiero, alla Roma antica che conquistò il mondo con legioni innumerevoli di soldati, alla Roma del medio evo che lo conquistò alla sua volta con altrettante legioni di monaci, opponeva la Roma dell’avvenire, nella quale la libertà politica e la religiosa avrebbero dovuto trovare la loro più completa manifestazione. Secondo lui, da quella terra su cui niuno ha potuto mai rivolgere lo sguardo o senza odio o senza amore; da quella terra d’onde è partita tanta luce per diffondersi ovunque e da cui si è pur disteso sull’universo il doppio dispotismo militare e clericale, la libertà doveva un giorno risplendere di nuovo splendore. Il potere politico, istituito per tutelare l’opinione di ciascheduno e di tutti, e il potere spirituale esercitato su tutte le anime senza alcun freno, muovendosi ciascheduno nella sua sfera propria, avrebbero insieme concorso al progresso della civiltà universale. L’interesse reciproco avrebbe stretta in breve una solida alleanza fra il principio della libertà religiosa operante con tutta la sua potenza sullo spirito umano, ed il principio di libertà difeso dallo Stato in tutti i suoi rapporti con la società civile. Per tal guisa, sarebbe durata continua, sopra un terreno da cui ogni oppressione morale o materiale sarebbe sbandita, quella pacifica lotta fra le tradizioni del passato e le aspirazioni dell’avvenire che trasforma ed estende la base dell’umano consorzio. Secondo la opinione di Cavour la fine del potere temporale non doveva avere altra conseguenza se non che disarmare l’autorità ecclesiastica d’ogni forza materiale per imporre le sue leggi. Egli credeva che per guarentire a tutti i popoli e per sempre il tranquille godimento della libertà di coscienza e di pensiero (preziosa conquista del nostro secolo), fosse mestieri che in Roma stessa quella libertà trovasse il suo fondamento; ed era d’avviso, che ove la Santa Sede si fosse valsa unicamente delle forze morali che costituiscono la vera essenza del suo potere, avrebbe finalmente trovato presso i fedeli, la sola sanzione legittima della sua autorità. Il Papato, secondochè egli stimava, posto in luogo salubre dove liberamente regnasse lo scambio delle idee ed il rispetto delle altrui opinioni, avrebbe potuto [p. 632 modifica]di là mettere in moto tutte le sue forze morali, tutta la potenza divina ed umana che in esso veramente risiede, e di fà, a sua immensa gloria, mostrare al mondo che la spada secolare non è necessaria per difendere il cattolicismo. Poco a poco in mezzo al moto universale delle idee e per un probabile ritorno a quelle che la Corte di Roma, con ispirito profondamente politico, ha professato in altre epoche, il Papato sarebbesi posto al di sopra delle lotte dei partiti, ed avrebbe per tal modo permesso al Governo di gettare via tutte quelle armi che i giuristi del medio evo fabbricarono per difendere la società civile dalle continue pretese del clero. Finalmente le popolazioni non vedendo più nel Papato il tenace avversario di tutto ciò che esse hanno di più caro e più sacro, gli avrebbero pur di buon grado accordata quella venerazione a cui parecchi secoli di vita benefica a tutto il mondo gli danno diritto; e lo Stato sarebbe pur sempre rimasto a custodia della libertà di tutte le opinioni.

Questo concetto d’una libera Chiesa in un libero Stato, è egli una chimera? L’intelligenza tanto salda e tanto netta del conte di Cavour, s’è forse mai smarrita ad un tratto nel mondo della utopia? Arrivata innanzi tempo al termine dei suoi lavori, si è dessa per avventura abbandonata ad un sogno di pace e di suprema armonia, ispirato dall’avvicinarsi della tomba? Invero, considerando la tenacità con cui la Corte di Roma ripete il suo invariabile non possumus, ognuno sarebbe tentato a crederlo; e forse è giusto il dire che il conte di Cavour si illudeva soverchiamente pensando che un atto tanto solenne, tanto prodigioso quanto l’accordo del principio di libertà con quello di autorità potesse compiersi inscrivendolo in una convenzione o in un contratto bilaterale; ma egli è certo che la sorte futura della società umana risiede in questo accordo, comunque e per qualsiasi evento possa prodursi, e che è appunto per questo rispetto che la rigenerazione d’Italia sarà giovevole alla civiltà universale.

Durante gli ultimi mesi della sua vita, il conte di Cavour, senza punto dismettere la sua intiera confidenza nei principii da lui proclamati, aveva dato opera ad allontanare dalla grande contesa fra l’Italia e il Papato tutti gli elementi stranieri all’Italia. Come suole avvenire in tutte le controversie di famiglia, la nostra era stata manifestamente inasprita ed avvelenata da partiti ed interessi estranei. Secondo Cavour, bisognava dunque mettere il Papato dinanzi a questa Italia, che esso, per antica usanza, troppo disconosce e disprezza. Il Papato ha sempre atteso a fare della Penisola uno instrumento alle sue mire di teocrazia universale; nè l’ha considerata mai per altro che per un servo utile e mal compensato a cui non ha mai voluto concedere quello che [p. 633 modifica]pure ha accordato ad altre nazioni, ben più ribelli al suo dominio e ben più temibili. I governi italiani non hanno mai potuto ottenere dalla Corte di Roma ciò che essa ha pur dato a Stati più lontani e meno obbedienti; e, per citare un esempio fra cento, nel medesimo tempo che il signor Rios Rosas potè concludere con la Santa Sede un concordato a buone condizioni relativo ai beni del clero spagnolo, il Piemonte non ebbe da lei che continui rifiuti a domande ben più lievi. Ora, secondo il vasto concetto del conte di Cavour, è venuto il tempo in cui il Papato deve e persuadersi che l’antico e negletto servo ha racquistato i suoi diritti, e comprendere che l’aiuto ed il rispetto che questo spontaneamente gli offre val meglio che il tributo obbligatorio di una servitù doventata impossibile. Per giungere a questo, è d’uopo prima d’ogni altra cosa allontanare tutti gli elementi stranieri che si sono frapposti tra il pontefice e noi, e che lo hanno segregato dall’Italia.

Questo modo di pensare del grande statista, spiega la straordinaria moderazione, fors’anche la insufficienza dei provvedimenti presi dal Governo sardo in tutto ciò che ha tratto alle materie ecclesiastiche. Taluno potrebbe giudicare soverchia la mitezza del Ministero presieduto dal conte di Cavour nel combattere i privilegi del clero, e rimproverarlo d’avere usata una circospezione molto maggiore di quella di tutte le altre nazioni; ma gli è che il presidente del Consiglio era profondamente convinto che l’Italia, restituita a sè, non sarebbe stata giammai un luogo propizio alle commozioni rivoluzionarie, e non avrebbe tollerato un governo soverchiamente ostile al clero.

Poche nazioni infatti sono al pari dell’Italia omogenee in materia di religione. Ivi è scarso il numero dei dissidenti; ed un certo scetticismo materialista che prevale fra la gente di maggiore stato, non impedisce alle masse popolari di conservare i costumi ed il rispetto delle antiche leggende e delle forme esterne del culto cattolico. Se adunque il Papato e l’Italia si trovassero soli, uno in faccia all’altra, non tarderebbero probabilmente ad intendersi. Che se invece il Papato, ciò che non è desiderabile, rinnovasse il fatto d’Avignone e preferisse l’esiglio, non v’è alcun dubbio che il papa ed i cardinali finirebbero per convincersi che in nessun altra parte del mondo sarebbero tanto liberi quanto al Vaticano, in nessun’altra tanto rispettati quanto in Italia, non solo dai cattolici, ma e dagli uomini politici e dai giureconsulti e più anche, nell’ordine intellettuale, dagli stessi liberi pensatori. Ammettendo la ipotesi d’una emigrazione volontaria e passeggiera, avverrebbe, secondochè giustamente osserva un illustre dottore tedesco, che il Papato, nel suo viaggio attraverso le altre nazioni, anco le più cattoliche, scorgerebbe il cammino fatto dal mondo ed il nuovo spirito [p. 634 modifica]dei tempi, e subirebbe, assai più presto che restando a Roma, quella trasformazione che gli è necessaria. Trasportato in una sede tanto nuova per lui, ben tosto tornerebbe a preferire la terra ove è nato e cresciuto in fama; mille fatti gli addimostrerebbero che, fuor di Roma, ben altre concessioni gli sarebbero imposte, ed il suo medesimo interesse lo condurrebbe a tornare al Vaticano per diffondere di là il dogma alle genti cristiane, intantochè il Re d’Italia avrebbe la sua reggia al Quirinale.[1]

Checchè ne sia di ciò, queste idee, un giorno o l’altro, debbono trionfare per l’ascendente che esse eserciteranno infallibilmente sulla classe meno elevata della gerarchia ecclesiastica. Il conte di Cavour, non certo disposto a favorire in nessun modo una ribellione del basso clero contro gli alti dignitari della Chiesa, aveva però la ferma credenza che il governo di questa avrebbe subíto in breve le più grandi modificazioni. Malgrado una vana pretesa d’immobilità, anche il Papato s’è venuto via via trasformando con la società cristiana, e, senza ricorrere al tempo degli Apostoli, si può affermare che i Concilii hanno dato alla civiltà nascente d’Europa la prima idea del governo parlamentare. Feudale nel medio evo, il Papato si trasformò più tardi in una monarchia assoluta, così rispondendo ad una legge generale del tempo, che pose il monarcato a base degli Stati moderni. E verrà forse un giorno in cui il governo della Chiesa prenderà la sua forma definitiva, ordinandosi in confederazione di vescovi presieduta da un capo elettivo. Il conte di Cavour aveva il fermo convincimento che se lo Stato desse ai vescovi una libertà intiera nello esercizio del loro potere spirituale, essi sarebbero tratti a considerarsi assai meno soggetti a Roma e provvederebbero molto meglio ai veri interessi delle popolazioni delle loro diocesi. Per conseguenza, sciogliere i vescovi da ogni vincolo speciale verso lo Stato era il miglior modo di sottrarli alla totale dipendenza della Santa Sede. Così Cavour, genio sovranamente innamorato della libertà, aveva fede che, allorquando fossero abbattuti tutti gli ostacoli artificiali che danno alle varie forze del mondo un [p. 635 modifica]equilibrio falso e manchevole, ogni cosa avrebbe preso il posto suo, e la vita circolato liberamente in tutte le membra del corpo sociale.

Che il lettore ci perdoni il troppo lungo commento ai discorsi che seguono. Non potendo gettare luce su tutti i punti della grande questione, abbiamo voluto, per quanto èra da noi, chiarire il senso vero della formula Libera Chiesa in libero Stato. Del rimanente è superfluo rammentare che i tre discorsi furono accolti con entusiasmo, e che il Parlamento acclamò Roma capitale d’Italia.


1.

RISPOSTA ALLE INTERPELLANZE DEL DEPUTATO AUDINOT

SULLA QUESTIONE DI ROMA.

(Seduta della Camera, 25 marzo 1861.)


Signori deputati, l’onorevole deputato Audinot con parole gravi ed eloquenti, quali si addicevano all’altezza dell’argomento ch’egli ha preso a trattare avanti a voi, anzichè rivolgere al Ministero interpellanze sui fatti speciali, vi ha fatto una magnifica esposizione della questione di Roma. Nel conchiudere il suo discorso, egli lo riassumeva chiedendo al Ministero schiarimenti su due punti particolari, cioè sulle voci che correvano e corrono circa a negoziazioni intavolate con Roma, e circa pratiche fatte o da farsi per ottenere l’applicazione del principio di non intervento alla questione romana; poi terminava con una interpellanza di ben altro momento, terminava, cioè, chiedendo al Ministero quale fosse la linea di condotta che egli intendeva seguire in questo supremo argomento. E ben egli si apponeva; l’attuale discussione non poteva, nè doveva essere ristretta allo scambio di poche spiegazioni; poichè la questione di Roma è posta sul tappeto, ragion vuole che essa sia trattata in tutta la sua ampiezza. Ma, o signori, prima di accingermi a rispondere non solo propriamente alle interpellanze dell’onorevole deputato [p. 636 modifica]Audinot, ma a quel complesso di considerazioni ch’egli ha esposte con tanta efficacia, mi sia lecito il ricordarvi che l’attuale questione è forse la più grave, la più importante che sia stata mai sottoposta ad un Parlamento di libero popolo. La questione di Roma non è soltanto di vitale importanza per l’Italia, ma è una questione la cui influenza deve estendersi a 200 milioni di cattolici sparsi su tutta la superficie del globo; è una questione la cui soluzione non deve solo avere un’influenza politica, ma deve esercitarne altresì una immensa sul mondo morale e religioso. Questa premessa, o signori, io non l’ho già fatta per ischermirmi, per cercare di sfuggire ad una piena discussione, od evitarla con sotterfugi diplomatici, con artifizi oratorii.

Quando la questione romana era ancora lontana, quando la sua soluzione doveva differirsi ad epoca indeterminata, sarebbe stato savio consiglio per il ministro degli Affari Esteri di mantenere una prudente riserva, di restringersi ad indicare la stella polare che doveva guidare la sua condotta, ed evitare ogni maggiore spiegazione; ma ora, o signori, che questa questione è stata discussa nei Parlamenti dei popoli liberi, ora che essa è l’argomento principale dei dibattimenti in tutti i paesi civili, codesta non sarebbe prudenza, sarebbe invece pusillanimità. (Benissimo!) Queste mie osservazioni, o signori, tendono ad ottenere da voi, e massime da quelli avanti cui per la prima volta ho l’onore di parlare sopra gravissimi argomenti, molta indulgenza; esse tendono a porli in avvertenza di tener conto delle difficoltà gravissime che circondano chi ha l’onore di parlarvi, nel far giustizia di quanto io mi accingo a dire. (Movimenti d’attenzione.) L’onorevole deputato Audinot vel disse senza riserva: Roma debbe essere la capitale d’Italia. E lo diceva con ragione; non vi può essere soluzione della questione di Roma, se questa verità non è prima proclamata, accettata dall’opinione pubblica d’Italia e d’Europa. (A sinistra: [p. 637 modifica]Bene!) Se si potesse concepire l’Italia costituita in unità un modo stabile, senza che Roma fosse la sua capitale, io dichiaro schiettamente che reputerei difficile, forse impossibile, la soluzione della questione romana. Perchè noi abbiamo il diritto, anzi il dovere di chiedere, d’insistere perchè Roma sia riunita all’Italia? Perchè senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire. (Approvazione.) A prova di questa verità già vi addusse molti argomenti l’onorevole preopinante. Egli vi disse con molta ragione che questa verità, essendo sentita quasi istintivamente dall’universalità degli Italiani, essendo proclamata fuori d’Italia da tutti coloro che giudicano delle cose d’Italia con imparzialità ed amore, non ha d’uopo di dimostrazione, è affermata dal senso comune della nazione. Tuttavia, o signori, si può dare di questa verità una dimostrazione assai semplice. L’Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per isciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa; ora, o signori, perchè quest’opera possa compiersi conviene che non vi siano ragioni di dissidii, di lotte. Ma finchè la questione della capitale non sarà definita, vi sarà sempre ragione di dispareri e di discordie fra le varie parti d’Italia. (Benissimo!)

Ed invero, o signori, è facile a concepire che persone di buona fede, persone illuminate ed anche dotate di molto ingegno, ora sostengano, o per considerazioni storiche, o per considerazioni artistiche, o per qualunque altra considerazione, la preferenza a darsi a questa o a quell’altra città come capitale d’Italia; io capisco che questa discussione sia per ora possibile: ma se l’Italia costituita avesse già stabilita in Roma la sua capitale, credete voi che tale discussione fosse ancora possibile? Certo che no; anche coloro che si oppongono al trasferimento della capitale in Roma, una volta [p. 638 modifica]che essa fosse colà stabilita, non ardirebbero di proporre che venisse traslocata altrove. Quindi egli è solo proclamando Roma capitale d’Italia che noi possiamo porre un termine assoluto a queste cause di dissenso fra noi. Io sono dolente perciò di veder che uomini autorevoli, uomini d’ingegno, uomini che hanno reso alla causa italiana eminenti servigi, come lo scrittore a cui l’onorevole preopinante alludeva,[2] pongano in campo cotesta questione, e la dibattano, oserei dire, con argomenti di poca importanza. La questione della capitale non si scioglie, o signori, per ragioni nè di clima nè di topografia, neanche per ragioni strategiche; se queste ragioni avessero dovuto influire sulla scelta della capitale, certamente Londra non sarebbe capitale della Gran Bretagna, e forse nemmanco Parigi lo sarebbe della Francia. La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali. È il sentimento dei popoli quello che decide le questioni ad essa relative. Ora, signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia nessuna o pochissime memorie municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi, è una storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato. (Segni di approvazione su vari banchi.) Convinto, profondamente convinto di questa verità, io mi credo in obbligo di proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione, e mi tengo in obbligo di fare in questa circostanza appello al patriottismo di tutti i cittadini d’Italia e dei rappresentanti delle più illustri sue città, onde cessi ogni discussione in proposito, affinchè noi possiamo dichiarare all’Europa, affinchè chi ha l’onore [p. 639 modifica]di rappresentare questo paese a fronte delle estere potenze possa dire: la necessità d’aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intiera nazione. (Applausi.) Io credo di avere qualche titolo a poter fare quest’appello a coloro che, per ragioni che io rispetto, dissentissero da me su questo punto; giacchè, o signori, non volendo avanti a voi fare sfoggio di spartani sentimenti, io lo dico schiettamente: sarà per me un gran dolore il dover dichiarare alla mia città nativa che essa deve rinunciare risolutamente, definitivamente ad ogni speranza di conservare nel suo seno la sede del Governo. (Approvazione.) Sì, o signori, per quanto personalmente mi concerne, io vado con dolore a Roma. Avendo io indole poco artistica (Si ride), sono persuaso che, in mezzo ai più splendidi monumenti di Roma antica e di Roma moderna, io rimpiangerò le severe e poco poetiche vie della mia terra nativa. Ma egli è con fiducia, o signori, che io affermo questa verità. Conoscendo l’indole dei miei concittadini, sapendo per prova come essi furono sempre disposti a fare i maggiori sacrifizi per la sacra causa d’Italia (Viva approvazione); sapendo come essi fossero non dirò lieti, ma rassegnati a vedere la loro città invasa dal nemico, benchè fossero pronti a fare energica difesa; conoscendo, dico, questi sentimenti, io non dubito che essi non mi disdiranno quando, a loro nome, come loro deputato, io proclamo che Torino è pronta a sottomettersi a questo gran sacrifizio nell’interesse dell’Italia. (Applausi dalle gallerie.) Mi conforta anche la speranza (dirò quasi la certezza, dopo aver visto come fossero accolte da voi le generose parole che il deputato Audinot rivolgeva alla mia città natale), mi conforta, dico, la speranza, che quando l’Italia, definitivamente costituita, avrà stabilita la gloriosa sede del suo Governo nell’Eterna Città, essa non sarà ingrata per questo paese che fu culla della libertà, per questa terra in cui venne deposto quel germe della indipendenza, che svolgendosi [p. 640 modifica]rapidamente e rigogliosamente si estende oramai in tutta la Penisola dalla Sicilia alle Alpi. (Approvazione.)

Ho detto, o signori, e affermo ancora una volta, che Roma, Roma sola deve essere la capitale d’Italia. Ma qui cominciano le difficoltà del problema, qui comincia la difficoltà della risposta che debbo dare all’onorevole interpellante. (Profondo silenzio.) Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni, noi dobbiamo andarvi di concerto colla Francia: inoltre, senza che la riunione di questa città al resto d’Italia possa essere interpretata dalla gran massa dei cattolici d’Italia e fuori d’Italia come il segnale della servitù della Chiesa. Noi dobbiamo, cioè, andare a Roma, senza che per ciò l’indipendenza vera del pontefice venga a menomarsi. Noi dobbiamo andare a Roma, senza che l’autorità civile estenda il suo potere all’ordine spirituale. Ecco le due condizioni che debbono verificarsi, perchè noi possiamo andare a Roma senza porre in pericolo le sorti d’Italia. Quanto alla prima, vi disse già l’onorevole deputato Audinot che sarebbe follia il pensare, nelle attuali condizioni d’Europa, di volere andare a Roma malgrado l’opposizione della Francia. Ma dirò di più: quando anche per eventi, che credo non siano probabili e nemmeno possibili, la Francia si trovasse ridotta in condizioni tali da non potere materialmente opporsi alla nostra andata a Roma, noi non dovremmo tuttavia compiere l’unione di essa al resto d’Italia, se ciò dovesse recar grave danno ai nostri alleati. Noi, o signori, abbiamo contratto un gran debito di gratitudine verso la Francia. Io non intendo certo che siano applicabili alle relazioni internazionali tutte le strettissime regole di moralità che debbono regolare i rapporti individuali; tuttavia vi sono certi principii di morale che le nazioni stesse non violano impunemente. Io ben so che molti diplomatici professano contraria sentenza. Io mi ricordo di aver udito far plauso, or sono alcuni anni, ad un detto famoso di un insigne uomo di Stato [p. 641 modifica]austriaco, il quale dichiarava, ridendo, che fra poco l’Austria avrebbe fatto stupire l’Europa per la sua ingratitudine rispetto alla Russia: ed invero l’Austria tenne parola (Ilarità); giacchè forse saprete tutti, e, quando nol sapeste, io potrei farvene testimonianza, che nel Congresso di Parigi, e nei negoziati che a questo Congresso tennero dietro, nessuna potenza si mostrò tanto ostile alla Russia, tanto ostinata ad aggravare le condizioni della pace quanto l’Austria, benchè essa non avesse punto contribuito colla sua spada ad imporre la pace all’antica sua alleata. (Sensazione.) Ma, o signori, la violazione di quel gran principio morale non tardò ad essere punita. Dopo alcuni anni la Russia prese la sua rivincita; e noi ne dobbiamo andar lieti, giacchè io non esito ad attribuire alla solenne ingratitudine austriaca la facilità colla quale si sono ristabilite fra la Russia e noi buone relazioni, che disgraziatamente ora sono di nuovo momentaneamente interrotte, ma senza che per ciò (io ne ho fede) si siano modificati i sentimenti della nazione russa rispetto alla Italia, e senza che siano cessate affatto nel Sovrano che regge quel popolo, le sue antiche simpatie per noi. Ma, o signori, noi abbiamo, rispetto alla Francia, un motivo ancor più grave di accordarci con essa. Quando noi abbiamo invocato nel 1859 l’aiuto francese, quando l’Imperatore acconsentì a scendere in Italia a capo delle bellicose sue schiere, egli non ci dissimulò quali impegni ritenesse di avere rispetto alla Corte di Roma. Noi abbiamo accettato il suo aiuto, senza protestare contro gl’impegni che ci dichiarava di avere assunti; ora, dopo avere ricavati tanti benefizi dall’accordata alleanza, non possiamo protestare contro impegni che fino ad un certo punto abbiamo ammessi.

Ma dunque, mi si obbietterà, la soluzione della questione di Roma è impossibile. Rispondo: se noi giungiamo a fare che si verifichi la seconda delle accennate condizioni, la prima non offrirà molti ostacoli; se [p. 642 modifica]noi giungiamo, cioè, a far sì che la riunione di Roma all’Italia non faccia concepire gravi timori nella società cattolica (intendo per società cattolica quella gran massa di persone di buona fede che professano il dogma religioso per sentimento vero e non per fini politici, quella gran massa la cui mente non è offuscata da volgari pregiudizi); se noi, dico, giungiamo a persuadere la gran massa dei cattolici che l’unione di Roma alla Italia può farsi senza che la Chiesa cessi d’essere indipendente, credo che il problema sarà quasi sciolto. Non bisogna farsi illusione: molte persone di buona fede, non animate da pregiudizi ostili all’Italia, e nemmeno alle idee liberali, temono che, quando Roma fosse unita all’Italia, quando la sede del Governo italiano fosse stabilita in Roma, quando il Re sedesse sul Quirinale, temono, dico, che il pontefice avesse a perdere molto e in dignità e in indipendenza; temono in certo modo che il pontefice, invece d’essere il capo di tutto il cattolicismo, dovesse essere ridotto alla carica di grande elemosiniere o di cappellano maggiore! (Si ride.) Se questi timori fossero fondati, se realmente la caduta del potere temporale dovesse trar seco necessariamente questa conseguenza, io non esiterei a dire che la riunione di Roma allo Stato d’Italia sarebbe fatale non solo al cattolicismo, ma anche all’Italia; giacchè, o signori, io non so concepire maggiore sventura per un popolo côlto che di vedere riunita in una sola mano, in mano de’ suoi governanti, il potere civile e il potere religioso. (Bene!) La storia di tutti i secoli, come di tutte le contrade, ci dimostra che, ovunque questa riunione ebbe luogo, la civiltà quasi sempre immediatamente cessò di progredire, anzi sempre indietreggiò; il più schifoso dispotismo si stabilì; e ciò, o signori, sia che una casta sacerdotale usurpasse il potere temporale, sia che un califfo od un sultano riunisse nelle sue mani il potere spirituale. Dappertutto questa fatale mescolanza ha prodotto gli stessi effetti; tolga [p. 643 modifica]adunque Iddio, o signori, che ciò avvenga nella nostra contrada.

Ciò premesso, io credo dover esaminare da tutti i lati la sollevata questione, quella cioè degli effetti che la riunione di Roma all’Italia avrà sulla indipendenza del potere spirituale del pontefice. La prima cosa che io debbo fare si è di esaminare se ora veramente il potere temporale assicuri al pontefice una effettiva indipendenza. In verità, se ciò fosse, se il potere temporale assicurasse ora, come assicurava nei secoli scorsi, l’indipendenza assoluta del pontefice, io esiterei molto a pronunziare la soluzione di questo problema. Ma, o signori, possiamo noi, può alcuno affermare con buona fede che il potere temporale del pontefice, qual è ora costituito, conferisca alla sua indipendenza? No certamente, quando si vogliano considerare le condizioni attuali del governo romano con ispirito di imparzialità. Nei secoli scorsi, quando il diritto pubblico europeo non conosceva quasi nessun altro titolo giuridico di sovranità che il diritto divino; quando i sovrani erano considerati come proprietari assoluti dei paesi che costituivano il loro dominio; quando i vari governi d’Europa rispettavano questo principio, oh! io intendo che, pel pontefice, il possesso di alcune provincie, di uno Stato di qualche estensione fosse una garanzia d’indipendenza. In allora questo principio era accettato, o, se volete, subìto dalle popolazioni stesse; quindi, volendo o non volendo, simpatico od antipatico che loro fosse quel governo, lo accettavano, lo subivano; perciò io non esito a riconoscere che sino al 1789 il potere temporale fu pel pontefice una garanzia d’indipendenza. Ma ora, o signori, questo diritto pubblico è mutato; quasi tutti i governi civili riposano sul principio del consenso, o tacito od esplicito, delle popolazioni. Noi vediamo questo principio solennemente proclamato in Francia ed in Inghilterra; noi lo vediamo quasi accettato in Prussia; vediamo persino che l’Austria stessa vi si accosta, e che [p. 644 modifica]la Russia, se lo contesta ancora, non lo respinge più con quella veemenza con cui lo combatteva l’imperatore Nicolò, il quale aveva quasi innalzato il diritto divino a dogma religioso. Ammesso che il consenso dei popoli al governo che è loro imposto sia necessario, è facile il dimostrare che il potere temporale manca assolutamente di fondamento. Ora, che non vi sia questo consenso, che anzi vi sia stato e vi sia tuttora un antagonismo crescente tra le popolazioni degli antichi dominii del papa ed il governo temporale del sommo pontefice, è cosa evidente. Io non rianderò gli annali della storia; vi farò tuttavia osservare che quest’antagonismo si manifestò quasi immediatamente dopo la restaurazione del 1814. Ed invero, o signori, pochi mesi dopo la restaurazione del 1814 noi vediamo, all’apparire negli Stati della Chiesa di un illustre guerriero, facendo appello al principio della nazionalità italiana, noi vediamo insorgere i popoli di quelle contrade; noi vediamo proclamata la incompatibilità del governo temporale colla civiltà novella da quel grande Italiano, che nel suo lungo esilio rese illustre la nostra patria, come grande economista, come abile statista; da quell’Italiano che sul finire della sua carriera, per ispirito di abnegazione, volle tentare l’impossibile impresa di riconciliare il potere temporale col progresso civile, e la cui morte fu una delle più grandi sventure che sia toccata all’Italia. (Bravo! Benissimo! dalla destra.) Intendo parlare di Pellegrino Rossi, che nel 1816 proclamò in Bologna il principio della nazionalità italiana. Gli anni immediatamente successivi furono relativamente tranquilli; i popoli erano talmente spossati da quella lotta da giganti che aveva durato oltre a 25 anni, che anelavano ad un assoluto riposo. A ciò forse contribuirono pure il governo assai mite del venerando pontefice che illustrò allora il trono pontificale colle sue virtù, e la politica relativamente liberale del suo ministro, il cardinale Consalvi. Ma non sì tosto l’Italia [p. 645 modifica]commosse nel 1820 e nel 1821, per ottenere libertà e indipendenza, che le Romagne, paese in cui è vivissimo il sentimento patriottico, si dimostrarono insofferenti del governo pontificale. D’allora in poi vi fu sempre antagonismo più o meno aperto fra le popolazioni dello Stato pontificio e il loro governo. Dopo la rivoluzione del 1830 quest’antagonismo si tradusse in movimento insurrezionale; quelle provincie, senza opposizione di sorta, affermarono il loro diritto di sottrarsi al dominio temporale dei papi, e quel moto, partito da Bologna, si estese sino alle porte di Roma. L’intervento straniero venne a soffocarlo. D’allora in poi l’intervento straniero divenne una necessità; cessò, è vero, per qualche anno; ma se cessava di fatto, la minaccia ne durava tuttavia imminente, e le truppe tedesche, ritiratesi dalle Romagne e dalle Marche, stavano accampate sul Po, pronte ad accorrere ad ogni moto che sull’altra riva scoppiasse, ciò che costituiva per certo un vero e continuo intervento.

Questo antagonismo si fece più forte e più irresistibile dopo il 1848, e d’allora in poi non bastò più la minaccia dell’intervento: l’intervento effettivo esteso a tutte le parti dello Stato divenne una necessità. Certo, o signori, gli eventi del 1859 non hanno modificato questo sentimento; è facile di verificarlo. Le Romagne sono unite a noi oramai da due anni; la stampa vi è libera, libera vi è la manifestazione del pensiero così a’ laici che agli ecclesiastici; libere sono le associazioni; e le elezioni non vi sono state certamente violentate nè dal Governo nè dai privati. Che queste libertà esistano, ne sia prova il fatto che in Bologna si è stabilito un giornale clericale; e quantunque io non lo legga, credo ch’esso sia ultraclericale, e forse più violento ancora della nostra Armonia. (Ilarità.) Voi sapete pure che i prelati hanno potuto pubblicare le loro proteste non tutte formulate con quella moderazione che il santo ufficio che essi adempiono loro imporrebbe, e che non [p. 646 modifica]vennero per ciò molestati. Ebbene, malgrado questa libertà di cui godono le Romagne, si è forse manifestato qualche rimpianto del passato governo? Vi è una parte qualunque della popolazione che abbia desiderato l’antico regime? Ebbene (debbo confessarlo non solo a nome mio, ma anche de’ miei colleghi), qualche errore da noi commesso in quelle contrade ha egli prodotto alcuna causa fondata o no di malcontento: quel malcontento si traduce in qualche critica di questo o di quell’altro ministro, o forse anche dell’intero gabinetto, ma giammai nel panegirico degli antichi governanti. (Segni di assenso.) Quanto accadde nell’Umbria è più notevole ancora. Appena essa fu divelta dal dominio clericale, appena fatta libera, l’Umbria fu sgombrata assolutamente dalle nostre truppe. Necessità di guerra, considerazioni di alto momento, ci costrinsero ad appigliarci al partito, forse imprudente, di lasciare quella provincia senza un solo soldato regolare, di abbandonare quel paese alle proprie sue forze, alla sua guardia nazionale, ed ai generosi volontari che le sue città avevano spontaneamente somministrato. Eppure l’Umbria non diede il più lieve segno di lamentare il passato regime; e quantunque forse si avesse ragione di temere che colà, più che in altre provincie, vi fossero elementi di reazione clericale (giacchè il numero dei conventi era ivi, più che altrove, esuberante); quantunque gli eccitamenti d’ogni maniera venissero dalla vicina Roma per parte delle antiche autorità pontificie; ad onta di queste circostanze, l’Umbria godette della pace la più perfetta, nessun sentimento di reazione vi si manifestò nella popolazione; ed io oso dire persino che, se sull’altra sponda del Tevere non avesse sventolato il rispettato vessillo francese, probabilmente gli Umbri, lasciati a loro stessi, non avrebbero tardato a stendere la mano ai loro fratelli d’oltre Tevere, e ad attirarli nel seno della gran famiglia italiana, malgrado tutti gli sforzi dei neofiti cattolici mascherati da zuavi. (Ilarità e segni di approvazione.)

[p. 647 modifica]Forse (non certamente nel seno di questa Camera) niuno degli appassionati difensori del potere temporale mi potrà obbiettare, come prova dell’opposizione di delle popolazioni al nuovo regime, i disordini, i fatti luttuosi dell’Ascolano. Signori, io non sono il difensore del potere temporale del papa, ma credo dover mio il mostrarmi giusto ed imparziale a suo riguardo; e quindi non esito a dichiarare che io non ritengo nè il sommo Pontefice nè il suo ministro responsabili di quei fatti atroci, avvenuti in seguito allo sbandamento delle truppe borboniche. Questi fatti non provano già che gli abitanti li quel paese rifuggono da un governo liberale, ma che il mal governo clericale predispone i popoli al brigantaggio, quando accadono gravi sconvolgimenti politici. (Bravo! Bene!) Quindi, o signori, mi pare aver dimostrato e stabilito in modo incontrastabile esservi antagonismo assoluto fra la Santa Sede e le popolazioni.

Se questo antagonismo esiste, qual rimedio i fautori del potere temporale possono apportarvi, onde questo stato temporale sia una garanzia della indipendenza del potere spirituale? Io so che alcuni cattolici, più zelanti che illuminati, non rifuggono dal dire: il potere temporale essendo una necessità assoluta per la società cattolica, esso dev’essere assicurato, avere presidii di truppe somministrate da tutte le grandi potenze cattoliche, e con fondi versati nel tesoro pontificio, quando anche con questo metodo quei paesi debbano essere condannati a duro e perpetuo servaggio. Io non mi fermerò a confutare questi argomenti, degni non già di uomini professanti la santa religione di Cristo, ma piuttosto di coloro nel cui dogma religioso i sacrifizi umani erano considerati come mezzo opportuno a rendersi propizie le divinità! (Segni di approvazione.) Certo, o signori, non possono essere i seguaci della religione di Colui che sacrificò la vita per salvare l’umanità, quelli che vogliono sacrificare un intero popolo, che vogliono condannarlo ad un continuo martirio, per mantenere [p. 648 modifica]il dominio temporale del suo rappresentante su questa terra. (Bravo! Bene!)

Altri fautori del potere temporale, più moderati, più benevoli, dicono: ma è egli impossibile che il pontefice con riforme, con concessioni faccia scomparire l’antagonismo che ho sovra accennato, possa conciliarsi quel popolo sul quale impera? Come mai i principii che assicurano la pace e la tranquillità delle altre parti d’Europa, applicati nelle Romagne, nell’Umbria e nelle Marche, non produrranno gli stessi effetti? Ed essi insistono presso il pontefice, onde sia largo di riforme ai suoi popoli, nè si sgomentano delle ripulse, ma tornano a chiedere concessioni e riforme. Questi, signori, sono in un assoluto errore; chieggono al pontefice quello che il pontefice non può dare, perchè in lui si confondono due nature diverse, quella di capo della Chiesa e quella di sovrano civile; ma si confondono in modo che la qualità di capo della Chiesa deve prevalere a quella di sovrano civile. Ed infatti, se il dominio temporale è stato dato al pontefice per assicurare la indipendenza della sua autorità spirituale, evidentemente il papa deve sacrificare le considerazioni riguardanti il potere temporale a quelle relative agli interessi della Chiesa. Ora, quando domandate al pontefice di fare alla società civile le concessioni richieste dalla natura dei tempi e dal progresso della civiltà, ma che si trovano in opposizione ai precetti positivi della religione, di cui egli è sovrano pontefice, voi gli chiedete cosa che egli non può, non deve fare. Se assentisse a siffatta domanda, egli tradirebbe i suoi doveri come pontefice, cesserebbe di essere rispettato come il capo del cattolicismo. Il pontefice può tollerare certe istituzioni come una necessità; ma non può promulgarle, non può assumerne la responsabilità, non può dar loro l’autorità del suo nome. Io adduco un esempio. Il pontefice può tollerare in Francia il matrimonio civile, ma non può, rimanendo pontefice, dargli l’autorità del suo assenso, non lo può [p. 649 modifica]proclamare come legge dello Stato. Ciò che io affermo per il matrimonio civile, lo dico per un’infinità di altre istituzioni che, considerate al punto di vista meramente cattolico, si trovano in contraddizione con alcuni precetti, e che è oramai riconosciuto essere una necessità il tollerare. Quindi io non esito a dire: lungi dal fare al pontefice un rimprovero di aver costantemente rifiutato le riforme e le concessioni che da lui si chiedevano, questa sua, che non è ostinazione, ma fermezza, è, a mio avviso, a giudicarne da cattolico, un titolo di benemerenza. (Movimenti.) Di ciò io fui sempre convinto; ed io ebbi nella mia carriera molte volte a combattere contro coloro i quali di buona fede sostenevano la tesi che io ho ora esposta, contro quelli, cioè, che insistevano onde il papa accordasse riforme.

Io mi ricordo che al Congresso di Parigi altissimi personaggi ben disposti per l’Italia, e preoccupati specialmente delle anormali condizioni degli Stati pontificii, insistevano presso di me onde tracciassi loro le riforme da presentarsi alla Santa Sede, onde indicassi il modo con cui fossero applicate. In allora rifiutai di farlo, e proclamai altamente la dottrina che ho ora esposta, cioè l’impossibilità per il Papato di aderire ai consigli che gli si volevano dare; e sin d’allora, aiutato potentemente dal mio egregio amico il ministro Minghetti che ebbe parte principale a quei negoziati (e qui mi è grato avere l’occasione di rendergli la giustizia che gli si dee, e di attribuirgli quella larga parte di merito che mi si è voluto dare esclusivamente per ciò che si è compiuto a Parigi), ho dichiarato altamente che il solo mezzo di mettere le Romagne e le Marche in una condizione normale era quello di far sì che quei paesi potessero reggersi senza l’occupazione straniera, e di separare intieramente l’amministrazione di essi da Roma, di renderli civilmente, amministrativamente, finanziariamente indipendenti. S’io avessi poi bisogno d’avvalorare questa teoria presso quella classe numerosa [p. 650 modifica]d’uomini di buona fede che credono possibile la conciliazione dei grandi principii del progresso civile, dei grandi principii del 1789 col potere temporale, direi loro: tutti i vostri sforzi verranno a rompersi contro il principio del governo stesso. Io non attribuisco i mali di quei paesi alle persone che sono state destinate a governarli. Credo in verità, che, quando anche si fossero cambiati tutti gli antichi reggitori delle provincie soggette al dominio sacerdotale, quando si fossero destinati al governo delle medesime gli uomini più illuminati o liberali, dopo breve tempo le cose sarebbero tornate nello stato di prima. Finchè dura la riunione dei due poteri, la confusione dei medesimi, il mal governo saranno cose inevitabili. Non vorrei fare un paragone poco rispettoso; tuttavia reputo necessario indicare un fatto analogo. (Movimento di attenzione.) L’Europa da 20 anni si strugge per trovar modo d’operare una riforma nello Stato ottomano. Non v’è arte diplomatica, non v’è influenza che non siasi esercitata in questo senso; e, per essere giusto, dirò che molti, forse la maggior parte dei ministri ottomani sono dispostissimi ad operare queste mutazioni, a conciliare il vivere civile con le forme del loro governo. Io ho avuto l’onore di conoscere parecchi de’ più distinti uomini di Stato di quel paese, i quali mi hanno tutti maravigliato per la larghezza delle loro vedute, pel liberalismo de’ loro principii; eppure finora l’opera loro è rimasta quasi sterile; e perchè, o signori? Perchè a Costantinopoli, come a Roma, il potere spirituale e temporale sono confusi nelle stesse mani. Quindi, o signori, io credo non esservi verità più dimostrata di quella che ogni riforma nel governo temporale è impossibile. Ciò essendo, lo stato attuale di antagonismo fra la popolazione e il governo non può essere rimediato; e, non potendo esser rimediato, egli è evidente che il potere temporale non è una garanzia d’indipendenza pel pontefice. Ciò chiarito, mi pare che i timori dei cattolici dovrebbero dileguarsi; [p. 651 modifica]ora il papa non è veramente indipendente, se questo potere temporale non è per lui una garanzia, essi dovrebbero essere ormai molto meno teneri di questo potere temporale, di questa fallace garanzia. Ma io penso che, a convincere pienamente questa parte eletta del cattolicismo, sia necessario di provare che il papa sarà molto più indipendente, che potrà esercitare la sua azione in modo molto più efficace, quando, abbandoata la potestà temporale, avrà sancito una pace duratura dell’Italia sul terreno della libertà.

Se il potere temporale non assicura l’indipendenza della Chiesa, con quali mezzi, mi si dirà, volete voi assicurarla? Ciò vi è stato detto dall’onorevole Audinot in questa tornata prima di me, e me ne compiaccio. Noi riteniamo che l’indipendenza del pontefice, la sua dignità e l’indipendenza della Chiesa possono tutelarsi mercè la separazione dei due poteri, mercè la proclamazione del principio di libertà applicato lealmente, largamente, ai rapporti della società civile colla religiosa. Egli è evidente, o signori, che, ove questa separazione sia operata in modo chiaro, definito e indistruttibile; quando questa libertà della Chiesa sia stabilita, l’indipendenza del Papato sarà su terreno ben più solido che non lo sia al presente. Nè solo la sua indipendenza verrà meglio assicurata, ma la sua autorità diverrà più efficace, poichè non sarà più vincolata dai moltiplici concordati, da tutti quei patti che erano, e sono, una necessità finchè il pontefice riunisce nelle sue mani, oltre alla potestà spirituale, l’autorità temporale. Tutte quelle armi, di cui deve munirsi il potere civile in Italia e fuori diverranno inutili quando il pontefice sarà ristretto al potere spirituale. Epperciò la sua autorità, lungi dall’essere menomata, verrà a crescere assai più nella sfera che sola le compete. (Bravo!) Io credo che questo non ha bisogno di dimostrazione, e penso che ogni sincero cattolico, ogni sacerdote zelante per la religione di cui è ministro, deve preferire di molto questa libertà d’azione [p. 652 modifica]nella sfera religiosa, ai privilegi ed anche al potere supremo nella sfera civile. Se altrimenti fosse, converrebbe dire che quei sacerdoti, quei cattolici non sono di buona fede, e vogliono fare del sentimento religioso un mezzo di promuovere i loro temporali interessi. La difficoltà dunque sta in ciò; nè io penso che verun teologo assennato possa contestare questa verità. Bensì mi si dirà come assicurerete questa separazione, questa libertà che promettete alla Chiesa? A parer mio, essa si può assicurare in modo efficacissimo; la Chiesa troverà garanzie potenti nelle condizioni stesse delle popolazioni italiane, nelle condizioni stesse del popolo che aspira all’onore di conservare in mezzo a sè il sommo Capo della società cattolica. I principii di libertà da me accennati debbono, o signori, essere inscritti in modo formale nel nostro Statuto, debbono far parte integrante del patto fondamentale del nuovo regno d’Italia.

Ma non è questa, a mio avviso, la sola garanzia che la Chiesa può ottenere; la maggior garanzia sta nella indole, nella condizione stessa del popolo italiano. Il popolo italiano è eminentemente cattolico, il popolo italiano non ha mai voluto distruggere la Chiesa, ma volle solo che fosse riformato il potere temporale. Tali furono le opinioni dei più grandi, dei più arditi pensatori di tutti i secoli in Italia: Arnaldo da Brescia, Dante, Savonarola, Sarpi, Giannone, almeno per quanto si rileva da’ suoi scritti, tutti vollero la riforma del potere temporale, nessuno la distruzione del cattolicismo. Questa riforma è un desiderio ardente dell’Italia, ma quando esso sarà compiuto, io oso affermare che nessun popolo sarà più tenero, più tenace dell’indipendenza del pontefice, dell’assoluta libertà della Chiesa; questo principio di libertà, io lo ripeto, è conforme all’indole vera della nostra nazione, ed io porto fiducia che, quando le condizioni nostre siano prese ad attento esame dai più caldi fautori dell’indipendenza della Chiesa, saranno astretti a riconoscere la verità in quanto ho già [p. 653 modifica]proclamato, e dovranno ammettere che l’autorità del pontefice, l’indipendenza della Chiesa saranno molto meglio assicurate dal libero consenso di 26 milioni di Italiani, che da alcuni mercenari raccolti intorno al Vaticano, ed anche da truppe valorose ed amiche, ma pur sempre straniere. (Bravo.)

Ma, mi si dirà, voi manifestate delle speranze; i fatti però paiono poco conformi alla loro realizzazione. Voi vedete che ogni vostro tentativo di transazione, che ogni offerta di negoziati viene recisamente respinta. Io non credo opportuno, e la Camera approverà la mia riserva, di addentrarmi in minuti particolari delle nostre relazioni colla Corte di Roma; non esiterò però a riconoscere che finora nessun tentativo per aprire negoziati fu accolto da quella Corte; ma debbo altresì dichiarare che il momento per addivenire a trattative su quei larghi principii che io ho testè proclamati non era forse ancor venuto, e che quindi ci è lecito di nutrire fiducia che, quando le nostre intenzioni saranno chiaramente conosciute e giustamente apprezzate, le disposizioni della Corte di Roma potranno modificarsi e piegarsi a più miti consigli. Signori, la storia ci offre molti esempi di pontefici che, dopo avere scagliato i loro fulmini contro alcuni sovrani coi quali erano in urto, hanno poi stretta pace ed alleanza con essi. Voi ricorderete che in tempi nefasti per l’Italia, Clemente VII, dopo aver veduta la sua Roma invasa dalle truppe spagnuole e messa a sacco, dopo aver subìto ogni specie di umiliazione per parte di Carlo V, alcuni anni dopo lo sacrò nel tempio di San Petronio e strinse alleanza con lui, col funesto scopo di togliere la libertà a Firenze, sua patria. Ciò posto, o signori, non ci sarà egli lecito a sperare (con calore) che il mutamento che si operò nell’animo di Clemente VII, onde ridurre in servitù la sua terra natìa, non possa pure operarsi nell’animo di Pio IX, onde assicurare la libertà all’Italia e alla Chiesa? (Bene! Benissimo!) Ma e se [p. 654 modifica]ciò non si avverasse? (Segni d’attenzione.) Se, per circostanze fatali alla Chiesa e all’Italia, l’animo del pontefice non si mutasse, e rimanesse fermo nel respingere ogni maniera di accordo? Ebbene, o signori, non perciò noi cesseremo dal proclamare altamente i principii che qui ora vi ho esposti, e che mi lusingo riceveranno da voi favorevole accoglienza; noi non cesseremo dal dire che, qualunque sia il modo con cui l’Italia giungerà alla Città Eterna, sia che vi giunga per accordo o senza, giunta a Roma, appena avrà dichiarato decaduto il potere temporale, essa proclamerà il principio della separazione, ed attuerà immediatamente il principio della libertà della Chiesa sulle basi più larghe. (Bene! Bravo!) Quando noi avremo ciò operato; quando queste dottrine avranno ricevuto una solenne sanzione dal Parlamento nazionale; quando non sarà più lecito di porre in dubbio quali siano i veri sentimenti degl’Italiani; quando sarà chiaro al mondo che essi non sono ostili alla religione dei loro padri, ma anzi desiderano e vogliono conservare questa religione nel loro paese, che bramano assicurarle i mezzi di prosperare e di svilupparsi abbattendo un potere, il quale fu un ostacolo non solo alla riorganizzazione d’Italia, ma eziandio allo svolgimento del cattolicismo, io porto speranza che la gran maggioranza della società cattolica assolverà gl’Italiani, e farà cadere su coloro a cui spetta la responsabilità delle conseguenze della lotta fatale che il pontefice volesse impegnare contro la nazione, in mezzo alla quale esso risiede. (Applausi.) Ma, o signori, Dio disperda il fatale augurio! a rischio di essere accagionato di abbandonarmi ad utopie, io nutro fiducia che, quando la proclamazione dei principii, che ora ho fatta, e quando la consacrazione, che voi ne farete, saranno rese note al mondo, e giungeranno a Roma nelle aule del Vaticano, io nutro fiducia, dico, che quelle fibre italiane che il partito reazionario non ha ancora potuto svellere interamente dall’animo di Pio IX, queste [p. 655 modifica] fibre vibreranno ancora, e si potrà compiere il più grande atto che popolo mai abbia compiuto. E così sarà dato alla stessa generazione di aver risuscitato una nazione, e d’aver fatto cosa più grande, più sublime ancora, cosa, la di cui influenza è incalcolabile: d’avere cioè riconciliato il Papato coll’autorità civile; di avere firmata la pace fra la Chiesa e lo Stato, fra lo spirito di religione ed i grandi principii della libertà.

Sì, io spero, o signori, che ci sarà dato di compiere questi due grandi atti, i quali certamente tramanderanno alle più lontane posterità la benemerenza della presente generazione italiana. (Vivi applausi.)


2.

SUL MEDESIMO ARGOMENTO.

(Seduta della Camera, 27 marzo 1861.)


Mi corre l’obbligo di manifestare l’opinione del Governo del Re intorno alle varie proposte che sono state presentate alla Camera. Nello stesso tempo stimo mio debito di rispondere a vari rimproveri che mi furono diretti, e di dare alcune spiegazioni che mi vennero domandate. Credo che nell’esaminare le accennate proposte potrò compiere a questo duplice dovere e rispondere, se non a tutti, almeno alla massima parte di coloro che mi hanno rivolto la parola. Tuttavia io debbo dire sin da principio che escludo da queste risposte in gran parte l’onorevole deputato Ferrari. Non già che il suo discorso non sia stato perfettamente conveniente e parlamentare, ma, avendo egli trasportata la questione sul terreno delle discussioni teoriche, mi sarebbe difficile il seguirlo, e per difetto di cognizioni bastevoli, e perchè debbo specialmente occuparmi della parte pratica della questione. [p. 656 modifica]Tuttavolta vi sono due accuse, o rimproveri, che egli ha diretti a me ed al Gabinetto, a cui debbo una breve risposta. L’onorevole deputato Ferrari, valendosi d’una figura rettorica, ed accennando ad un nome che pareva che questa Camera non volesse udire,[3] ha soggiunto che non amava i cospiratori, neppur quando quelli che cospirano sono sul banco della presidenza. L’onorevole deputato Ferrari ha quindi voluto farmi l’onore di annoverarmi fra i cospiratori. (Si ride.) Io ne lo ringrazio, e colgo questa occasione per dichiarare alla Camera che fui per 12 anni un cospiratore. (Oh!) Sì, o signori, per 12 anni ho cospirato con tutte le mie forze; ho cospirato per giungere a procacciare l’indipendenza alla mia patria. Ma ho cospirato in un modo singolare; ho cospirato proclamando nei giornali, proclamando in faccia al Parlamento intero, proclamando nei Consigli d’Europa qual era lo scopo della mia cospirazione. Cospirai poi col cercare degli adepti, degli affigliati, ed ebbi a compagni tutto o quasi tutto il Parlamento Subalpino; ebbi poi adepti in tutte le provincie d’Italia; ebbi negli anni scorsi ad adepti e compagni quasi intiera la Società Nazionale, e in oggi io cospiro con 26 milioni d’Italiani. (Applausi.) L’onorevole Ferrari poi spiegò la politica delle annessioni in un modo singolare; egli vi disse, o signori: se il Ministero fa le annessioni, credete voi che sia per fare l’Italia? mai no; egli fa le annessioni come un ripiego politico, come uno stratagemma per evitare le difficoltà interne. Se egli ha fatto l’annessione di Parma, si è perchè nella Lombardia certe leggi del precedente Ministero non piacevano; se ha fatto l’annessione di Modena, è probabilmente per quei certi 33 centesimi contro i quali a Milano si è tanto gridato; se ha fatto l’annessione della Toscana, si è perchè non aveva il coraggio di sciogliere il [p. 657 modifica]problema del matrimonio civile; e forse se ora proclama che si andrà a Roma, è per differire la soluzione dell’arduo problema delle regioni. Ecco in qual modo l’onorevole deputato Ferrari giudica la politica del Ministero: l’argomento è ingegnoso e spiritoso assai; ma, in verità, mi conceda che io lo consideri come non molto solido. Il suo ragionamento rassomiglia a quello che un soldato che abbia trascorso una lunga carriera nelle caserme senza mai prender parte a nessuna guerra, facesse a quel capitano fortunato che, inseguendo rapidamente l’inimico, fosse costretto a non curare i particolari del servizio militare, e gli dicesse: ma badate che la vostra armata non è perfettamente in tenuta, che la più parte dei soldati sono laceri, che le armi non sono perfettamente pulite; il vostro materiale non è completo. Il generale non vi baderebbe; esso, quand’anche, ritornando, dopo aver compiuto grandi gesta, mostrasse a’ suoi concittadini le sue truppe lacere, i suoi battaglioni scemati, io credo che non ne riporterebbe meno l’approvazione universale. (Bravo! Bene!) Ciò detto, mi permetta l’onorevole Ferrari che io prenda commiato da lui, ed un cortese commiato, come cortesi furono i rimproveri che esso mi rivolse nella tornata d’ieri.

Ora vengo all’esame degli ordini del giorno.

Tre ne furono presentati nella tornata di ieri: uno dal deputato Greco, un altro dal deputato Bon-Compagni; oggi ne fu presentato uno dal deputato Levi. Poi ce n’è un altro del deputato Petruccelli, ma questo si confonde, credo, con quello del deputato Ricciardi. Comunque sia, esaminati i tre ordini del giorno di ieri, e i due ordini del giorno d’oggi, mi pare che concorrano tutti nel pensiero finale; tutti sono concordi nel volere che si acclami Roma come capitale d’Italia, che si solleciti il Governo ad adoperarsi, onde questo voto universale abbia il suo compimento. Ma siami concesso di dichiarare che, tanto per la forma, quanto per la [p. 658 modifica]sostanza, nessuno di quei voti motivati riassume, a mio giudizio, in modo più conciso e più preciso dell’ordine del giorno Bon-Compagni le idee esposte così lucidamente dall’onorevole interpellante, accolte senza riserva dal Ministero, e che furono tanto favorevolmente ascoltate da questa Camera. L’ordine del giorno Bon-Compagni è, in certo modo, una risposta completa alle interpellanze dell’onorevole Audinot. Nella dimostrazione di tale mio asserto io darò quelle ulteriori e maggiori spiegazioni che da vari oratori mi vennero domandate. L’onorevole deputato Audinot chiedeva recisamente di conoscere quale fosse l’opinione del Governo, quali fossero i suoi principii rispetto alla questione romana. A questo io risposi precisamente come risponde l’ordine del giorno Bon-Compagni. Io dichiarai dover esser Roma la capitale d’Italia; l’ordine del giorno Bon-Compagni acclama questa verità. Io dissi che Roma doveva essere capitale d’Italia, e che ciò doveva essere proclamato immediatamente. Questa mia asserzione diede occasione all’onorevole deputato Chiaves di muovermi, in uno splendidissimo discorso, due appunti. Trovò primieramente la dichiarazione inopportuna; trovò, in secondo luogo, la dichiarazione troppo esplicita, e reputò necessario interpellarmi sul modo nel quale il Governo intenderebbe mandare ad effetto questo traslocamento della capitale. L’onorevole deputato Chiaves reputò che questa dichiarazione così precisa possa produrre incagli all’andamento delle pratiche che il Governo dovrà fare per giungere alla soluzione della quistione di Roma. Egli crede che ragioni di prudenza avrebbero dovuto consigliare al Governo di promuovere l’immediata annessione di Roma all’Italia, non perchè Roma debba essere la sua capitale, ma per ragione di giustizia, di umanità, dei grandi principii. L’onorevole Chiaves, mi permetta di dirgli che egli qui cade in grandissimo errore; io tengo per fermo che, se noi non potessimo [p. 659 modifica]valerci di questo potentissimo argomento, che Roma è la capitale necessaria d’Italia, che, senza che Roma sia riunita all’Italia come sua capitale, l’Italia non potrebbe avere un assetto definitivo, la pace non si potrebbe considerare come definitivamente assicurata, non si otterrebbe il consenso del mondo cattolico e di quella potenza che crede dovere o potere rappresentare più specialmente il mondo cattolico, alla riunione di Roma all’Italia. Io, per provarvelo, farò un’ipotesi: supponete che la città ove risiede il sommo pontefice, invece d’essere a Roma, nel centro dell’Italia, in quella città dove tante memorie storiche si trovano riunite, fosse invece in una città collocata sui confini della Penisola, in una città cospicua bensì, ma alla quale nessuna grande memoria storica fosse associata; supponete che, risorta l’antica ed anche clericale Aquileia, il pontefice ponesse quivi la sua sede; credete voi che sarebbe facile l’ottenere il consenso delle potenze cattoliche alla separazione del potere temporale in quell’angolo di terra italiana? No, o signori: io so che si potrebbe far valere rispetto a quella potenza il principio del non intervento ed il principio del diritto che i popoli hanno di manifestare la loro opinione, tutti insomma i grandi principii sui quali riposa il diritto internazionale. Ma i diplomatici vi risponderebbero che in politica non vi è niente di assoluto, che tutte le regole patiscono eccezione, che noi non intendiamo applicare in modo assoluto a tutte le parti d’Italia il principio della nazionalità; e quindi come consentiamo che Malta rimanga agl’Inglesi, dobbiamo consentire che una terra non necessaria alla costituzione d’Italia rimanga sotto il dominio del papa.

Ci si direbbe che l’interesse italiano, essendo d’ordine secondario, non deve prevalere all’interesse generale dell’umanità; ed io accerto l’onorevole Chiaves che contro questi argomenti verrebbero a frangersi tutte le più belle dissertazioni fatte in nome dei [p. 660 modifica]principii di diritto e che quindi il ministro degli Affari Esteri, quand’anche avesse la sorte di avere il sussidio i tutti i professori di diritto internazionale, non giungerebbe a convincere i diplomatici con cui dovrebbe trattare, e che, se la questione fosse così posta, diverrebbe insolubile colle negoziazioni. So bene che allora si potrebbe pensare ad adoprare l’argomento dei cannoni; ma siamo tutti d’accordo che nelle attuali circostanze a questo argomento si deve rinunziare. Quindi io ripeto che il proclamare la necessità per l’Italia di avere Roma per capitale non solo è cosa prudente ed opportuna, ma è condizione indispensabile del buon esito delle pratiche che il Governo potrà fare per giungere alla soluzione della questione romana.

Mi rimane ad esaminare la seconda obbiezione dell’onorevole Chiaves, che cioè sia pericoloso il dichiarare che la capitale deve essere trasportata a Roma. Se io volessi interpretare troppo letteralmente il suo discorso, e massime ciò che ha detto sulla necessità di preparare Roma all’alto ufficio di capitale d’Italia, dovrei supporre che l’onorevole Chiaves voglia che si faccia l’educazione del popolo romano prima che questo trasferimento si faccia, cioè che si abbia a differire di una o due generazioni questo trasferimento. Ora, il differire cotanto questo trasferimento sarebbe per me peggio che il rinunciare, od almeno il rinunciare a dichiarare sin d’ora la necessità di trasportare la capitale a Roma. Io certamente non intendo colla dichiarazione che ho fatto di vincolare il Ministero circa il modo ed il tempo di operar questo trasferimento, quando le circostanze ci consentissero farlo. Non intendo che la Camera, votando l’ordine del giorno del deputato Bon-Compagni, cioè acclamando Roma per capitale d’Italia, obblighi nel primo giorno che Roma sarà libera di partire immediatamente per andare a sedere in non so qual palazzo di Roma. (Ilarità.) Egli è evidente che il trasferimento della capitale, quando [p. 661 modifica]possa farsi, dovrà essere l’oggetto, non solo di una determinazione del Ministero, ma di un voto del Parlamento. Non è in facoltà del potere esecutivo di trasferire la capitale del regno, e quindi in allora il Ministero avrà l’obbligo di esaminare tutte le difficoltà che il trasferimento presenterà, di proporre il modo di vincerle, di prendere ad esame se le condizioni dell’Italia e dell’Europa rendessero opportuno di differire per qualche tempo. Starà poi al Parlamento di deliberare in ultimo appello sulla sua proposta, ed è in allora che l’onorevole deputato Chiaves potrà proporre quei temperamenti che crederà richiesti dall’interesse generale.

La questione della possibilità di differire per lungo periodo di tempo il trasferimento della capitale a Roma essendo stata sollevata, mi credo in obbligo di aggiungere un solo argomento. Si sono svolte dai precedenti oratori, con parole così eloquenti, tante ragioni onde provare la necessità del trasferimento della capitale in Roma, che io non aggiungerò che un argomento della natura di quelli che i matematici dicono ad absurdum, il quale consiste nel supporre verificata l’ipotesi dei nostri avversari e quindi dedurne le conseguenze. Per dimostrare quali conseguenze funeste potrebbero nascere, se il trasferimento della capitale in Roma non si operasse subito che gli ostacoli insormontabili che esistono in ora, saranno scomparsi, io suppongo quell’epoca già venuta, e Roma riunita all’Italia, ma non fatta la sua capitale. Io non posso a meno di prevedere che, finchè la questione non avesse ricevuta una soluzione definitiva, oppure ( se la soluzione non è definitiva) finchè il principio fosse affermato e che la sua non immediata applicazione fosse giustificata da motivo impellente, io dico che, finchè la questione fosse tenuta in sospeso per motivi anche di qualche importanza, ma non supremi, l’Italia tutta sarebbe in uno stato di agitazione e di lotta. Vi sarebbe una lotta [p. 662 modifica]vissima fra coloro che vogliono andar a Roma immediatamente e coloro che vorrebbero ancora differire il traslocamento della capitale; e se in questo stato di lotta accadesse, che all’occasione della riunione del Parlamento, 180 o 200 deputati dell’Italia meridionale, avviati verso l’antica capitale, si trovassero riuniti per caso sulla piazza dell’antica metropoli del mondo, non sarebbe egli da temere che una forza occulta, ma quasi irresistibile, impedisse a quei deputati di proseguire la loro via? Io confesso che questa idea mi commove alquanto, e che non potrei vedere senza qualche apprensione una tale eventualità. Prego l’onorevole Chiaves a volerci riflettere sopra; forse dopo ciò consentirà meco che, meglio sarà quanto più presto si potrà andare a Roma; ben inteso, senza mettere in pericolo la sicurezza dello Stato, senza rendere più malagevole l’ultima fase del risorgimento italiano, senza sconvolgere il Governo; ben inteso, infine, che questo trasferimento si faccia con tutta quella gravità e ponderatezza che un affare così grande richiede. Io spero che, ciò ammesso, l’onorevole Chiaves converrà con me, che, quanto più presto si farà, tanto meglio sarà per l’Italia. Sulla questione di Roma quindi mi pare che l’ordine del giorno Bon-Compagni, che acclama Roma come capitale, corrisponda pienamente ai sentimenti manifestati da tutti gli oratori in questa Camera.

Fin qui il mio assunto è facile: ora eccomi di nuovo di fronte alla difficoltà che ho incontrata nella penultima tornata, quando ho dovuto parlare dei mezzi per andare a Roma. L’onorevole Audinot mi parve soddisfatto delle spiegazioni che ho date, e l’ordine del giorno Bon-Compagni riassumendole, in qualche modo gli darebbe la sanzione della Camera. Io dissi quale era il sistema che il Governo intendeva seguire per isciogliere la questione romana, ed io credo che ciò specialmente desiderava di conoscere l’onorevole deputato Audinot. Certo non penso che l’onorevole deputato [p. 663 modifica]Audinot intendesse che io venissi alla Camera a raccontare i particolari delle negoziazioni che esistono o potrebbero esistere, sia a Roma che a Parigi, per isciogliere le gravi difficoltà che questo problema presenta; non credo che egli intendesse che io venissi a comunicarvi i dispacci ufficiali e confidenziali. Certamente rispetto ai dispacci confidenziali l’onorevole deputato Petruccelli non vorrebbe che io ne facessi parola alla Camera, non vorrebbe che io venissi a dire: ho scritto una lettera confidenziale a Roma, onde cercar che si parli al teologo A, al monsignor B; ho scritto a persone influenti, onde cercare di influire sull’opinione pubblica romana. Riguardo alla comunicazione dei dispacci officiali, ho già manifestato la mia opinione l’altro giorno; ma poichè venni ricondotto su questo terreno, vorrei palesare un segreto alla Camera (Ilarità), un segreto molto mal custodito, per cui credo che molti di voi ne siano istrutti al par di me.... Allo stato attuale delle cose, nel modo con cui si trattano gli affari oggidì, i dispacci officiali spargono molto poco lume sui negoziati; che volete? Dopo che l’uso si è introdotto in quasi tutti i Governi, e parlamentari ed anche non parlamentari, o di comunicare alle Camere o di far pubblici sui giornali i dispacci degli agenti diplomatici, questi dispacci hanno perduto molto del loro valore, questi dispacci ormai consistono nel riassumere dei fatti più o meno compiuti. Altre volte, quando questi dispacci non dovevano vedere la luce che dopo la morte di chi li aveva scritti, in allora gli affari si facevano per mezzo di note da comunicarsi, da leggersi; di note verbali, e di tutte quelle armi che l’arsenale della diplomazia racchiude. Quando si scrive un dispaccio, ed io ne ho scritto molti, debbo dire che si è meno preoccupato dell’influenza che questo dispaccio farà sulle persone alle quali è diretto, che non dell’effetto che dee produrre sul pubblico europeo, il quale dovrà giudicarne fra breve. È alquanto umiliante per un ministro degli [p. 664 modifica]Affari Esteri il dichiararlo, ma i dispacci pubblici hanno in generale, più che altro, del carattere d’un articolo da giornale. È vero che la diplomazia trova qualche compenso in ciò, che spesse volte i discorsi fatti dagli uomini politici sono, anzi che discorsi parlamentari, note diplomatiche. Ma, se il Ministero non vi ha fatto palese lo stato delle negoziazioni, se negoziazioni vi sono, il Ministero ha indicato, nel modo più chiaro, più preciso, i principii della sua politica, vi ha indicato come intenda applicarli; il Ministero vi ha detto che egli crede sciogliere la questione romana col far convinta la parte di buona fede della società cattolica, che la riunione di Roma all’Italia non reca pregiudizio di sorta all’indipendenza della Chiesa; i Ministero vi ha detto che, quando questa sua opinione fosse accolta dalla parte sana della società cattolica, l’accordo colla Francia, che in ciò rappresenta e crede dover rappresentare la società cattolica, sarebbe più facile; che, quando la parte sana della società cattolica fosse convinta, e l’accordo colla Francia fosse stabilito, vi sarebbe argomento da sperare che il pontefice stesso riconoscerebbe la verità della nostra dottrina; e che, quando il pontefice non la riconoscesse, la responsabilità degli atti che potrebbero seguire non ricadrebbe sopra di noi. Mi pare impossibile il formolare in modo più schietto questo programma, che venne perfettamente riassunto dall’ordine del giorno del deputato Bon-Compagni. Nè, o signori, si dica che io mi faccio illusioni. Ormai, o signori, mi pare che la questione dell’indipendenza del sovrano pontefice, fatta dipendere dal potere temporale, sia un errore dimostrato matematicamente ai cattolici di buona fede, ai quali si dirà: il potere temporale è garanzia d’indipendenza quando somministra a chi lo possiede armi e denari per garantirla; ma quando il potere temporale d’un principe, invece di somministrargli armi e denari, lo costringe ad andar a mendicare dalle altre potenze armi e [p. 665 modifica]denari, egli è evidente che il potere temporale è un argomento non d’indipendenza, ma di dipendenza assoluta. (Bravo!) L’uomo che vive tranquillo a sua casa, che non ha nè debiti nè nemici, mi pare mille volte più indipendente d’un ricchissimo proprietario di latifondi, che ha sollevato contro di sè l’animo di tutti i suoi contadini, e che non può escire se non circondato da bersaglieri e soldati. (Bravo! Bene!) Mi pare quindi che noi dobbiamo avere l’assenso dei cattolici di buona fede su questo punto.

Rimane a persuadere il pontefice che la Chiesa può essere indipendente, perdendo il potere temporale. Ma qui mi pare che, quando noi ci presentiamo al sommo pontefice, e gli diciamo: Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia d’indipendenza; rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche; di questa libertà voi avete cercato strapparne alcune porzioni per mezzo di concordati, con cui voi, o Santo Padre, eravate costretto a concedere in compenso dei privilegi, anzi, peggio che dei privilegi, a concedere l’uso delle armi spirituali alle potenze temporali che vi accordavano un po’ di libertà; ebbene, quello che voi non avete mai potuto ottenere da quelle potenze, che si vantavano di essere i vostri alleati e vostri figli divoti, noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero Stato. (Bene!) I vostri amici di buona fede riconoscono come noi l’evidenza, riconoscono cioè che il potere temporale, quale è, non può esistere. Essi vengono a proporvi delle riforme, che voi qual pontefice non potete fare; vengono a proporvi di promulgare degli ordini nei quali vi sono dei principii che non si accordano colle massime di cui dovete essere il custode; e questi vostri amici insistono sempre e continuano a rimproverare la vostra ostinazione: voi opponete pertinace [p. 666 modifica]resistenza, e fate bene; io non vi biasimo, quando a coloro che vi rimproverano di non avere un esercito fondato sulla coscrizione, rispondete che non potete imporre il celibato coattivo a giovani dai 20 ai 25 anni, in quell’età, cioè, delle più forti passioni, io non vi rimprovero; quando negate di proclamare voi la libertà religiosa, la libertà d’insegnamento, io vi comprendo. Voi dovete insegnare certe dottrine, e quindi non potete dire che sia bene che si insegni da tutti ogni specie di dottrina; voi non potete accettare i consigli dei vostri amici di buona fede, perchè essi vi chieggono quello che non potete dare, e siete costretto a rimanere in questo stato anormale di padre dei fedeli, obbligato a mantenere sotto il giogo i popoli con delle baionette straniere, oppure ad accettare il principio di libertà, lealmente, largamente applicato nella nazione primogenita della razza latina, nel paese dove il cattolicismo ha la sua sede naturale. A me pare, o signori, essere impossibile che questo ragionamento, questa proposta fatta con tutta sincerità, con tutta lealtà, non venga favorevolmente accolta. Che queste nostre proposte siano sincere, non può esser messo in dubbio. Io non parlo delle persone; tuttavia io potrei ricordare a quelli fra i miei colleghi, che facevano parte degli altri Parlamenti, io potrei ricordare che fino dall’anno 1850, pochi giorni dopo essere stato assunto a membro del Consiglio della Corona, io francamente proclamava questo principio, quando respingeva la proposta d’incamerare i beni del clero e di renderlo salariato e dipendente dallo Stato. Io ricorderò, a sostegno della sincerità delle nostre proposte, che esse sono conformi a tutto il nostro sistema. Noi crediamo che si debba introdurre il sistema della libertà in tutte le parti della società religiosa e civile; noi vogliamo la libertà economica; noi vogliamo la libertà amministrativa; noi vogliamo la piena ed assoluta libertà di coscienza; noi vogliamo tutte le libertà politiche compatibili col mantenimento [p. 667 modifica] dell’ordine pubblico; e quindi, come conseguenza necessaria di quest’ordine di cose, noi crediamo necessario all’armonia dell’edifizio che vogliamo innalzare, che il principio di libertà sia applicato ai rapporti della Chiesa e dello Stato. (Bene!) Io spero che queste mie dichiarazioni avranno soddisfatto l’onorevole Boggio, e sono lieto di trovarmi ora particolarmente d’accordo con lui, come già lo era teoricamente, quando egli pubblicava un pregevole scritto sulle relazioni della Chiesa e dello Stato.

Queste verità saranno accolte dalla pubblica opinione, e, senza poter prevedere il tempo che si richiederà, onde queste opinioni acquistino una potenza irresistibile, io penso non farmi illusione dichiarando che in un secolo in cui anche nel mondo intellettuale si fa uso della locomotiva, queste idee non tarderanno ad essere generalmente accolte. Quando ciò accadrà, come già dissi, il concerto colla Francia sarà facile. Io spero che, realizzate queste due condizioni, convinti i cattolici, ottenuto il concerto colla Francia, vi sarà modo d’intendersi col Santo Padre. Io non voglio prevedere il caso dell’impossibilità dell’accordo, ma io penso che, quando quest’impossibilità non provenisse da noi, non ci sarebbe imputata, ed anche in quell’ipotesi, Roma potrebbe essere unita all’Italia, senzachè ne seguissero fatali conseguenze per noi e per la Chiesa. Comunque poi sia, o signori, egli è evidente che, onde raggiungere questo scopo così importante e glorioso, è necessario che il Governo sia investito di tutta la maggior forza morale possibile. Egli è perciò che io mi permetterei di fare appello ai vari autori degli ordini del giorno deposti sul banco della Presidenza, ordini del giorno che, a quanto mi pare, non differiscono fra loro nella sostanza, e li pregherei di accettar tutti l’ordine del giorno proposto dal deputato Bon-Compagni, che in termini così precisi, così espliciti acclama Roma come capitale dell’Italia; e dichiara che, nello stesso tempo [p. 668 modifica]che Roma si riunisce all’Italia, si deve assicurare la indipendenza, la dignità, il decoro del pontefice, e che bisogna assicurare la piena, l’assoluta libertà della Chiesa, e riconosce nello stesso tempo la necessità del concerto colla Francia. Se dunque i vari ordini del giorno proposti dagli onorevoli preopinanti non si scostano da questo nella sostanza, non dividiamoci su que stioni secondarie e massime su questioni di forma; riuniamoci tutti in un solo concetto, in un solo pensiero. Votate, o signori, quest’ordine del giorno, per darci la forza di vincere le difficoltà che vi abbiamo indicate; votatelo unanimi, e con ciò ci sarà forse dato di conseguire in un non lontano avvenire uno dei più gran risultati che siansi mai verificati nella storia dell’umanità, di conseguire la riconciliazione del Papato e dell’Impero, dello spirito di libertà col sentimento religioso. Io confido, o signori, nell’unanimità dei vostri voti. (Applausi.)



3.

SUL MEDESIMO ARGOMENTO.

(Seduta del Senato, 5 aprile 1861.)


Signori Senatori. All’annunzio delle interpellanze fattomi in una tornata degli ultimi giorni della scorsa settimana, io mi sentii alquanto sgomentato, giacchè io temeva che per parte dell’onorevole interpellante[4] si volessero richiedere dal Ministero spiegazioni sugli eventi accaduti dopo la solenne discussione che ebbe luogo in un altro recinto, oppure nozioni sopra i fatti che avrebbero potuto compiersi nel breve periodo di tempo che ci separa dalla ricordata discussione. Ma il discorso pronunciato testè dall’onorevole oratore mi [p. 669 modifica] prova che tale non era la sua intenzione, e che, apprezzando al giusto loro valore le difficoltà che circondano il Governo del Re, egli si asteneva con savia prudenza di fare al medesimo domande che lo potessero porre in imbarazzo, e si limitava a chiedergli nuove e solenni dichiarazioni sui principii della sua politica, in conferma, in certo modo, di quelle che furono accolte così favorevolmente, oso dire, e dai rappresentanti della nazione e dalla nazione stessa. Ottimo fu il pensiero che inspirò l’onorevole interpellante; giacchè, o signori, se lo scopo, a cui noi dobbiamo mirare è grande, determinato e in certo modo non suscettibile di essere discusso, i mezzi per raggiungerlo sono di difficile attuazione.

La Camera dei deputati ha riconosciuto, e voi il riconoscerete, io spero, assieme coll’onorevole interpellante, che noi non possiamo adoperare se non mezzi morali; che mal si addirebbe a noi di arrivare nella sede del cattolicismo come conquistatori; che sarebbe per l’Italia grave pericolo il mettere in fuga il pontefice. Il preopinante quindi non desiderava che la conferma dei principii, a cui egli mi pare faccia adesione: solo aggiunse nuove considerazioni per avvalorare quelle che furono in altro recinto sviluppate. Egli conchiudeva la sua orazione dicendo molto opportunamente che la questione di Roma si collega strettamente con quella di Napoli, e che collo sciogliere la prima si darà alla seconda una completa soluzione. Sì, o signori, la questione romana, considerata anche sotto questo aspetto, acquista ancora una maggiore importanza. La sua soluzione ha un’importanza immensa e dal lato delle nostre relazioni politiche all’estero e da quello dell’interna politica. Importa sommamente, come diceva l’onorevole senatore Vacca, che Roma cessi dall’essere il ricovero di tutti i nemici d’Italia e della causa della libertà: importa sommamente che Roma non sia più il centro da cui si spargono le cospirazioni, le congiure. [p. 670 modifica]Importa sommamente che da Roma non partano più gli emissari mandati con ogni mezzo a suscitare disordini nelle provincie nuovamente riunite al Regno. Ma importa altresì alla consolidazione della pace dell’Italia e dell’edifizio che vi abbiamo fondato, massimamente alla completa fusione morale delle nobili ed interessanti provincie meridionali, che cessi l’antagonismo che regna fra la Chiesa e lo Stato.

Non vi ha dubbio che questa specie di antagonismo, il quale non si può, a mio credere, apporre a colpa del Governo, serve ai partiti estremi a Napoli, serve ai malcontenti, agli ambiziosi per creare gravi difficoltà al Governo, per mantenere l’agitazione nel paese. E quindi io mi associo pienamente all’onorevole senatore Vacca per proclamare che la soluzione della questione di Roma è necessaria a dare un assetto definitivo, ad assicurare la pace in modo indestruttibile nelle provincie meridionali del Regno.

Non vorrei trattare per incidente la questione napoletana, e quindi non seguirò su questo terreno l’onorevole interpellante, il quale parmi essersi ristretto a metterla avanti onde dimostrare maggiormente la necessità di promuovere con tutti i mezzi la soluzione della questione di Roma. Tuttavia io gli dirò che accetto i consigli che egli dà al Governo, ma nel modo seguente. Credo sia dovere del Governo di usare di tutti i mezzi che gli dà la Costituzione onde far rispettata nelle provincie meridionali la legge, onde combattere vigorosamente i partiti estremi, sia che essi si ammantino di nero, sia che si ammantino di rosso. Confido che colle armi legali il Governo potrà ricondurre l’ordine e la pace in quelle provincie. Non già che io speri, nè che si possa sperare, di far sparire immediatamente le traccie degli antichi partiti; e chi nutrisse tale fiducia mostrerebbe di sconoscere l’indole delle rivoluzioni, nè terrebbe conto degli insegnamenti della storia. Difatti noi vediamo, o signori, che [p. 671 modifica]ogni qualvolta un grave cambiamento succede, sia pur questo prodotto da cause nobili, generose e legittime, ne rimane una grave perturbazione nella società. Il nuovo Governo, i principii più salutari, più illuminati ben possono a poco a poco acquietare tale perturbazione, ma il concorso del tempo è inevitabile.

L’Inghilterra compì nel 1688 una gloriosa rivolune, la quale ebbe per effetto di far trionfare il principio della libertà senza che trascorresse nei disordini dell’anarchia. Eppure dovette lottare oltre 60 anni contro gli antichi partiti. Il nostro rivolgimento non fu così grave, quanto quello che si compì in Inghilterra. Noi lo abbiamo compito in nome di più grandi principii, cioè non solo a nome della libertà, ma altresì a quello della nazionalità. Quindi io non esagero le difficoltà e i pericoli; non credo che si richiederanno 60 anni per far scomparire i partiti ostili dalla superficie delle provincie meridionali. Ma se non si richiederanno 60 anni, si richiederanno certamente più di sei mesi che sono trascorsi dal giorno fortunato in cui Re Vittorio Emanuele era accolto nelle mura di Napoli fra gli applausi delle popolazioni. Spero, ripeto, che con i mezzi legali noi giungeremo a far rispettare le leggi, a ristabilire la pace. Ma se per avventura noi andassimo errati, verremmo al Parlamento, non a chiedere la dittatura nè i pieni poteri, ma quei provvedimenti speciali e determinati che fossero consigliati dalla necessità del tempo. Noi seguiremmo l’esempio ricordato dall’onorevole senator Vacca; faremmo come i ministri inglesi appartenenti al partito più liberale, chiedendovi tale e tale altra modificazione alle leggi nostre penali. Ma, ripeto ancora, io spero e spero fermamente che non saremo condotti a questa estremità. Certamente le parole pronunziate in questo ed in altro recinto, l’opinione unanime manifestata dai rappresentanti di quelle provincie, quella invocazione quasi universale fatta al Governo di adoprar forza ed energia, [p. 672 modifica]aumenterà la forza e l’energia nelle mani del Governo. Ma fra tutti i mezzi, il più efficace senza dubbio sarebbe la soluzione della questione romana, giacchè si toglierebbe ai partiti se non il loro stato maggiore, certamente il loro esercito.

Non vi dirò come io intenda la soluzione della questione romana; già lo dichiarai solennemente in un altro recinto, e or poco fa l’onorevole senatore Vacca lo ripetè con parole autorevoli e gravi. Vi dirò bensì che le speranze da me manifestate in altra occasione non sono scemate. Certo non posso dirvi, o signori, che in così breve spazio di tempo le opinioni poste avanti la prima volta a nome del Governo abbiano fatto molte conquiste; ma però hanno fatto progressi; il principio solennemente proclamato della separazione della Chiesa dallo Stato, della libertà della Chiesa è stato accolto e nel paese e fuori molto favorevolmente da tutte le frazioni del partito liberale, anche da quelli che si preoccupano specialmente degli interessi conservatori. Questo è un gran fatto; ma ciò non basta a giungere ad una soluzione; bisognerà non solo renderci favorevoli le opinioni liberali, ma è forza altresì che la parte moderata e illuminata della società cattolica riconosca la grande verità di questo principio; accetti il grande principio della libertà. E qui, o signori, si incontrano molte difficoltà, gravi ostacoli: ma ciò deve forse destare meraviglia? Deve forse sfiduciarci? No, o signori, il principio di libertà non può essere accolto dalla società cattolica senza esitanza, senza risvegliare certi dubbi e timori. Ed in verità, o signori, come ciò potrebbe essere altrimenti? È forse la prima volta che una grande nazione cattolica si rivolge risolutamente alla Chiesa offrendole la libertà piena ed intera in contraccambio di sacrifizi d’interesse temporale. Il principio della libertà religiosa da applicarsi ad una società cattolica (mi si permetta il dirlo) è nuovo nel mondo. Forse la Chiesa cattolica non si è mai trovata a fronte [p. 673 modifica]di una società cattolica proclamante il principio di libertà. Che dico di una società cattolica? non si è forse mai trovata a fronte di un’altra società, che le offrisse quello che le offriamo noi.

Ho detto e lo ripeto, il principio della libertà religiosa è recente in questo mondo. Non ho bisogno per dimostrarlo di risalire ai primi secoli del cristianesimo dove la Chiesa fu a vicenda perseguitata e persecutrice. Egli è certo che del principio di libertà non vi era traccia nei tempi di mezzo, ma nemmeno all’epoca delle grandi riforme. I potenti riformatori del XVI secolo non combatterono la Chiesa cattolica in nome della libertà religiosa, ma vollero sostituire ad una dottrina un’altra, la quale dava forse una parte più larga alla ragione individuale. I riformatori di Germania, Calvino, Lutero, Zwinglio, ec. ec., non riconoscevano il dogma della libertà religiosa più che non lo riconoscessero Clemente VII e Paolo V. E invero, o signori, osservate le società dove il principio delle riforme si è mantenuto in tutta la sua forza, e vedrete che nemmen ora il principio della libertà religiosa trova la piena applicazione. Anche ne’ paesi dove esso è stato posto in luce dalla civiltà moderna, voi lo vedrete ancora di quando in quando in lotta col principio della riforma. Nella Svezia dove questo principio è stato conservato nella sua purezza, sono in vigore leggi penali contro i cattolici; e un sovrano illuminato e liberale operò sforzi inutili per riformare quella legislazione. Negli altri paesi ove questo principio acquistò una forza preponderante, di quando in quando trovate traccie dell’antico principio della riforma. Mi basterà il citarvi l’Inghilterra dove le leggi politiche contro i cattolici durarono fino al primo quarto del secolo presente, e dove dieci anni or sono il partito liberale spaventato da una Bolla del sommo pontefice che creava dei semplici titoli, fece adottare dal Parlamento un bill penale per colpire di una emenda di 100 lire sterline l’accettazione di uno [p. 674 modifica]di tali titoli. Dunque non è da stupire se la Chiesa, se il cattolicismo accoglie con tanta diffidenza un principio che negli stessi Stati protestanti non ha ancor ricevuto la sua intera applicazione.

Ma un altro motivo esiste che spiega la diffidenza, il timore che suscita nella Chiesa la proposta di applicare largamente questo principio. Abbiamo visto, pur troppo, spesse volte, i partiti liberali, dopo aver combattuto per ottenere la distruzione degli antichi sistemi, per conquistare in nome della libertà un principio, conseguito il trionfo, fare uso del principio stesso, per opprimere coloro contro i quali avevano combattuto. Noi abbiamo visto, per esempio, in Francia nel secolo scorso, quegli uomini illustri, quei benefattori dell’umanità che fecero trionfare nell’assemblea costituente i principii, che direi la carta magna della società moderna, i principii dell’89, un anno dopo, nel 1790, applicare al clero un decreto improntato dallo spirito di dispotismo: abbiamo visto un anno dopo imporre una costituzione civile al clero in opposizione assoluta ai grandi principii della libertà della Chiesa: abbiamo visto usurpare i diritti del sommo pontefice, negare ai papi il diritto di investitura, e richiedere dai membri del sacerdozio un giuramento contrario alla loro coscienza. Tali fatti, o signori, e molti altri spiegano fino ad un certo punto questa esitazione, questo timore della Chiesa; e mi spiegano eziandio come l’episcopato francese, il quale in generale non conosce l’Italia e ne giudica dalle relazioni inesattissime e potrei dire mendaci, calunniose dei giornali ultra clericali, vegga con un certo orrore i nostri sforzi per istabilire le nostre relazioni con Roma sul principio dell’assoluta libertà. Certamente questo si confonde con quanto accadde in quell’epoca, ed esso crede vedere come conseguenza, come applicazione necessaria di questo nostro sistema, una costituzione del clero a senso di quella del 1790. Senza di ciò io non saprei capire come l’episcopato francese, così [p. 675 modifica]eminente per le sue virtù, per il suo zelo religioso, e che esce dalla classe la più liberale della società, possa mostrar tanto odio, tanta ingiustizia contro gli sforzi degli Italiani, e togliere loro la libertà per darla alla Chiesa. Quanto avvenne in Francia si riprodusse in taluni altri paesi, ma sotto forme, oso dirlo, meno condannabili. Noi abbiamo visto il partito liberale in Austria, in Toscana, in Napoli introdurre nella legislazione principii che limitavano l’azione del potere ecclesiastico; principii che certamente erano in contraddizione con i grandi principii di libertà. Ma, o signori, a giustificazione di questi governi, conviene tener conto delle relazioni nelle quali si trovavano rispetto alla Corte di Roma. Investita del potere temporale, la Corte di Roma, ricordando e rimpiangendo un potere che esercitava nei tempi di mezzo, l’influenza che essa credeva in diritto di esercitare sugli altri Stati di Europa, non poteva essere trattata con quella larghezza colla quale si tratterebbe un potere puramente spirituale. Quindi, o signori, se noi dobbiamo dichiarare non più conformi allo spirito dei tempi quelle dottrine Giuseppine e Leopoldine, dobbiamo però riconoscere come gli autori delle medesime fossero pienamente giustificati ad adoperare quelle leggi, non dirò come armi di guerra, ma come armi di difesa. Però quelle leggi o fossero proclamate per la difesa o per l’offesa, certo si è che lasciarono nello spirito della Corte di Roma e in quello dei cattolici più ardenti, impressioni contrarie allo spirito di libertà, una certa diffidenza verso le proposte che vengono fatte dal partito liberale.

Per essere giusti dobbiamo tuttavia riconoscere che le idee di libertà si sono manifestate e sviluppate anch’esse nel seno della società cattolica. Noi abbiamo visto in Francia una parte del clero, dopo la rivoluzione del 30, riconoscere che, associando la causa della Chiesa a quella del Borbone, l’aveva resa altamente impopolare, ed in allora alcuni membri eminenti della [p. 676 modifica]società cattolica proclamarono il principio della libertà. Se non che il capo di quella scuola, uomo d’ingegno straordinario e d’immaginazione ardente, non vedendo accolte favorevolmente le sue dottrine dalla Corte di Roma, invece di temperare l’espressione delle sue dottrine, continuando a mantenerle, e cercando di propagarle nel clero francese, abbandonò il cattolicismo e portò l’appoggio della sua eloquente parola ad un partito nemico non solo della Chiesa, ma, direi pure, della civiltà. Ma non perciò questi germi sono stati soffocati, non perciò il partito che vuole la libertà nel seno del clero francese è scomparso dalla superficie della Francia. Io porto avviso, che molti e molti membri del clero francese desiderano ardentemente di vedere compiersi, attuarsi il programma che nei primi tempi che seguirono l’anno 1830 era stato pubblicato dall’illustre abate Lammenais e dai suoi seguaci padre Lacordaire e conte Montalambert.

Vi è un paese dove questa dottrina ha ricevuto una larga applicazione, ed è il Belgio. Ivi il principio della separazione della Chiesa dallo Stato, della libertà accordata al clero, ha ricevuto una applicazione larga e ora ha la sanzione del tempo. L’esempio del Belgio debbe avere perciò grande autorità e sul partito cattolico e sul partito liberale; deve rassicurare il partito liberale che la Chiesa può essere intieramente libera, che può godere del diritto d’associazione, che può esercitare la libertà d’insegnamento nel modo il più ampio senza che la libertà abbia a patirne. E per verità, o signori, voi vedete, che nel Belgio le instituzioni liberali vennero svolgendosi a mano a mano. È vero che vi è lotta, e lotta vivissima, ardente fra il partito cattolico ed il partito liberale; ma, o signori, questa lotta non è stata funesta al Belgio, non è stata funesta alla libertà. Il partito cattolico, nelle vicende che succedono nei governi rappresentativi, pervenne più volte al potere, e ciò non solo in tempi in cui la corrente [p. 677 modifica]generale delle idee era favorevole al movimento liberale, ma altresì in quelli in cui il vento europeo soffiava verso la parte della reazione. Eppure, se il governo uscito dal partito cattolico, ha cercato di fare adottare alcune leggi sull’insegnamento, sulla carità, sulle mani-morte, favorevoli agli interessi del clero, ha rispettato tuttavia i grandi principii di libertà sui quali riposa la Costituzione belga: non ha mai portato la mano sulla costituzione, sulle leggi organiche, sulla libertà della stampa, sulla guardia nazionale, sulla libertà individuale. E nelle questioni di politica se fu contro noi, contro il movimento italiano (forse perchè non conosce bene la nostra storia) possentemente ostile, non si metterà per servile rispetto dalla parte dei poteri sovrani, che rappresentano il potere assoluto; giacchè, se la memoria non m’inganna, non è molto tempo che nella Camera belga alcuni membri del partito cattolico mossero gravi lamenti al Ministero, perchè i principi si mostravano troppo propizi ad un’illustre principessa appartenente ad uno Stato che in allora riassumeva l’idea del dispotismo. Certamente vi è lotta fra i due partiti, ma io non considero questa lotta come un male. Noi non possiamo immaginare uno stato di cose fondato sulla libertà, dove non siano partiti e lotte. La pace completa, assoluta, non è compatibile colla libertà. Bisogna saper accettare la libertà co’ suoi benefizi, e forse anche co’ suoi inconvenienti. Se l’esempio del Belgio deve rassicurare i liberali, deve pure rassicurare i cattolici, perchè parmi che in nessuna altra contrada di Europa il clero goda di una condizione più favorevole che in quel paese.

Ma, o signori, io credo che sia facile il dimostrare che l’Italia è la nazione del mondo la più atta ad applicare i grandi principii che ho avuto l’onore di proclamare. E perchè, o signori? Perchè in Italia il partito liberale è più cattolico che in qualunque altra parte d’Europa. In Italia i grandi pensatori (non parlo [p. 678 modifica]de’ tempi andati, ma di quelli del secolo presente) si sono affaticati per conciliare lo spirito di libertà col sentimento religioso ed io posso tanto più proclamare questa verità innanzi a voi in quanto che la maggior gloria letteraria d’Italia, l’uomo illustre che voi vi onorate d’annoverare fra i vostri colleghi,[5] il primo poeta vivente d’Europa, ha sempre cercato di conciliare questi grandi principii; ne’ suoi versi immortali ha celebrato le glorie della Chiesa con i sentimenti più liberali, e quasi alla fine della sua carriera, si mantenne sempre fedele all’uno e all’altro principio. E nella sfera della filosofia, là dove la conciliazione forse è più difficile, dove l’antagonismo si manifesta più facilmente, i nostri due grandi filosofi, quantunque in campo diverso, si accordano in un pensiero, il quale domina tutte le loro teorie, la riforma di certi abusi, la conciliazione dello spirito di libertà col sentimento religioso. Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti hanno consacrato tutta la loro vita, tutta la vastità del loro ingegno all’arduo lavoro di propugnare la conciliazione dei due grandi principii sui quali riposar deve la società moderna. Potrei citare molti altri nomi minori; ma quando in un paese i più grandi poeti, i più illustri filosofi propugnano certe dottrine, vuol dire che queste dottrine hanno molti seguaci nella nazione loro. Quindi, o signori, in Italia più che altrove questa conciliazione può farsi, e può farsi utilmente. Vi sarà lotta, imperocchè io non credo ad un accordo perfetto; vi sarà lotta, anzi è desiderabile che vi sia. Ove questa conciliazione si compiesse, io mi accingerei a sostenere non pochi assalti; anzi, dovendo parlar francamente, dirò che se la Corte di Roma accetta le nostre proposte, se si riconcilia coll’Italia, se accoglie il sistema di libertà, fra pochi anni, nel paese legale, i fautori della Chiesa, o meglio, quelli che chiamerò il partito cattolico, avranno il [p. 679 modifica]sopravvento; ed io mi rassegno fin d’ora a finire la mia carriera nei banchi dell’Opposizione. (Ilarità prolungata.)

Io sono profondamente convinto della verità di quanto ho avuto l’onore di esporvi e del vantaggio immenso che la Chiesa deve ricavare dall’adozione dei principii sui quali noi vogliamo stabilire un perfetto accordo; e nutro ferma speranza che questa convinzione a poco a poco andrà spargendosi nella società cattolica: e a ciò contribuirà non poco la discussione pubblica e la manifestazione del sentimento nazionale. A ciò giovò, credo, grandemente la discussione che ebbe luogo nell’altra Camera, e l’Europa rimase in certo modo stupefatta, vedendo come da tutti i banchi di quell’illustre Consesso sorgessero voci rispettose pel capo della Chiesa, manifestanti sentimenti di conciliazione. Ma ciò che più deve averla colpita si è, che se fra queste voci ve ne furono alcune che manifestarono sentimenti più altamente cattolici, forse a mio credere troppo cattolici, queste voci sorsero dai banchi dell’estrema sinistra. (Sensazione.) Così, o signori, se vi associate a questa grande manifestazione, se accordate il peso del vostro voto alla politica del Governo, voi agevolerete di molto la nostra impresa. Quando un corpo così cospicuo, che racchiude nel suo seno le illustrazioni di tante parti d’Italia, al quale spetta più specialmente il dovere di conservare i grandi principii della società, si associa per proclamare l’opportunità di una conciliazione fondata sulla larga applicazione del principio della libertà, voi avrete fatto, o signori, opera utilissima. Ond’è che procedendo fermi e risoluti nella nostra via, senza lasciarci trasportare da impazienze irragionevoli nè sgomentare da dubbii e da pericoli, io spero, che fra breve avremo convinta la parte eletta della società cattolica della lealtà delle nostre intenzioni; l’avremo convinta, che la soluzione, che noi proponiamo, è la sola che possa assicurare l’influenza legittima della Chiesa nell’Italia, nel mondo; e che quindi fra non molto da tutte le parti [p. 680 modifica]della società cattolica s’innalzeranno voci, che grideranno al Santo Padre: «Santo Padre, accettate i patti, che l’Italia fatta libera vi offre, accettate i patti che devono assicurare la libertà della Chiesa, crescere il lustro della sede ove la Provvidenza v’ha collocato, aumentare l’influenza della Chiesa, e nello stesso tempo portare a compimento il grand’edifizio della rigenerazione dell’Italia, assicurare la pace di quella nazione la quale, al postutto, in mezzo a tante sventure, a tante vicende, fu ancora quella che rimase più fedele e più attaccata al vero spirito del cattolicismo.» ( Vivi e prolungati applausi.)

FINE.


Note

  1. Fino dal 1849 gli Italiani non vedevano altro modo per risolvere la questione del potere temporale. A quel tempo, Valentino Pasini rappresentante a Parigi la Repubblica Veneta inviava un dispaccio in data del 24 febbraio 1849, al signor Drouyn de Lhuys ov’erano espresse idee del tutto analoghe a quelle del conte di Cavour.
    Giova aggiungere che le sapienti ricerche della erudita Allemagna confermano che Roma deve, storicamente, essere il compimento dell’unità italiana. Mommsen, nella sua Histoire Romaine dimostra che quella che comunemente si chiama la conquista dell’Italia fatta dai Romani, non è altro che l’ordinamento a Stato unitario di tutta la razza italiana, di cui i Romani furono il ramo più gagliardo. (V. Mommsen, Histoire Romaine. Introduction.)
  2. Allude all’opuscolo di Massimo d’Azeglio intitolato Questioni urgenti.
  3. Giuseppe Mazzini.
  4. Il senatore Vacca.
  5. Alessandro Manzoni.