Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo II/Capitolo quinto

Capitolo quinto

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CAPITOLO QUINTO




Così discesi del cerchio primaio ec.


Nel presente Canto, siccome negli altri superiori, si continua l’autore alle precedenti cose: e avendo nella fine del precedente mostrato come Virgilio ed egli, partitisi dagli altri quattro poeti, eran per altra via venuti fuori di quel luogo luminoso, in parte dove alcuna luce non era: e quinci nel principio di questo, continuandosi alle cose predette, ne mostra come nel secondo cerchio dell’inferno discendesse. E fa l’autore in questo Canto sei cose. Esso primieramente, come detto è, si continua alle precedenti cose, mostrando dove divenuto sia: nella seconda parte dimostra aver trovato un demonio esaminator delle colpe de’ peccatori: nella terza dice qual peccato in quel cerchio si punisca, e in che supplicio: nella quarta nomina alquanti de’ peccatori in quella pena puniti: nella quinta parla con alcuni di quelli spiriti che quivi puniti sono: nella sesta e ultima discrive quello che di quel ragionar gli seguisse. La seconda comincia quivi: Stavvi Minos. La terza quivi: Ora [p. 6 modifica]incomincian. La quarta quivi: La prima di color. La quinta quivi: Poscia ch’io ebbi. La sesta e ultima quivi: Mentre che l’uno spirto. Comincia adunque in cotal guisa: Così discesi, cioè partito da que’ quattro savii, seguitando per altra via Virgilio, del cerchio primaio, cioè del limbo, il quale è il primiero cerchio dell’inferno, e mostra appresso dove discendesse, cioè, Giù nel secondo, cerchio, che men luogo cinghia, cioè gira: e davanti è mostrata la cagion perchè: la quale è, perciocchè la forma dell’inferno è ritonda, e quanto più in esso si discende, tanto viene più ristrignendo, tantochè ella diviene aguta in sul centro della terra. E tanto ha più dolor, in questo cerchio che nel precedente, che pugne, cioè tormenta in sì fatta maniera, che egli costrigne i tormentati, a guaio, cioè a trar guai: quello che nel superior cerchio, come mostrato è, non avvenia; perchè s’egli è questo luogo minore di circonferenza che il superiore, egli è molto maggior di pena: Stavvi Minos: qui comincia la seconda parte, nella quale l’autor mostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe de’ peccatori. E in questo seguita l’autore lo stilo incominciato di sopra, cioè di trovare ad ogni entrata di cerchio alcun demonio: di sopra all’entrare del primo cerchio trovò

Caron dimonio, con occhi di bragia:

qui trova Minos, e ciascuno con alcun atto o parola terribile spaventa i peccatori che in quel luogo vengono; perciocchè Caron di sopra, forte quelli che alla sua nave vennero spaventò con parole, gridando, guai a voi, anime prave ec. Nell’entrata di [p. 7 modifica]questo cerchio, Minos gli spaventa ringhiando in quanto dice,

Stavvi Minos orribilmente, e ringhia:

e così ancora ne’ cerchi seguenti troveremo. Dice adunque, Stavvi Minos, cioè in su l’entrata di quel cerchio secondo. Questo Minos, dicono i poeti, che egli fu figliuolo di Giove e di Europa, e ciò essere in tal maniera avvenuto; che essendo Europa figliuola d’Agenore re de’ Fenici, i quali abitarono il lito della Soria, e fu la loro città principale Tiro, piaciuta a Giove Cretese, e con operazioni di Mercurio, secondochè da Giove gli è stato imposto fosse fatto, che questa vergine, avendo egli gli armenti reali dalle pasture della montagna volti e condotti alla marina, seguiti gli avesse: quivi essendosi Giove trasformato in un tauro bianchissimo e bello, e mescolatosi tra gli armenti reali, tanto benigno e mansueto si mostrò a questa vergine, che essa prendendo della sua mansuetudine primieramente 1 piacere, prese ardire di toccarlo con la mano, e pigliarlo per le corna, e menarselo appresso. Poi cresciuto l’ardire in lei, dal desiderio tratta vi montò su: la qual cosa sentendo Giove, soavemente portandola, a poco a poco si cominciò a recare in su il lito del mare; e quando tempo gli parve, si gittò in alto mare: di che la vergine paurosa di non cader nell’acqua, attenendosi forte alle corna, quanto più poteva lo strigneva con le ginocchia: e in questa guisa notando il toro, da quello lito di Soria ne la portò infino in Creti: e quivi [p. 8 modifica]ripresa la sua vera forma d’uomo giacque con lei, e in processo di tempo n’ebbe tre figliuoli, Minos, e Radamanto e Sarpedone. Minos divenuto a virile età, prese per moglie una bellissima giovane chiamata Pasife, figliuola del Sole: e di lei generò figliuoli e figliuole, intra’ quali fu Androgeo giovane di mirabile stificanza: il quale ne’ giuochi palestrici, essendo artificioso molto, e di corporal forza oltre ad ogni altro valoroso, perciocchè ogni uomo vinceva, fu per invidia dagli Ateniesi e da’ Megaresi ucciso. Per la qual cosa Minos avendo fatto grande apparecchiamento di navilio e d’uomini d’arme per andare a vendicarlo, e volendo, avanti che andasse, sacrificare al padre, cioè a Giove, il quale il bestiale error degli antichi credea essere Iddio del cielo, il pregò che alcuna ostia gli mandasse, la qual fosse degna de’ suoi altari. Per la qual cosa Giove gli mandò un toro bianchissimo, e tanto bello quanto più esser potesse: il quale come Minos vide, dilettatosi della sua bellezza, uscitogli di mente quello perchè ricevuto l’avea, il volle piuttosto preporre a’ suoi armenti, per averne allievi, che ucciderlo per ostia: e fatto il sacrificio d’un altro, andò a dare opera alla sua guerra. E assaliti prima i Megaresi, e quegli per malvagità di Scilla, figliuola di Niso re de’ Megaresi, avendosi sottomessi; fatta poi grandissima guerra agli Ateniesi, quelli similmente vinse, e alla sua signoria gli sottomise, e a detestabile servitudine gli si fece obbligati; tra l’altre cose imponendo loro, che ogni anno gli dovessero mandare in Creti sette liberi e nobili garzoni, li quali esso donasse per guiderdone a colui [p. 9 modifica]che il vincltor fosse ne’ giuochi palestrici, li quali in anniversario d’Androgeo avea constituiti. Ma in questo mezzo tempo che esso gli Ateniesi guerreggiava avvenne, e per l’ira conceputa da Giove contro a Minos, e per l’odio il quale Venere portava a tutta la schiatta del Sole, il quale il suo adulterio e di Marte aveva fatto palese, che Pasife s’innamorò del bel toro, il quale Minos s’aveva riservato, senza averlo sacrificato al padre che mandato gliele avea; e per opera ed ingegno di Dedalo giacque con lui, in una vacca di legno contraffatta ad una della quale il toro mostrava tra l’altre di dilettarsi molto: e di lui concepette, e poi partorì una creatura, la quale era mezzo uomo e mezzo toro. Della quale ignominia fu fieramente contaminata la gloria della vittoria acquistata da Minos: nondimeno esso fece prendere Dedalo ed Icaro suo figliuolo, e fecegli rinchiudere nella prigione del Laberinto, la quale Dedalo medesimo aveva fatta. E questo Laberinto non fu fatto come disegnato l’abbiamo, cioè di cerchi, e di ravvolgimenti di mura, per li quali andando senza volgersi, infallibilmente si pervenia nel mezzo; e così tornando senza volgersi, se ne sarebbe l’uomo senza dubbio uscito fuori; ma egli fu, e ancora è, un monte tutto dentro cavato, e tutto fatto ad abituri quadri, a modo che camere, e ciascuna di queste camere ha quattro usci, in ciascuna faccia uno, i quali vanno a ciascuno in camere simiglianti a queste, e così poco si puote avanti andare, che l’uomo vi si smarrisce entro senza saperne fuori uscire, se per avventura non è2. [p. 10 modifica]Poi ivi a certo tempo essendo ad Atene venuto per sorte, che Teseo figliuolo del re Egeo dovesse con gli altri, che per tributo eran mandati, venire in Creti; e quivi venuto, secondochè Ovidio scrive, con certe arti mostrategli da Adriana figliuola di Minos, vinse il minotauro ed ucciselo, e da così vituperevol servigio liberò gli Ateniesi: e occultamente di Creti partendosi, seco ne menò Adriana e Fedra, figliuole di Minos. E Dedalo d’altra parte, fatte ali a sè e al figliuolo, di prigione uscendo se ne volò in Cicilia, e di quindi a Baia: la qual cosa sentita da Minos, con armata mano incontanente il seguitò: ma esso appo Camerino in Cicilia, secondochè Aristotile scrive nella Politica, fu dalle figliuole di Crocalo ucciso. Dopo la morte del quale, perciocchè esso avea leggi date a’ Cretensi, e con giustizia ottimamente gli avea governati, i poeti fingendo dissero, lui essere giudice in inferno: e di lui scrive così Virgilio.

Quaesitor Minos urnam movet: ille silentum
Conciliumque vocat, vitasque, et crimina discit etc.

Ma perciocchè non pare per le fizioni sopraddette, s’abbia la verità dell’istoria di Minos, par di necessità di rimuover la corteccia di quella, e lasciare nudo il senso allegorico, nel quale apparirà più della verità della storia: dico più; perciocchè tra le fizioni medesime n’è parte mescolata. Vogliono adunque i poeti sentir per Mercurio, mandato a far venire gli armenti d’Agenore dalla montagna alla marina, alcuna eloquente persona, mandata come mezzana da Giove ad Europa, e per la forza della eloquenza di questa cotal persona, essere Europa condotta alla marina, dove [p. 11 modifica]Giove ciò occultamente aspettando, la prese e portonnela in su una sua nave a ciò menata, la quale o era chiamata tauro, o avea per segno un tauro bianco: come noi veggiamo fare a questi navicanti, li quali a ciascun lor legno pongono alcun nome, e similmente alcun segno: e così ne fu trasportata in Creti, dove essa partorì i detti figliuoli di Giove. Sono nondimeno alcuni che dicono, che essendo ella in Creti divenuta, e alcun tempo con Giove dimorata, che Giove senza avere alcun figliuolo di lei la lasciò: e Asterio in que’ tempi re di Creti, secondochè scrive Eusebio in libro temporum, la prese per moglie, e ebbene quelli figliuoli de’ quali di sopra è detto. E se così fu, possiam comprendere aver gli antichi ficto, Minos esser figliuolo di Giove, o per ampliar la gloria della sua progenie, o perchè nelle sue operazioni si mostrò simile a quel pianeto, il quale noi chiamiamo Giove. Ed esso tra l’altre sue condizioni ebbe questa, che esso fu a’ sudditi eguale e diritto uomo, e servò severissimamente giustizia in tutti, e diede leggi a Cretensi, le quali mai più avute non aveano. E acciocchè a rozzo popolo fossero più accette, solo se ne andava in una spelunca, e in quella, poichè composto avea ciò che immaginava esser bene e utilità de’ sudditi suoi, uscendo fuori, mostrava al popolo, sè quello che scritto e composto avea avere avuto da Giove suo padre: dove per avventura seguì per questa astuzia che esso fu reputato figliuolo di Giove, e le leggi da lui composte furono avute in grandissimo pregio. Ma lui essere stato figliuolo di Asterio, non pare che in alcun modo [p. 12 modifica]conceda il tempo, conciosiacosachè egli apparisca, Asterio aver regnato in Creti ne’ tempi che Danao regnò in Argo, che fu intorno agli anni del mondo 3803, e la guerra la quale ebbe Minos contro agli Ateniesi fu regnante Egeo in Atene, che fu intorno agli anni del mondo 3960. Ed è Minos perciò stato detto da’ poeti essere giudice in inferno, perciocchè noi mortali, avendo rispetto a’ corpi superiori, ci possiam dire essere in inferno: ed esso, come detto è, appo i mortali compose le leggi, e rendè ragione a’ domandanti, nelle quali cose esso esercitò uficio di giudice. Le vestigie de’ quali imitando l’autore, qui per giudice ed esaminatore delle colpe il pone appo quegli d’inferno dicendo che egli stava quivi orribilmente; e a dimostrare il suo orrore dice, e ringhia. Ringhiare suole essere atto dei cani, minaccianti alcuno che al suo albergo s’appressi. Esamina le colpe, dell’anime di coloro che laggiù caggiono. E qui comincia l’autore a descrivere l’uficio di questo Minos, in quanto dice che esamina: e così appare lui in questo luogo esser posto per giudice, perciocchè a’ giudici appartiene l’esaminare delle cose commesse: e seguita, nell’entrata: e qui discrive il luogo conveniente a quell’oficio, acciocchè alcuna non possa passare, senza esser sottentrata alla sua esaminazione. Giudica: seguita qui l’autore l’ordine giudiciario; perciocchè primieramente conviene che il discreto giudice esamini i meriti della quistione, e dopo la esaminazione giudica quello che la legge, talora l’equità ne vuole: e dopo il giudicio dato, quello mandi ad esecuzione che avrà giudicato: e però segue, e manda, ad esecuzione, [p. 13 modifica]e comanda che ad esecuzion sia mandato. E quivi descrive, a questo demonio posto per giudice, essere una dimostrazione assai strana in dichiarare quello che vuole che ad esecuzion si mandi, in quanto dice, secondo ch’avvinghia, cioè secondo il numero delle volte che gli dà dintorno alla persona la coda sua. Ora perciocchè all’autore pare aver molto succintamente descritto l’uficio di questo Minos, per farlo più chiaro reassumendo e’ dice,

Dico, che quando l’anima mal nata,

cioè del peccator dannato (quia melius fuisset illi, si natus non fuisset homo ille) Gli vien dinanzi, a questo giudice, tutta si confessa, cioè tutta s’apre, senza alcuna riservazion fare delle sue colpe. La qual cosa, cioè riservarsi e nascondere delle sue colpe, eziandio volendo non potrebbe fare, perciocchè non veggono i giudici spirituali con quegli occhi che veggiam noi, ma prestamente e senza alcun velame veggiono ciò che al loro uficio appartiene.

E quel cognoscitor delle peccata,

cioè Minos; dimostrando in lui essere tra l’altre, una delle condizioni opportune a coloro che preposti sono al giudicio delle colpe d’alcuno, cioè che essi sieno discreti, e cognoscano gli effetti e le qualità di quelle cose, le quali possono occorrere al suo giudicio:

Vede qual luogo d’inferno è da essa,

cioè quale supplicio infernale sia conveniente alla sua colpa.

Cignesi con la coda tante volte,
Quantunque gradi vuol che giù sia messa.

[p. 14 modifica]È qui da sapere l’inferno, secondocliè al nostro autor piace, essere distinto in nove cerchi, e quanto più si discende verso il centro, cioè verso il profondo dell’inferno, più sono i cerchi stretti e i tormenti maggiori. E perciocchè la faccenda di costui è grande, intorno all’esaminare e al giudicare che fa singularmente di ciascuna anima, per dar più spaccio alle sue sentenze, ha quel modo trovato di doversi cignere con la coda tante volte, quanti gradi, cioè cerchi, esso vuole che l’anima da lui esaminata sia infra l’inferno messa: e mentre fa con la coda questa dimostrazione, nondimeno con le parole attende alla esaminazione:

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;

perocchè, come già dimostrato è, la quantità di quelli che muoiono nell’ira di Dio è molta: e queste cotali, Vanno a vicenda, cioè ordinatamente l’una appresso dell’altra come venute sono, ciascuna al giudizio, che di loro dee esser dato, e quivi, Dicono, le lor colpe, e odono la sentenza data di loro, e poi son giù volte, in inferno ne’ luoghi determinati da’ ministri di questo giudice. O tu che vieni: qui dimostra l’autore questo Minos, sotto spezie di parole amichevoli, averlo voluto spaventare, dicendo:

O tu, che vieni al doloroso ospizio, (dell’inferno)
Disse Minos a me quando mi vide, (esser vivo)

Lasciando l’atto, cioè l’esercizio, di cotanto ufizio, quanto è l’avere ad esaminare e a giudicare tutte l’anime de’ dannati: Guarda com’entri, quasi voglia dire, che chi entra in questo luogo non ne [p. 15 modifica]può mai poi uscire, e di cui tu ti fide: volendo che l’autore per queste parole intenda, non esser discrezione il mettersi per sua salute dietro ad alcuno che sè medesimo non abbia saputo salvare; quasi voglia dire, Virgilio non ha saputo salvar sè, dunque come credi tu che egli salvi le? Sentiva già questo demonio per la natura sua, la quale, comechè per lo peccato da lui commesso fosse di grazia privato, non fu però privato di scienza, che l’autor non doveva quel cammin far vivo se non per sua salute, dal quale esso demonio l’avrebbe volentier frastornato:

Non t’inganni l’ampiezza dell’entrare:

la quale è libera ed espedita a tutti quegli che dentro entrar ci vogliono, ma l’uscire non è così. E par qui che questo demonio amichevolmente e con fede consigli l’autore, il che non suole esser di lor natura, e nel vero non è. Non dico perciò che essi alcuna volta non deano de’ consigli che paiono buoni e utili; ma essi non sono, nè furon mai nè buoni nè utili; perciocchè da loro non sono dati a salutevol fine, ma per farsi più ampio luogo, nella mente di chi crede loro, a potere ingannare gli danno talvolta. E perciò è con somma cautela da guardarsi da’ consigli de’ malvagi uomini, perciocchè quanto miglior paiono, più è da suspicare non vi sia sotto nascosa fraude ed inganno. Poi seguita:

E ’l duca mio a lui: perche pur gride?

Non potè sostener Virgilio di lasciargli compiere l’orazione, conoscendo che egli non consigliava l’autore a buon fine, ma sentendo l’autore, forse per [p. 16 modifica]ostupefazione, non aver pronto che rispondere, disse egli con parole alquanto austere, o Minos, perchè pur gride, ingegnandoti di spaventarlo? Non impedire, con questo tuo gridare, il suo fatale andare, cioè il suo andare da divina disposizion procedente. E questo vocabolo fatale, e come si debba intendere fatto, si dichiarerà appresso nel nono Canto sopra quella parola,

Che giova nelle fata dar di cozzo?

ma nondimeno brevemente alcuna cosa dicendone, dico, che è da sapere, secondochè Boezio in libro de Consolatione, determina, Fato non è altro che disposizione della divina mente intorno alle cose presenti e future: e questo medesimo par sentire santo Agostino nel quinto de Civitate Dei, il quale, poichè in questa conclusione è venuto, dice queste parole: Sententiam tene, linguam comprime; volendo cho noi tegnamo la sentenza, ma schifiamo il vocabolo, cioè di chiamar fato la divina disposizione. E questo non fu ne’ suoi tempi senza cagione: la qual fu, perciocchè allora venendo moltitudine di gentili alla fede cattolica, e però ancor tenera surgendo la cristiana religione, acciocchè ogni cosa in quanto si potesse si togliesse via, dico di quelle che alcuna forza paressero avere in rivocare negli errori lasciati i gentili, ancora non molto fermati nella cattolica verità; e questo e molti altri vocaboli, li quali i gentili usavano, si guardavano di usare nelle loro predicazioni e nelle loro scritture. Ma oggi per la grazia di Dio è sì radicata e sì ferma ne’ petti nostri la dottrina evangelica, che senza sospetto si può tra’ savii ogni [p. 17 modifica]vocabolo usare. Vuolsi così, cioè che questi entri qua entro vivo, e vegga la miseria di te e degli altri dannati: e dove si vuole? vuolsi, colà dove si puote Ciò che si vuole, cioè nella mente divina, la qual sola puote ciò che ella vuole, e più non dimandare: quasi dica, a te non s’appartiene di sapere che si muova la divinità a voler questo. Ora incomincian. Qui comincia la terza parte di questo Canto, nella qual dissi si conteneva, qual peccato in questo secondo cerchio si punisca e in qual supplicio: alla quale mostra l’autore, avendo Virgilio posto silenzio a Minos, d’essere pervenuto: e perciocchè infino a questo luogo era venuto per tutto quasi il primo cerchio, senza udire alcun romore di pianti o di lamenti, dice,

Ora incomincian le dolenti note

A farmisi sentire, cioè le varietà de’ pianti, le quali si facevano al suo udito sentire: or son venuto

Là dove molto pianto mi percuote,

gli orecchi. E dice percuote, perciocchè essendo l’aere percosso dalle voci dolenti de’ tormentati, è di necessità che egli si muova, e col suo moto percuota quelle cose le quali movendosi trova, delle quali era la sensualità dell’autore che quivi vivendo si trovava.

Io venni in luogo d’ogni luce muto,

cioè privato. Che mugghia, cioè risuona, questo luogo, per lo ravvolgimento delle strida e de’ pianti: il suono de’ quali raccolti insieme, fa un romore simile a quello cha noi diciamo, che mugghia il mare [p. 18 modifica]ne’ tempi tempestosi, e però dice: come fa ’l mar per tempesta,

Se da contrarii venti è combattuto,

cioè infestato: il che assai volte addiviene, che la contrarietà de’ venti, che alcuna volta spirano, son cagione delle tempeste del mare. E chiamasi questo romore del mare impropriamente mugghiare; perciocchè da sè non ha proprio vocabolo, è preso un vocabolo a discriver quel romore che più verisimilmeute gli si confaccia, e questo è il mugghiare, il quale è proprio de’ buoi. Ma perciocchè è un suono confuso e orribile, par che assai convenientemente s’adatti al romor del mare. La bufera infernal. Bufera, se io ho ben compreso nell’usitato parlar delle genti, è uno vento impetuoso forte il qual percuote, e rompe e abbatte ciò che dinanzi gli si para; e questo, se io comprendo bene, chiama Aristotile nella Metaura enephias, il quale è causato da esalazioni calde e secche, levantesi della terra e saglienti in alto: le quali come tutte insieme pervengono in aere ad alcuna nuvola, cacciate indietro dalla frigidità della fredda nuvola con impeto, divengon vento, non solamente impetuoso, ma eziandio valido e potente di tanta forza, che per quella parte dove discorre egli abbatte case, egli divelle e schianta alberi, egli percuote e uccide uomini e animali. È il vero che questo non è universale, nè dura molto, anzi vicino al luogo dove è creato a guisa di una striscia discorre, e quanto più dal suo principio si dilunga più divien debole, infino a tanto che infra [p. 19 modifica]poco tempo si risolve tutto. Questo adunque mi pare che l’autor voglia sentire per questa bufera: e benchè nella concavità della terra questo vento causar non si possa, deesi intendere in questo luogo non causato, ma per divina giustizia esser posto e ordinato perpetuo. Dice adunque, che mai non resta, di soffiare, come fa quello che quassù si genera. Mena gli spirti, dannati, con la sua rapina, cioè col suo rapinoso movimento, Voltando e percotendo: per questi effetti si può comprendere, questa bufera essere quel vento che detto è, cioè enaphias: gli molesta, cioè gli tormenta. E in questo che qui è dimostrato, si può comprendere qual sia il supplicio dato all’anime, le quali in questo cerchio per li lor meriti ricevon pena. Le quali anime, così menate e percosse insieme da questo impetuoso e forte vento, Quando giungon, mandate da Minos, davanti alla ruina, che dall’impeto di questo vento procede. Quivi le strida, comincian grandissime, col pianto, e ’l lamento, de’ miseri.

Bestemmian quivi la virtù divina.

In questo bestemmiare si dimostra la quantità grandissima e acerba dell’afflizion de’ dolenti che questo tormento ricevono, la quale a tanta ira gli commuove che essi bestemmiano Iddio.

Intesi, ch’ a così fatto tormento.

Qui, poichè l’autore ha posta la qualità del tormento, dichiara quali sieno i peccatori a’ quali questo tormento è dato, e dice che intese, da Virgilio si dee credere, che a così fatto tormento, come disegnato è, [p. 20 modifica]

Eran dannati i peccator carnali,
Che la ragion sommettono al talento,

cioè alla volontà. E comechè questo si possa d’ogni peccatore intendere, perciocchè se alcun peccatore non è che non sottometta peccando la ragione alla volontà, vuol nondimen l’autore, che per quel vocabolo carnali, s’intenda singularmente per li lussuriosi. Seguita adunque: E come gli stornei. Qui intende l’autore, per una comparazione, discrivere in che maniera in questo luogo sieno i peccator carnali menati e percossi dalla sopraddetta infernal bufera, e dice, che come ne portan l’ali, volando, gli stornelli, Nel freddo tempo, cioè nel mezzo dell’autunno, nel qual tempo usano gli stornelli e molti altri uccelli, secondo lor natura, dì convenirsi insieme, e di passare delle region fredde nelle più calde per loro scampo: e in quelle ne vanno, a schiera larga e piena, cioè molti adunati insieme: Così quel fiato, cioè quella bufera, ne porta, gli spiriti mali, cioè dannati, li quali a grandi schiere per quel cerchio,

Di qua, di là, di giù, di su gli mena,

senza servare alcun modo o ordine, l’uno contro all’altro nello scontrarsi crudelmente percotendo: e oltre a questo così faticoso tormento dice,

Nulla speranza gli conforta mai,

questi cotali miseri e percossi: Non che di posa, cioè d’avere alcuna volta riposo; ma, ancora non gli conforta, di, dovere aver mai, minor pena, che quella la quale hanno percotendosi insieme. E come i gru: qui per un’altra comparazione ne discrive una brigata di quegli spiriti dannati aver [p. 21 modifica]veduti venire verso quella parte, dove esso e Virgilio erano: e dice quegli esser da quel vento menati in quella forma che volano per aere i gru: van cantando lor lai, cioè lor versi: ed è questo vocabolo preso, cioè lai, dal parlar francesco, nel quale si chiamano certi versi in forma di lamentazione nel lor volgare composti: Facendo in aer di sè, medesimi volando, lunga riga; perciocchè stendono il collo, il quale essi hanno lungo, innanzi, e le gambe le quali similmente hanno lunghe, e così fanno di sè lunga riga: Così vid’io venir, spiriti li quali facevan lunga riga di sè, cioè di tutta le persona, traendo guai,

Ombre portate dalla detta briga,

cioè dalla detta bufera.

Perch’io dissi: Maestro, chi son quelle
Genti, che l’aura nera sì gastiga?

cioè tormenta, impetuosamente portandole. La prima di color. Qui comincia la quarta parte del presente Canto, nella qual dissi che l’autor nominava alquanti delli spiriti dannati a questa pena. Dice adunque, La prima di color che così son portati, di cui novelle Tu vuo’ saper, cioè la condizione e la cagione perchè a questo supplicio dannata sia, mi disse quegli allotta,

Fu imperadrice di molte favelle:

cioè fu donna di molte nazioni, nelle quali erano molti e diversi modi di parlare.

A vizio di lussuria fu sì rotta,

sì inchinevole, Che il libito, cioè il beneplacito, intorno a ciò che a quel vizio apparteneva, fè’ licito, [p. 22 modifica]cioè concedette che lecito fosse in tutte le nazioni che ella signoreggiava: e questo fece, in sua legge, cioè per sua legge. E appresso dice la cagione, perchè questa legge così abominevole fece, cioè, Per torre, per levar via, il biasmo, la infamia, in che era condotta, per le sue disoneste operazioni in quel peccato. Ella è Semiramis. Poichè detto ha il vizio nel quale condotta fu, la nomina Semiramis, di cui si legge, appo molti antichi istoriografi, Che succedette a Nino, suo marito, dopo la morte di lui nel regno, e fu sua sposa, mentre esso Nino visse. Ma acciocchè più pienamente si comprenda chi costei fosse, e quali fossero le sue operazioni, è da dire alquanto più pienamente la sua istoria. Dico adunque, che chi che Semiramis si fosse per nazione non si sa, quantunque alcuni poeti antichissimi fingano, lei essere stata figliuola di Nettuno, ma che essa fosse moglie di Nino re degli Assiri, per lo testimonio di molti istoriografi appare. Concepette costei di Nino suo marito un figliuolo, il quale nato nominaron Ninia: ed avendo già Nino per forza d’arme soggiogata quasi tutta Asia, ed ultimamente ucciso Zoroastre e Battri suoi sudditi, avvenne che fedito nella coscia d’una saetta si morì. Per la qual cosa la donna temendo di sottomettere alla tenera età del figliuolo così grande imperio, e di tanta e così strana gente, e nuovamente acquistato, pensò una mirabile malizia, estimando con quella dover potere reggere i popoli, li quali Nino ferocissimo uomo s’aveva con armi sottomessi, e alla sua obbedienza costretti. E avendo riguardo che essa in alcune cose era simile al [p. 23 modifica]figliuolo, e massimamente in ciò, che esso ancora non avea barba; e che nella voce puerile era simile a lei, e similmente nelle lineature del viso; estimò potere sè, in persona del figliuolo, presentare agli eserciti del padre: e per potere meglio celare l’effigie giovanile, si coperse la testa con una mitra, la quale essi chiamavan tiara, e le braccia e le gambe si nascose con certi velamenti. E acciocchè la novità dell’abito non avesse a generare alcuna ammirazione di lei in coloro che dattorno le fossero, comandò a tutti che quello medesimo abito usassero. E in questa forma dicendo sè esser Ninia, sè medesima presentò agli eserciti: e così avendo acquistata real maestà, severissimamente servò la disciplina militare: e con virile animo ardì non solamente di servare l’imperio acquistato da Nino, ma ancora d’accrescerlo; e a niuna fatica, che robusto uomo debba poter sofferire, perdonando, si sottomise Etiopia, e assalì India, nella quale alcun altro mortale fuor che il marito non 3 era stato, insino a quel tempo, ardito d’entrar con arme. Ed essendole in molte cose ben succeduto del suo ardire, non dubitò di manifestarsi esser Semiramis, e non Ninia, a’suoi eserciti. Essa oltre alle predette cose, pervenuta in Babilonia antichissima città, da Nembrot edificata, e veggendola in grandissima diminuzion divenuta, a quella tutte le mura riedificò di mattoni: e quelle rifece di mirabile grossezza, d’altezza e di circuito: e parendole aver molto fatto, e posto tutto il suo imperio in riposo, tutta si diede [p. 24 modifica]alla lascivia carnale, ogni arte usando che usar possono le femmine per piacere. E tra l’altre volte facendosi ella con grandissima diligenza le trecce, avvenne che, avendo ella già composta l’una, le fu raccontato che Babilonia le s’era ribellata, e venuta nella signoria d’un suo figliastro. La qual cosa ella sì impazientemente ascoltò, che lasciato stare il componimento delle sue trecce, e i pettini e gli specchi gittati via, prese subitamente l’armi: e convocati i suoi eserciti, con velocissimo corso andò a Babilonia, e quella assediò; nè mai dall’assedio si mosse, infino a tanto che presa l’ebbe, e rivocata sotto la sua signoria: ed allora si fece la treccia, la quale ancora fatta non avea, quando la ribellione della città le fu delta. E questa così animosa operazione, per molte centinaia d’anni testimoniò una statua grandissima fatta di bronzo, d’una femmina la quale dall’un de’ lati avea i capelli sciolti, e dall’altro composti in una treccia, la quale nella piazza di Babilonia fu elevata. E oltre a questa così laudabile operazione, molte altre ne fece degne di loda, le quali tutte bruttò e disonestò con la sua libidine. La quale ancora, secondoche l’antichità testimonia, crudelmente usò; perciocchè, come alquanti dicono, quelli giovani li quali essa eleggeva al suo disonesto servigio, poichè quello aeva usato, acciocchè occulto fosse, quegli faceva uccidere. Ma nondimeno quantunque ella crudelmente occultasse gli adulterii, i parti conceputi di loro non potè occultare. E sono di quegli che affermano, lei in questo scellerato servigio aver tirato il figliuolo: e acciocchè alcuna delle sue femmine non gli potesse [p. 25 modifica]lui col suo servigio sottrarre, dicono sua invenzione essere stata quel vestimento, il quale gli uomini fra noi usano a ricoprire le parti inferiori, e di quello aver le sue femmine vestite, e ancora con chiave fermatolo. Dicono ultimamente alcuni, che avendo ella a questa disonestà richiesto il figliuolo, che il figliuolo, avendo ella già regnato trentadue anni, l’uccise. Alcuni altri dicono esser vero che il figliuolo l’uccidesse, ma non per questa cagione: anzi o perchè esso se ne vergognasse, o perchè egli temesse non forse ella partorisse figliuolo, che con opera di lei il privasse del regno. Appresso pur di lei seguendo, dice 1’autore,

Tenne la terra, che ’l soldan corregge,

la quale è Egitto; e chiamasi soldano di Babilonia, non da Babilonia di Caldea, la qual Semiramis fece restaurare, ma da una Babilonia la quale è quasi nella estremità meridionale d’Egitto, la quale edificò Cambise re di Persia. Nondimeno che ella assalì Egitto, se ella l’occupò, o no, non so. L’altra, che segue nella predetta schiera Semiramis, è colei, che s’ancise amorosa, cioè amando, E ruppe fede, congiugnendosi con altro uomo, al cener di Sicheo, suo marito stato. Vuole l’autore per questa circonscrizione che noi sentiamo, costei essere Didone, figliuola che fu del re Belo di Tiro: la istoria della quale si racconta in due maniere. Dido, il cui nome fu primieramente Elissa, fu secondochè Virgilio scrive, figliuola di Belo re de’ Fenici, il quale Belo venendo a morte, Pigmalione suo fratello, e lei accora fanciulla, lasciò nelle mani de’ suoi sudditi, i quali [p. 26 modifica]in loro re sublimarono Pigmalione: ed Elissa, così fanciulla come era, diero per moglie ad Acerba o Sicheo che si chiamasse, o vero Sicarba, il quale era sacerdote d’Ercole, il quale sacerdozio era, dopo il reale, il primo onore appo i Tirii, li quali insieme santissimamente s’amarono. Era oltre ad ogni uomo avaro Pigmalione; per la qual cosa Sicheo, il quale era ricchissimo, temendo l’avarizia del cognato, ogni suo tesoro aveva nascoso. Nondimeno essendo ciò pervenuto agli orecchi di Pigmalione, cominciò quelle ricchezze ferventemente a desiderare, e per averle, fraudolentemente uccise Sicheo. La qual cosa avendo Elissa sentito, e dolorosamente pianta la morte del marito, temendo di sè, tacitamente prese consiglio di fuggirsi: e posta giù ogni femminile tiepidezza, e preso virile animo, di che ella fu poi chiamata Didone, avendo tratti nella sua sentenza certi nobili uomini de’ Fenici, li quali ella conoscea che odiavan Pigmalione, presi certi navilii del fratello, e quegli senza alcuna dimora armati, come se del luogo dove era andar se ne volesse al fratello, nascosamente in quegli fece caricare tutti i tesori stati del suo marito, e oltre ad essi, quelli che aver potè del fratello, e palesemente fece mettere nelle navi sacchi pieni di rena, e guardargli bene. Ed essendo con coloro, li quali sentivano il suo consiglio, salita sopra le navi, come in alto mare si vide, comandò che questi sacchi pieni di rena tutti fossero gittati in mare. E come questo fu fatto, convenuti tutti insieme i marinai e gli altri, lagrimando disse: io facendo gittare in mare tutti i lesori di mio marito, ho trovato modo alla mia [p. 27 modifica]morte, la quale io ho lungamente desiderata. Ma io ho compassione a voi, carissimi amici e compagni della mia colpa; perciocchè in non dubito punto, che, come noi perverremo a Pigmalione, il quale sapete è avarissimo, egli farà crudelmente me e voi morire. Nondimeno se vi piacesse con meco insieme fuggirvi, e lontanarvi dalla sua potenza, io vi prometto di non venirvi mai meno ad alcun vostro bisogno. La qual cosa udendo i miseri marinai, quantunque loro paresse grave cosa lasciar la patria, nondimeno temendo forte la crudeltà di Pigmalione, agevolmente s’accordarono a doverla seguire in qualunque parte ella diliberasse di fuggire. Dopo il quale diliberamento, piegate le prode delle navi al ponente, pervennero in Cipri, dove quelle vergini che alla marina trovarono, persolventi secondo il costume loro i primi gustamenti di Venere, a sollazzo e eziandio a procrear figliuoli de’ giovani che con lei erano, fece prendere e porre in su le navi. E similmente ammonito nel sonno un sacerdote di Giove, che in quella contrada era, con tutta la sua famiglia ne venne a lei, annunziando grandissime cose dover seguire in onore della loro successione di questa fuga. Poi quindi partitasi, e pervenuta al lilo affricano, costeggiando la marina de’ Massuli, in quel seno del mare entrò con le sue navi, dove ella poco appresso edificò la città di Cartagine. E quivi estimando il luogo esser sicuro alle navi, per dare alcun riposo a’ marinar faticati prese terra: dove venendo quelli della contrada, quale per desiderio di vedere i forestieri, e quale per guadagnare recando delle sue derrate, cominciarono [p. 28 modifica]a contrarre insieme amistà. E apparendo la dimora loro essere a grado a’ paesani, ed essendone ancora confortati da quelli d’Utica, li quali similmente quivi eran venuti, quantunque Didone udisse per alcuni che seguita l’aveva, Pigmalione fieramente minacciarla, di niuna cosa spaventata, quivi diliberò di fermarsi. E acciocchè alcuno non sospicasse, lei alcuna gran cosa voler fare, non più terreno che quanto potesse circundare una pelle di bue mercato da quelli della contrada, la quale in molte parti minutissimamente fatta dividere, assai più che alcuno estimato non averebbe occupò di terreno. E quivi fatti e’ fondamenti, fece edificare la città, la quale chiamò Cartagine. E acciocchè più animosamente, e con maggiore speranza i compagni adoperassono, a tutti fece mostrare i tesori, li quali essi credeano aver gittati in mare. Per la qual cosa subitamente le mura della città, le torri e’ templi, il porto e gli edificii cittadini saliron su: e apparve non solamente la città esser bella, ma ancora potente e a difendersi e a far guerra. E essa date le leggi e il modo del vivere al popol suo onestamente vivendo, da tutti fu chiamata reina. Ed essendo per Affrica sparta la fama della sua bellezza e della sua onestà, e della prudenza e del valore, avvenne che il re de’ Mussitani, non guari lontano da Cartagine, venne in desiderio d’averla per moglie; e fatti alcuno de’ principi di Cartagine chiamare, la dimandò loro per moglie, affermando se data non gli fosse, esso disfarebbe la città fatta, e caccerebbe loro e lei. Li quali conoscendo il fermo proponimento di lei di sempre servar castità, [p. 29 modifica]temeter forte le minacce del re, e non ardirono di dire a Didone domandantene, ciò che dal re avevano avuto, ma dissero che il re desiderava di lasciare la vita e i costumi barbari, e d’apprendere quegli de’ Fenici, perciò voleva alquanti di loro che in ciò l’ammaestrassero: e dove questi non avesse, minacciava di muover guerra loro e disfare la città. E però, conciofossecosachè essi non sapessono chi di loro ad esser con lui andar si volesse, temevan forte, non quello avvenisse che il re minacciava. Non s’accorse la reina dell’astuzia, la quale usavano coloro che le parlavano, e però rivolta a loro disse: o nobili cittadini, che miseria di cuore è la vostra? Non sapete voi che noi nasciamo al padre e alla patria? nè si può dirittamente dire cittadino colui, il quale non che altro pericolo, ma ancora se il bisogno il richiede, non si dispone con grande animo alla morte per la salute della patria? Andate adunque, e lietamente con piccolo pericolo di voi rimovete il minacciato incendio dalla vostra città. Come i nobili uomini udirono questa riprensione fatta loro dalla reina, così parve loro avere da lei ottenuto quello che essi desideravano; e iscoperserle la verità di ciò che il re domandato avea. La qual cosa, come la reina ebbe udita così s’accorse, sè medesima avere contro a sè data la sentenza e approvato il maritaggio; e seco medesima si dolse, nè ardi d’opporsi allo inganno che i suoi uomini aveano usato. Ma subitamente seco prese quel consiglio che all’onestà della sua pudicizia le parve di bisogno, e rispose, che se termine le fosse dato, che ella andrebbe volentieri al marito. Ed essendole certo [p. 30 modifica]termine conceduto a dovere andare al marito, e quello appressandosi, nella più alta parte della citta fece comporre un rogo, il quale estimarono i cittadini ella facesse, per dovere con alcun sacrificio rendersi benivola l’anima di Sicheo, alla quale le parea romper fede. E compiuto il rogo, vestita di vestimento bruno, e servate certe cerimonie, e uccise secondo la loro consuetudine certe ostie, montò sopra il rogo, e aspettante tutta la moltitudine de’ cittadini quello che essa dovesse fare, si trasse di sotto a’ vestimenti un coltello, sei pose al petto, e chiamato Sicheo disse: o ottimi cittadini, così come voi volete, io vado al mio marito. E appena finite le parole, vi si lasciò cadere suso, con grandissimo dolore di tutti coloro che la viddero: e invano aiutata, versando il castissimo sangue passò di questa vita. Virgilio non dice così ma scrive nello Eneida, che avendo Pigmalione occultamente ucciso Sicheo, e tenendo la sua morte nascosa a Didone, Sicheo l’apparve una notte in sogno, e revelolle ciò che Pigmalione avea fatto; ed insegnatole dove i suoi tesori erano ascosi, la confortò che ella si partisse di quel paese; per la qual cosa ella presi i tesori e fuggitasi, avvenne che facendo ella far Cartagine, Enea dopo il disfacimento di Troia partitosi, per tempesta arrivò a Cartagine, dove egli fu ricevuto e onorato da lei; e con lei avuta dimestichezza per alcun tempo, lasciatala malcontenta si partì per venire in Italia: di che ella per dolore s’uccise. Ia quale opinione, per reverenza di Virgilio io approverei, se il tempo nol contrariasse. Assai manifesta cosa è, Enea il settimo anno dopo il [p. 31 modifica]disfacimento di Troia, esser venuto secondo Virgilio a Didone: e Troia fu distrutta l’anno del mondo, secondo Eusebio 4020. E il detto Eusebio scrive, essere opinion d’alcuni, Cartagine essere stata fatta da Carchedone Tirio: e altri dicono Tidadidone sua figliuola, dopo Troia disfatta 143 anni, che fu l’anno del mondo 4163. E in altra parte scrive essere stata fatta da Didone l’anno del mondo 4186. E ancora appresso senza nominare alcun facitore, scrive alcun tenere Cartagine essere stata fatta l’anno del mondo 4347. De’ quali tempi, alcuno non è conveniente co’ tempi d’Enea; e perciò non credo che mai Enea la vedesse. E Macrobio in libro Saturnaliorum del tutto il contradice, mostrando la forza dell’eloquenza essere tanta, che ella aveva potuto far sospettar coloro che sapevano la storia certa di Dido, e credere che ella fosse secondochè scrive Virgilio. Fu adunque Dido onesta donna: e per non romper fede al cener di Sicheo s’uccise. Ma l’autore seguita qui come in assai cose fa, l’opinion di Virgilio, e per questo si convien sostenere.

Poi e Cleopatras lussuriosa.

Credo l’autore aver posto questo adiettivo a costei, a differenza di più altre Cleopatre che furono, delle quali alcuna non ne fu, per quel che si legge, così viziata di questo vizio, come costei della qual qui intende.

Cleopatras fu reina d’Egitto, e per molti re medianti trasse origine da Tolomeo, figliuolo di Lago di Macedonia: e piace ad alcuni, lei essere stata [p. 32 modifica]figliuola di Tolomeo Dionisio re d’Egitto. Altri dicono il padre di lei essere stato Tolomeo Aulete, similmente re d’Egitto, il quale essendo amicissimo del popolo di Roma, e avendo quattro figliuoli, due maschi e due femmine, venendo a morte, lasciò al tempo del primo consolato di Giulio Cesare per testamento, che il maggior de’ figliuoli, il quale fu nominato Lisania, presa per moglie Cleopatra sua sirocchia, e di più di che l’altra insieme dopo la sua morte regnassero: la qual cosa per li Romani fu mandata ad esecuzione. Ma ardendo Cleopatra di desiderio di regnar sola, il suo marito e fratello fece morir di veleno e sola tenne il reame. Ma avendo già Pompeo Magno quasi tutta l’Asia costretta ad ubbidire a’ Romani, venendo in Egitto, privò Cleopatra del reame, e fecene re il minor fratello ancora assai giovanetto. Della qual cosa indegnata Cleopatra, come piuttosto potè gli mosse guerra; e perseverando in essa, avvenne che Pompeo vinto da Cesare in Tessaglia, e dal giovane Tolomeo fatto uccidere in Egitto, e seguitandolo Cesare, pervenuto in Alessandria, e trovando Cleopatra in guerra contro al fratello, amenduni gli fece davanti a se chiamare, per udir le ragioni di ciascuna parte. Davanti al quale dovendo venir Cleopatra, avendo della sua formosità gran fidanza, perciocchè bella femmina fu, ornata di reali vestimenti comparì: e assai leggiermente le venne fatto di prender con gli occhi e con gli atti suoi il libidinoso principe. Di che seguì, che avendo Cesare più notti comuni avute con lei: ed essendo già il giovane Tolomeo annegato a Delta, dove contro [p. 33 modifica]a Mitridate Pergameno, che in aiuto di Cesare veniva, andato era; Cesare le concedette il reame d’Egitto, menatone Arsinoe sirocchia di Cleopatra, acciocchè per lei non fosse suscitata nel regno alcuna novità. Essendo dunque Cleopatra reina, e in istato tranquillo, in tutte quelle lascivie si diede che dar si possa disonesta femmina: e desiderosa di ragunar tesori e gioie, quasi di tutti i re orientali disonestamente divenne amica. Nè le fu questo assai: ma tutti i templi d’Egitto, e le sagre case spogliò di vasellamenti, di statue e di tesori. Appresso questo, essendo già stato ucciso Cesare, e Bruto e Cassio vinti da Ottaviano e da Antonio; al detto Antonio vegnente in Siria si fece incontro in forma d’onorarlo: e lui, non altrimenti che Cesare aveva fatto, prese e inretì del suo amore, e lui indusse innanzi ad ogni altra cosa, acciocchè senza alcuna sospizione del regno rimanesse, a fare uccidere Arsinoe sua sirocchia, non ostante che essa per sua salute rifuggita fosse nel tempio di Diana Efesia. E avendo già invescato nella sua dilezione Antonio,4 ardì di chiedergli il reame di Siria e d’Arabia, li quali col suo terminavano. La qual domanda parendo troppo grande ad Antonio non gliele diede, ma per sodisfare alquanto, le diede di ciascuno alcuna particella. Poi avendo ella accompagnato Antonio, il quale andava in Pania, infino al fiume di Eufrate, e tornandosene, ne venne per Siria, dove magnificamente fu ricevuta da Erode re, poco davanti per opera d’Antonio stato coronato di [p. 34 modifica]quel reame: laddove ella non dubitò di fare per interposita persona tentare Erode della sua dimestichezza, sperando, se a quella il potesse inducere, di dovergli sottrarre il reame di Siria. Di che accorgendosi Erode, per levare da dosso ad Antonio l’ignominia di costei diliberò d’ucciderla; ma dagli amici da ciò ritratto, donatole grandissimi doni, la lasciò tornare in Egitto: dove dopo alquanto ricevuto Antonio, il quale in fuga da’ Parti s’era tornato, essendo in lei l’ardor cresciuto del signoreggiare, fu di tanta presunzione, che ella li chiese l’imperio di Roma, e Antonio fu tanto bestiale che gliele promise. Ed essendo già alcuna cagione nata di guerra tra Antonio e Ottaviano, per l’avere egli repudiata Ottavia sua moglie e sirocchia d’Ottaviano, e presa per moglie Cleopatra, prepararono una grande armata navale, ornata con vele di porpore, e con altri assai arredi preziosissimi, su montativi n’andarono in Epiro: dove venuto già Ottaviano, e avendo combattuto in terra, e vinta la gente di Antonio, si recarono a volere provare la fortuna del mare; nella quale parendo già Ottaviano dovere vincere, prima a tutti gli altri fuggì Cleopatra, la cui nave aveva la vela d’oro, e lei seguitarono sessanta delle sue navi; la quale incontanente Antonio, gittati via della sua nave tutti gli ornamenti pretoriani, seguitò: e pervenuti in Alessandria, e ogni sforzo fatto a dover resistere ad Ottaviano, lui vegnente aspettarono. Il quale avendo molto le lor forze diminuite, domandò Antonio le condizioni della pace, le quali non potendo avere, disperatosi entrò nel luogo dove erano [p. 35 modifica]usati di seppellirsi i re, e quivi sè medesimo uccise. Ed essendo poi presa Alessandria, estimando Cleopatra con quelle medesime arti poter pigliare Ottaviano, che primieramente Cesare e Antonio presi avea; e trovandosi del suo pensiero ingannata, udendo che servata era da Ottaviano al triunfo, turbata e con difficultà d’animo sofferendo di dover divenire spettacolo de’ Romani, vestendosi i reali ornamenti là se n’entrò dove il suo Antonio giaceva morto, e postasi a giacere allato a lui, e fattesi aprire le vene delle braccia, a quelle si pose una spezie di serpenti, chiamati inali, il veleno de’ quali ha ad inducer sonno, e a far dormendo morire il trafitto, è così addormentata si morì. Quantunque avendo ciò udito Ottaviano, si sforzasse di ritenerla in vita, fatti venire alcuni di que’ popoli che si chiamano Psilli, e fatto lor porre la bocca alle pugniture del braccio, e tirar fuori l’avvelenato sangue da’ serpenti; ma ciò fu fatica perduta, perciocchè la forza del veleno aveva già ucciso il cuor di lei. Sono nondimeno alcuni che dicono5, lei davanti a questo tempo morta, e d’altra spezie di morte; dicendo che avendo Antonio temuto, non nell’apparecchiamento della guerra contro ad Ottaviano, Cleopatra con la morte di lui si facesse benivolo Ottaviano, niuna cosa era usato di bere nè di mangiare, che primieramente non la facesse assaggiare ad altrui: di che essendosi Cleopatra avveduta, a farlo chiaro della sua fede verso di lui, avvelenò i fiori delle ghirlande le quali il dì davanti portate [p. 36 modifica]aveano: e postesi quelle in capo, mise in festa e in trastullo Antonio, e tanto procedette col trastullo della festa, che ella l’invitò a dover bere le loro ghirlande, e messe i fiori di quelle in un nappo, dove era quello, o vino, o altro che ber si dovea: e volendolo Antonio bere, ella il ritenne, e vietò che nol bevesse, e disse: Antonio, amantissimo a me, io son quella Cleopatra, la quale con queste tue disusate pregustazioni tu mostri d’aver sospetta: e però se io potessi sofferire che tu bevessi quello di che tu hai paura, e tempo n’ho, e tu me n’hai data cagione: e quindi mostratogli l’inganno il quale adoperato avea ne’ fiori, dicono che Antonio la fece prendere e guardare, e costrinsela a bere quel beveraggio, il quale ella aveva a lui vieetato che nol bevesse, e così lei vogliono esser morta. La prima opinione è più vulgata: senza che a quella s’aggiugne, che avendo Antonio ed ella cominciata una magnifica sepoltura per loro, Ottaviano comandò che compiuta fosse, e che amenduni in essa fossero seppelliti. Elena vidi, in questa schiera, per cui, cioè per la quale, tanto reo Tempo si volse, cioè tanta lunga dimension di tempo, la quale per le circunvoluzioni del cielo misurata passò: la quale lunga dimension di tempo fu, per ispazio di venti anni, cioè dal dì che Elena fu rapita, al di che a Menelao fu restituita; perciocchè tanto stette Elena in Troia, e al alquanto più, siccome Omero nell’ultimo libro della sua Iliada dimostra, laddove lei piangendo sopra il morto corpo di Ettore, fa dire quasi queste parole, che essendo ella stata venti anni appo Priamo e i figliuoli, mai Ettore non l’avea detta [p. 37 modifica]una ingiuriosa parola. È il vero che di questi venti anni non fu l’assedio continuato intorno ad Ilione, se non i dieci ultimi anni: e però si può intendere, li dieci primi essersi consumati, e nel raddomandare Elena, il che più volte per ambasceria fecero, e nel sommuovere tutta Grecia alla impresa contro a’ Troiani, e nel dar ordine e nel fare l’apparecchio delle cose opportune a tanta guerra. E il vero che gli ultimi diece furono molto piggiori che i primi, perciocchè in essi furono dintorno ad Ilione fatte molte battaglie, e in esse furono uccisi molti valenti uomini e popolo assai.

Elena, fingono i poeti essere stata figliuola di Giove e di Leda moglie di Tindaro re d’Oebalia, e lui dicono in forma di cigno, con lei, bellissima donna e madre d’Elena, esser giaciuto, narrando in questa forma la favola di Giove ec. Ma le istorie vogliono lei essere stata figliuola di Tindaro re d’Oebalia e dì Leda, e sirocchia di Castore e di Polluce. Fu la bellezza di costei tanto oltre ad ogn’altra maravigliosa, che ella non solamente a discriversi con la penna faticò il divino ingegno d’Omero, ma ella ancora molti solenni dipintori e più intagliatori per maestero famosissimi stancò: e intra gli altri, siccome Tullio nel secondo dell’arte vecchia scrive, fu Zeusis Eracleate, il quale per ingegno e per arte tutti i suoi contemporanei e molti de’ predecessori trapassò. Questi condotto con grandissimo prezzo da’ Crotoniesi a dover la sua effigie col pennello dimostrare, ogni vigilanza pose, premendo con gran fatica d’animo tutte le forze dell’ingegno suo; e non avendo alcun [p. 38 modifica]altro esemplo a tanta operazione che i versi d’Omero, e la fama universale che della bellezza di costei correa, aggiunse a questi due un esemplo assai discreto; perciocchè primieramente si fece mostrare tutti i be’ fanciulli di Crotone, e poi le belle fanciulle, e di tutti questi elesse cinque, e delle bellezze de’ visi loro, e della statura e abitudine de’ corpi, aiutato da’ versi d’Omero, formò nella mente sua una vergine di perfetta bellezza, e quella, quanto l’arte potè seguir l’ingegno, dipinse; lasciandola siccome celestial simulacro alla posterità per vera effigie d’Elena. Nel quale artificio forse si potè abbattere l’industrioso maestro alle lineature del viso, al colore e alla statura del corpo: ma come possiam noi credere, che il pennello e lo scarpello possano effigiare la letizia degli occhi, la piacevolezza di tutto il viso, e l’affabilità e il celeste riso, e i movimenti varii della faccia, e la decenza delle parole, e la qualità degli atti? Il che adoperare è solamente oficio della natura. E perciocchè queste cose erano in lei esquisite, nè vedeano i poeti a ciò poter bastare la penna loro, la fìnsero figliuola di Giove, acciocchè per questa divinità ne desser cagione di meditare qual dovesse essere il fulgore degli occhi suoi, quale il candore del mirabile viso, quanta e quale la volatile e aurea chioma, da questa parte e da quella con vezzosi cincinnuli sopra li candidi omeri ricadente; quanta fosse la soavità della dolce e sonora voce, e ancora certi atti della bocca vermiglia, e della splendida fronte, e della gola d’avorio, e le delizie del virginal petto, con le altre parti nascose da’ vestimenti. Da questa tanto [p. 39 modifica]ragguardevole bellezza, fu Teseo figliuolo d’Egeo re d’Atene tirato in Oebalia a volerla rapire: la quale esso là trovata giucare, secondo il lor costume, nella palestra con gli altri fanciulli di sua età, conosciutala la rapì, e portonnela ad Atene: e quantunque per la troppo tenera età altro che alcun bacio torre non le potesse, pure alquanto maculò la verginale onestà. Qui si può muovere un dubbio, conciosiacosachè tutti gli antichi scrittori a questo s’accordino, che Teseo prima, e poi Paris la rapissono, come questo debba potere essere. Fu nondimeno poi costei da Elettra madre di Teseo, non essendo Teseo in Atene, renduta a Castore e a Polluce suoi fratelli raddomandantila. Altri dicono che Teseo l’avea raccomandata a Proteo re d’Egitto, e che esso in assenza di Teseo l’aveva renduta a’ fratelli. Poi appresso essendo pervenuta ad età matura, fu maritata a Menelao re di Lacedemonia: e dopo alquanto tempo, essendo esso andato in Creti, fu da Paris Troiano rapita di Lacedemonia e portatane in Troia: e secondochè alcuni dicono, di consentimento di lei. Altri dicono che ella fu dal detto Paris rapita d’un’isola chiamata Citerea, dove ella ad un certo sacrificio che vi si faceva, secondo il costume antico vegghiava la notte nel tempio dello Dio, al quale il sacrificio facevano, con l’altre donne della contrada. E son di quelli che affermano senza sua saputa, o volontà questo essere stato fatto (Qui del modo del vegghiare, e come di qua il recarono i Marsillesi, e donde vennero le vigilie.) In Troia dimorò venti anni, come di sopra dicemmo: ed essendo stato ucciso Paris da Pirro, si rimaritò a Deifebo suo [p. 40 modifica]fratello: e per quel che paia voler Virgilio, essendosi secondo l’ordine del trattato i Greci ritrattisi indietro da Ilione, e fatto sembiante d’andarsene: ed ella sapendolo, ed essendo a ciò consenziente, quando vide il tempo atto al desiderio de’ Greci, con un torchio acceso diede lor segno al venire; di che essi tornati, e preso Ilione e disfatto, e ricevuta lei, la restituirono a Menelao: il quale dicono che volentieri la ricevette. E altri vogliono essere la cagione, perciocchè non di sua volontà fu rapita; altri perciocchè tenne al trattato, e diede il cenno a’ Greci di ritornare. E tornandosi costei con Menelao in Grecia, da noiosa tempesta di mare ne furono portati in Egitto, e quivi da Polibo re onorevolmente ricevuti. E oltre a questo essendo da diversi casi ritenuti, l’ottavo anno, dopo la distruzion d’Ilione, tornarono in Lacedemonia: dove scrive Omero nella sua Odissea, che Telemaco figliuolo di Ulisse, essendo venuto per domandar Menelao se alcuna cosa dir gli sapesse d’Ulisse, gli trovò far festa e nozze grandissime, avendo Menelao dato moglie ad un suo figliuolo non legittimo chiamato Megapenti; e da questo tempo innanzi, mai che di lei si fosse non mi ricorda aver trovato: e vidi ’l grande Achille, Che con amore, cioè per amore, al fine, della sua vita, combatteo, contro a Paride e agli altri che nel tempio d’Apollo Timbreo l’assalirono e uccisono, nel quale Ecuba l’aveva occultamente e falsamente fatto venire, avendo promesso di dargli per moglie Polissena.

Achille fu figliuolo di Peleo e di Tetide minore, nelle cui nozze ec. non fu invitata la dea della [p. 41 modifica]discordia ec. e fu d’una citta di Tessaglia, secondo che Omero scrive nella Iliada, chiamata Ptia: il quale, secondochè i poeti scrivono, come nato fu, dalla madre fu portato in inferno, e acciocchè egli divenisse forte e paziente delle fatiche, e presolo per lo calcagno, tutto il tuffò nel fiume, ovvero nell’onde di Stige palude infernale, fuori che il calcagno di lui, il quale teneva con mano; e questo fatto, il diede a Chiron centauro che lo allevasse: il quale il nutricò, non in quella forma che gli altri tutti si sogliono nutricare, ma gli faceva apparecchiare il cibo suo solamente di midolla d’ossa di bestie prese da lui. E questo faceva acciocchè egli per continuo esercizio si facesse forte e destro a sostenere le fatiche. E per questo solea dir Leon Pilato, lui essere stato nominato Achille, ab a che tanto vuol dire, quanto senza, e chilo, che tanto vuol dire, quanto cibo, quasi uomo nutricato senza cibo. Insegnò Chiron a costui astrologia e medicina, e sonare certi istrumeuti di corda, Ma come la madre di lui sentì essere stata rapita da Paride Elena, conoscendo per sue arti che gran guerra ne seguirebbe, e che in quella sarebbe il figliuolo ucciso, s’ingegnò di schifargli con consiglio questo male, se ella potesse: e lui dormente, e ancora fanciullo senza barba, nascosamente della spelonca di Chirone il trasse, e portonnelo in una isola chiamata Sciro, dove regnava un re chiamato Licomede: e con vestimenti femminili, avendolo ammaestrato che a niuna persona manifestasse sè esser maschio, quasi come fosse una vergine gliele diede, che il guardasse tra le figliuole. Ma questo non potè lungamente [p. 42 modifica]essere occulto a Deidamia, figliuola di Lìcomede, cioè che egli fosse maschio, col quale essa preso tempo atto a ciò si giacque, e per la comodità la quale aveva di questo suo piacere, ad alcuna persona non manifestava quello essere che essa avea conosciuto. E tanto continuò la lor dimestichezza, che essa di lui concepette un figliuolo, il quale poi chiamaron Pirro. Ma poichè i Greci ebbero tutti fatta congiurazione contro a’ Troiani, avendo per risponso avuto non potersi Troia prendere senza Achille, messisi ad investigare di lui, con la sagacità d’Ulisse fu trovato e menato a Troia: dove andando prese più città di nemici e grandissima preda, e una figliuola del sacerdote d’Apolline, la qual donò ad Agamennone, e un’altra che presa n’avea, chiamata Briseida, guardò per sè. Ed essendo convenuto per risponso degli iddii, che Agamennone avesse la sua restituita al padre, tolse Briseida ad Achille: della qual cosa turbato Achille, non si poteva fare, nè per preghi nè per consiglio, che egli volesse combattere contro a’ Troiani. Perchè essendo i Greci un dì fieramente malmenati da’ Troiani, avendo egli concedute le sue armi e il carro a Patroclo, e Patroclo essendo stato ucciso da Ettore, turbato s’armò: e vinto e ucciso Ettore, e strascinatolo, e poi tenutolo senza sepoltura dodici dì, e ultimamente rendutolo a Priamo; e poi perseverando nel combattere, avendo ucciso Troilo fratello di Ettore, suspicò Ecuba, costui non doverle alcun de’ figliuoli lasciare, perchè con lui tenne segreto trattato di dovergli dare Polissena sua figliuola per moglie, dove egli le promettesse più non [p. 43 modifica]prendere arme contro a’ Troiani. Amava Achille Polissena maravigliosamente, perciocchè ne’ tempi delle tregue veduta l’avea, ed eragli oltre ad ogn’altra femmina paruta bella. Ed essendo dunque esso in convenzion con Ecuba, secondochè ella gli mandò dicendo, solo e disarmato andò una notte nel tempio d’Apollo Timbreo, il quale era quasi allato alle mura d’Ilione, credendosi quivi trovare che Ecuba e Polissena,| ma come egli fu in esso, gli uscì sopra Paris con certi compagni; ed essendo Paris mirabilmente ammaestrato nell’arte del saettare, aperto l’arco, il ferì d’una saetta nel calcagno, perciocchè sapeva lui in altra parte non potere esser ferito: perchè Achille, fatta alcuna ma piccola difesa, cadde, e fu ucciso, e poi seppellito sopra l’uno de’ promontorii di Troia, chiamato Sigeo: Vidi Paris. Paris, il quale per altro nome fu chiamato Alessandro, fu figliuolo di Priamo e di Ecuba: del quale Tullio in libro de Divinatione scrive, che essendo Ecuba pregna di quella pregnezza della quale ella partorì Paris, le parve una notte nel sonno partorire una faccellina, la quale ardeva tutta Troia. Il qual sogno essa raccontò a Priamo: del significato del qual sogno Priamo fece domandare Apollo; il quale rispose, che per opera del figliuolo, il quale nascer dovea di questa grossezza, perirebbe tutta Troia. Per la qual cosa Priamo comandò, che il figliuolo che nascesse ella il facesse gittar via. Ma essendo venuto il tempo del parto, e avendo Ecuba partorito un bel fanciullo, ebbe pietà di lui, e nol fece secondo il comandamento di Priamo gittar via, ma il fece occultamente dare a certi pastori del re che [p. 44 modifica]l’allevassero: e così da questi pastori fu allevato nella selva chiamata Ida, non guari dilungi da Troia. Ed essendo divenuto grande, quivi primieramente usò la dimestichezza d’una ninfa del luogo chiamata Oenone, e di lei ebbe due figliuoli, de’quali chiamò l’uno Dafne e l’altro Ideo. E dimorando in abito pastorale in quella selva, addivenne un grande e un famoso giudice, e ogni quistione tra qualunque persona, con maravigliosa equità decideva. Per la qual cosa perduto quasi il vero nome, cioè Alessandro, era da tutti chiamato Paris, quasi eguale. E in questo tempo che esso così dimorava avvenne, che Peleo menò per moglie Teti, e alle sue nozze invitò Giunone, Pallade e Venere: di che gravandosi la dea della discordia, che essa non v’era stata chiamata, preso un pomo d’oro vi scrisse su, che fosse dato alla più degna: e gittollo sopra la mensa alla quale esse sedieno. Di che, lette le lettere, ciascuna delle tre dee diceva a lei, siccome a più degna, doversi il detto pomo. Ed essendo tra loro la quistione grande, andarono per lo giudicio a Giove, il quale Giove non volle dare, ma disse loro: andate in Ida, e quivi è un giustissimo uomo chiamato Paris, quegli giudicherà qual di voi ne sia più degna. Per la qual cosa le tre dee andarono nella selva, e trovarono Paris in una parte di quella selva chiamata Mesaulon: e quivi proposero davanti a lui la lor quistione, dicendo Giunone: io sono dea de’ regni: se tu dirai me più degna di queste altre di questo pomo, io ti farò signore di molti. D’altra parte diceva Pallade: io sono dea della sapienza: se tu il dai a me, io ti farò tutte le [p. 45 modifica]cose cognoscere e sapere. Venere similemente diceva: io sono dea d’amore: se tu dai, come a più degna, a me il pomo, io ti farò avere l’amore e la grazia della più bella donna del mondo. Le quali udite da Paris, dopo alcuna diliberazione, egli diede il pomo a Venere, siccome a più degna. Per la qual cosa, come appresso si dirà, egli ebbe Elena. Fu costui, secondochè Servio dice essere stato da Nerone raccontato nella sua Troica, fortissimo: intantochè esso nelle contenzioni agonali, le quali si facevano a Troia, esso vinceva ogni uomo, ed Ettor medesimo: il quale turbatosi d’essere da lui stato vinto, credendo lui essere un pastore, messo mano ad un coltello il volle uccidere: e arebbel fatto, se non che Paris, che già da’ suoi nutritori saputo l’avea, gridò forte: io sou tuo fratello; e che ciò fosse vero provò, mostrate le sue crepunde6, le quali Ecuba vedute conobbe; e così fu riconosciuto, e ricevuto nella casa reale di Priamo suo padre. Nella quale non guari di tempo dimorò, che essendo per mandato di Priamo composte venti navi, sotto spezie d’ambasciadore a raddomandare Esiona fu mandato in Grecia; dove alcuni vogliono, e tra questi è Ovidio nelle sue pistole, che esso fosse ricevuto e onorato da Menelao. Ma altri dicono, lui essere in Lacedemonia venuto, non essendovi Menelao, e di quindi alla fama della bellezza d’Elena essere andato in Isparta, e quella avere combattuta il primo anno del regno d’Agamennone, non [p. 46 modifica]essendovi Castore nè Polluce fratelli di Elena, li quali ad Agamennone erano andati, e seco aveano menata Ermione figliuola di Menelao e d’Elena. E così avendo presa la città presero Elena, resistente quanto potea, e oltre a ciò tutti i tesori di Menelao; e ogni cosa posta sopra le navi andò via: la qual cosa assai elegantemente tocca Virgilio quando dice:

Me duce, Dardanius Spartam expugnavit adulter? etc.

E per questo voglion molti, preso da’ Greci Ilione, Elena aver meritato d’essere stata ricevuta da Menelao. E così Paris ebbe la più bella donna di Grecia, secondo la promessa di Venere, la quale in Troia menatane, vi portò quella faccellina, la quale Ecuba essendo gravida in lui aveva nel sonno veduta che tutta Troia ardea. Adunque per questa rapina congiurati i Greci insieme, vennero ad assediare Ilione: nel quale essendo prima stato ucciso Ettore, e poi Troilo, esso medesimo Paris fu ucciso da Pirro, figliuolo d’Achille: Tristano: Tristano, secondo i romanzi di Francia, fu figliuolo del re Meliadus, e nepote del re Marco di Cornovaglia: e fu secondo i detti romanzi prò’ uomo della persona e valoroso cavaliere: e d’amore men che onesto amò la reina Isotta, moglie del re Marco suo zio, per la qual cosa fu fedito dal re Marco d’un dardo avvelenato. Laonde vedendosi morire, ed essendo la reina andata a visitarlo, l’abbracciò, e con tanta forza la si strinse al petto, che a lei e a lui scoppiò il cuore, e così insieme morirono, e poi furono [p. 47 modifica]similmente seppelliti insieme. Fu costui al tempo del re Artù e della tavola ritonda. Egli ancora fu de’ cavalieri di quella tavola: e più di mille

Ombre mostrommi, e nominolle a dito,

dice mille, quasi molte, usando quella figura la qual noi chiamiamo iperbole: Ch’amor, cioè quella libidinosa passione la qual noi volgarmente chiamiamo amore, di nostra vita dipartille, con disonesta morte; perciocchè per quello morendo, onestamente morir non si puote. Poscia ch’io ebbi. Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella qual dissi, che l’autore con alcuni spiriti dannati a questa pena parlava, e dice:

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
Nomar le donne antiche e i cavalieri,

che di sopra ha nominati,

Pietà mi vinse, e fui quasi smarrito.

In queste parole intende l’autore d’ammaestrarci, che noi non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene de’ dannati; ma visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro, che dalla divina giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver pietà, e dover temere di non dovere in quella dannazion pervenire, e compugnerci ed affliggerci, acciocchè tal meditazione ci sospinga a quelle cose aoperare le quali di tal pericolo ne tragghino, e dirizzinci in via di salute. E usa l’autore di mostrar di sentire alcune passioni, quando maggiore, e quando minore in ciascun luogo: e quasi dove alcun [p. 48 modifica]peccato si punisce del quale esso conosca sè medesimo peccatore. E avuta questa passione al suo difetto seguita:

Io cominciai: Poeta, volentieri
Parlerei a que’ due, che ’nsieme vanno,

essendo da quella bufera portati,

Che paiono sì al vento esser leggieri,

cioè con minor fatica volanti.

Ed egli a me: vedrai quando saranno,

menati dal vento,

Più presso a noi, e tu allor gli prega,

Per quell’amor, ch’ei mena; qual che quello amor sia, ed ei verranno, qui, da quell’amor per lo qual pregati fieno costretti,

Sì tosto, come ’l vento a noi gli piega,

Muovi la voce, cioè prega come detto t’ho; per la qual cosa 1’autor verso di sè venir gli vide, cominciò a dire in questa guisa, o anime affannate, dal tormento della noia di questo vento,

Venite a noi parlar, s’altri nol niega,

cioè se voi potete. Quali colombe. Qui l’autore per una comparazione ne dichiara con quanta affezione, quelle due anime chiamate, venissero a lui: Quali colombe dal desio, di rivedere i figliuoli, chiamate, cioè incitate, Con l’ali alzate, volando, e ferme, con l’affezione, al dolce nido, nel quale i figliuoli hanno lasciati, per dover cercar pastura per li figliuoli e per loro, Vengon per l’aer, verso il nido, dal voler portate; perciocchè gli animali non razionali, non hanno altra guida nella loro affezione che [p. 49 modifica]la volontà. Cotali uscir, questi due, della schiera, ov’è Dido, la qual di sopra disse, che andavano per quello aere a guisa che volano i gru,

A noi venendo per l’aer maligno,

quanto è a loro che quivi tormentati erano; Sì forte, cioè sì potente, fu l’affettuoso grido, cioè prego: non si dee credere che l’autor gridasse: e venuti disson così,

O animal grazïoso, e benigno,

chiamanlo perciò grazioso e benigno, perchè benignamente pregò: il che laggiù non suole avvenire, anzi vi si usa per li ministri della divina giustizia rigidamente comandare:

Che visitando vai per l’aer perso, (cioè oscuro)
Noi, che tignemmo ’l mondo di sanguigno,

quando uccisi fummo; perciocchè versandosi il lor sangue, dovunque toccò tinse di color sanguigno. Se fosse amico, di noi, come egli è nemico, il re dell’universo, cioè Iddio,

Noi pregheremmo lui della tua pace,

cioè che pace ti concedesse,

Poic’hai pietà del nostro mal perverso,

non al nostro tormento:

Di’ quel ch’udire, e che parlar ti piace:
Noi udiremo, e parleremo a vui,

rispondendo a quelle cose delle quali domanderai, Mentre, che ’l vento, cioè quella bufera, come fa, al presente, si tace, cioè non c’infesta. Siede la terra. Qui comincia costei a manifestare sè medesima, senza esser domandata; ciò fa per mostrarsi più pronta a’ suoi piaceri. Ma prima che più avanti si [p. 50 modifica]proceda, è da raccontare chi costei fosse, e perchè morta, acciocchè più agevolmente si comprenda quello che essa nelle sue seguenti parole dimostra. È adunque da sapere, che costei fu figliuola di messer Guido vecchio da Polenta, signor di Ravenna e di Cervia: ed essendo stata lunga guerra e dannosa tra lui e i signori Malatesti da Rimino, addivenne che per certi mezzani fu trattata e composta la pace tra loro. La quale, acciocchè più fermezza avesse, piacque a ciascuna delle parti di dover fortificar per parentado e ’l parentado trattato fu, che il detto messer Guido dovesse dar per moglie una sua giovane e bella figliuola, chiamata madonna Francesca, a Gianciotto figliuolo di messer Malatesta. Ed essendo questo ad alcuno degli amici di messer Guido già manifesto, disse un di loro a messer Guido: guardate come voi fate, perciocchè se voi non prendete modo ad alcuna parte, che in questo parentado egli ve ne potrà seguire scandolo. Voi dovete sapere chi è vostra figliuola, e quanto ell’è d’altiero animo, e se ella vede Gianciotto, avantichè il matrimonio sia perfetto, nè voi nè altri potrà mai fare che ella il voglia per marito: e perciò, quando vi paia, a me parrebbe di doverne tener questo modo: che qui non venisse Gianciotto ad isposarla, ma venisseci un de’ frategli, il quale come suo procuratore la sposasse in nome di Gianciotto. Era Gianciotto uomo di gran sentimento, e speravasi dover lui dopo la morte del padre rimanere signore, per la qual cosa, quantunque sozzo della persona e sciancato fosse, il disiderava messer Guido per genero piuttosto che alcuno de’ suoi [p. 51 modifica]frategli. E conoscendo quello che il suo amico gli ragionava dover poter venire, ordinò segretamente cosi si facesse come l’amico suo l’avea consigliato. Perchè al tempo dato, venne in Ravenna Polo, fratello di Gianciotto, con pieno mandato ad isposare madonna Francesca. Era Polo bello, e piacevole uomo e costumato molto; e andando con altri gentiluomini per la corte dell’abitazion di messer Guido, fu da una delle damigelle di là entro, che il conoscea, dimostrato da un pertugio d’una finestra a madonna Francesca, dicendo: quelli è colui che dee esser vostro marito: e così si credea la buona femmina: di che madonna Francesca incontanente in lui pose l’animo e l’amor suo. E fatto poi artificiosamente il contratto delle sponsalizie, e andatone la donna a Rimino, non s’avvide prima dell’inganno, che essa vide la mattina seguente al dì delle nozze levar da lato a sè Gianciotto: di che si dee credere che ella vedendosi ingannata sdegnasse, nè perciò rimovesse dell’animo suo l’amore già postovi verso Polo. Col quale ella poi si giugnesse, mai non udii dire, se non quello che l’autore ne scrive, il che possibile è che così fosse. Ma io credo quello essere piuttosto fizion formata sopra quello che era possibile ad essere avvenuto, che io non credo che l’autore sapesse che così fosse. E perseverando Polo e madonna Francesca in questa dimestichezza, ed essendo Gianciotto andato in alcune terre vicine per podestà, quasi senza alcuno sospetto insieme cominciarono ad usare. Della qual cosa avvedutosi un singulare servidore di Gianciotto, andò a lui, e raccontógli ciò che delle [p. 52 modifica]bisogne sapea, promettendogli, quando volesse, di fargliele toccare e vedere. Di che Gianciotto fieramente turbato, occultamente tornò a Rimino, e da questo cotale, avendo veduto Polo entrar nella camera di madonna Francesca, fu in quel punto menato all’uscio della camera, nella quale non potendo entrare, che serrata era dentro, chiamò di fuora la donna, e diè di petto nell’uscio; perchè da madonna Francesca e da Polo conosciuto, credendo Polo, per fuggire subitamente per una cateratta, per la quale di quella camera si scendea in un’altra, o in tutto o in parte potere ricoprire il fallo suo, si gittò per quella cateratta, dicendo alla donna che gli andasse ad aprire. Ma non avvenne come avvisato avea, perciocchè gittandosi giù, s’appiccò una falda d’un coretto, il quale egli avea indosso, ad un ferro, il quale ad un legno di quella cateratta era; perchè, avendo già la donna aperto a Gianciotto, credendosi ella per lo non esservi trovato Polo scusare, ed entrato Gianciotto dentro, incontanente s’accorse Polo esser ritenuto per la falda del coretto, con uno stocco in mano correndo là per ucciderlo; e la donna accorgendosene, acciocchè quello non avvenisse, corse oltre presta, e misesi in mezzo tra Polo e Gianciotto, il quale avea già alzato il braccio con lo stocco in mano, e tutto si gravava sopra il colpo, avvenne quello che egli non arebbe voluto, cioè che prima passò lo stocco il petto della donna, che egli aggiugnesse a Polo. Per lo quale accidente turbato Gianciotto, siccome colui che più che sè medesimo amava la donna, ritratto lo stocco, da capo riferì Polo, e [p. 53 modifica]ucciselo: e così amenduni lasciatogli morti, subitamente si partì, e tornossi all’ufficio suo. Furono poi li due amanti con molte lacrime la mattina seguente seppelliti, e in una medesima sepoltura. Dice adunque la donna, dal luogo della sua origine cominciando, Siede cioè dimora, la terra, cioè la città di Ravenna, antichissima per quello che si crede, e fu colonia de’ Sabini; quantunque i Ravignani dicano che essa fosse posta ed edificata da’ nipoti di Noè, dove nata fui, Su la marina, del mare Adriano, al quale ella è vicina due miglia: e per alcune dimostrazioni appare che essa già fosse in sul mare, dove ’l Po discende. Nasce il Pò nelle montagne che dividono7 Italia dalla Provenza, e discendendo giù verso il mare Adriano, per trenta grossi fiumi che d’Apennino e dell’Alpi discendono diventa grossissimo fiume, e tra Mantova e Ferrara si divide in due parti, delle quali l’una ne va verso Ferrara, e l’altra ad una villa di Ferrara chiamata Francolino: e pervenuto a Ferrara, similemente si divide in due parti, delle quali l’una ne va verso Ravenna, e diciotto miglia lontano ad essa, in un luogo chiamato Primaro, mette in mare.

Per aver pace co’ seguaci sui.

Cioè co’ fiumi che mettendo in esso seguitano il corso suo, e come esso con essi mette in mare hanno pace, in quanto più non corrono. Amor, ch’al cor gentil: dimostrato per le predette descrizioni il luogo donde fu, comincia a mostrare la cagione della sua [p. 54 modifica]morte; e primieramente dice, Polo essersi innamorato di lei, poi sè dice essersi innamorata di lui. E quantunaue questa materia d’amore vegna pienamente a dovere essere trattata nel secondo libro di questo volume, nel canto XVII. nondimeno per alcuna piccola dichiaragione alle parole che costei dice, alcuna cosa qui ne scriverò. Piace ad Aristotile esser tre spezie d’amor, cioè amore onesto, amore dilettevole, e amore utile: e quell’amore del quale qui si fa menzione, è amor dilettevole. E perciò lasciando star degli altri due, dico che questo amor per diletto chiamano i poeti Cupido, e dicono che egli fi figliuolo di Marte e di Venere, siccome Tullio nel libro de natura Deorum testimonia: e a costui attribuiscono i poeti grandissime forze, e siccome per per Seneca appare nella tragedia d’Ipolito, nella qual dice:

Et jubet coelo superos relicto
Vultibus falsis habitare terras.
Thessali Phoebus pecoris magister
Egit armentum, positoque plectro
Impari tauros calamo vocavit.
Induit formas quoties minores,
Ipse, qui coelum, nebulasque ducit?
Candidas ales modo movit alas, etc.

E oltre a ciò gli discrivono varie forme, alle quali voler recitare sarebbe troppa lunga la storia; ma vegnendo a quello che alla nostra storia appartiene, dico che questo Cupidine, o Amor che noi vogliam dire, è una passion di mente delle cose esteriori, e per li sensi corporei portata in essa, e poi approvata [p. 55 modifica]dalle virtù intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine a doverla ricevere. Perciocchè, secondochè gli astrologi vogliono, e così affermava il mio venerabile precettore V. Andalo, quando avviene che nella natività d’alcuno, Marte si trovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e trovisi essere significatore della natività di quel cotale che allora nasce, ha a dimostrare, questo cotale che allora nasce dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alì nel comento del Quadripartito, che qualunque ora nella natività d’alcuno Venere insieme con Marte participa, aver questa cotale participazione a concedere a colui che nasce una disposizione atta agl innamoramenti e alle fornicazioni. La quale attitudine ha ad adoperare, che così tosto come questo cotal vede alcuna femmina la quale da’ sensi esteriori sia commendata, incontanente quello che di questa femmina piace è portato alle virtù sensitive interiori, e questo primieramente diviene alla fantasia, e da questa è mandato alla virtù cogitativa, e da quella alla memorativa, e poi da queste virtù sensitive è trasportato a quella spezie di virtù, la quale è più nobile intra le virtù apprensive, cioè all’intelletto passibile; perciocchè questo è il ricettacolo delle spezie, siccome Aristotile scrive in libro de anima. Quivi, cioè in questo intelletto passibile, cognosciuto e inteso quello che, come di sopra è detto, portato v’è, se egli avviene che per volontà di colui nel quale è questa passione, conciosiacosachè in essa volontà sia libertà di ritenere dentro questa cosa piaciuta e di mandarla [p. 56 modifica]fuori, e questa cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è formata nella memoria la passione di questa cosa piaciuta, la qual noi chiamiano Amor, ovvero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell’appetito sensitivo, e quivi in varie cose adoperanti divien sì grande, e fassi sì potente, che egli fatica gravemente il paziente a far cose che laudevoli non sono. Spesse volte il costrigne, e alcuna volta essendo meno approvata questa tal cosa piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente: e così non è da Marte a Venere generata questa passione come alcuni stimano, ma secondochè di sopra è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione secondo le disposizioni del corpo: la quale attitudine, se non fosse questa passione, non si genererebbe. Appare adunque che questo Polo, atto nato a amare, e però come vide colei, la quale esso secondo l’ordine detto di sopra approvò, e dentro ritenne l’approbazione, subitamente fu da amor passionato e preso. E deesi qui intendere quel che dice al cor gentil, cioè flessibile, siccome quello che era atto nato a ricevere quella passione: ratto s’apprende, cioè prestamente v’è dentro ricevuta e ritenuta: Prese costui, cioè Polo, il quale mostra essere in compagnia di lei; e di che il prese? Della bella persona, la quale io ebbi vivendo: Che mi fu tolta, quando uccisa fui: e ’l modo nel quale mi fu tolta, ancor m’offende, cioè mi tormenta.

Amor, ch’a null’amato amar perdona.

Questo, salva sempre la reverenza dell’autore, non [p. 57 modifica]avviene di questa spezie di amore, divien bene dell’amore onesto, come l’autore medesimo mostra nel seguente libro nel canto XXII., dicendo,

— — — — — — amore
Acceso di virtù, sempre altro accese,
Pur che la fiamma sua paresse fuore.

Ma puossi qui dire, questo talvolta avvenire, conciosiacosachè rade volte soglia l’uomo molto strettamente legarsi dell’amore di cosa, ch’è a lui in tutto o in più cose di natura conforme; il che quando avviene, può seguitare che l’autor dice, conciosiacosachè naturalmente ogni simile appetisca suo simile: e però come la cosa amata sentirà, e’ costumi e le maniere dell’mante conformi alle sue, incontanente si dichinerà a doverlo così amare, come ella è amata da lui; così non perdonerà amore all’amato, cioè ch’egli non faccia, che questo amato ami che ama lui: Mi prese di costui piacer, cioè del piacere di costui, o del piacere a costui: in che generalmente si sforza ciascun che ama di piacere alla cosa amata: sì forte, cioè con tanta forza,

Che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Vuol dire, come tu sai andar continuo con lui, puoi comprendere che io l’amo, come l'amai mentre vivevamo. Ma in questo seguita l’autor l’opinion di Virgilio il quale mostra nel VI. dell’Eneida Sicheo perseverare nell’amor di Didone, dove dice:

Tandem corripuit sese, atque inimica refugit
In nemus umbriferum: conjux ubi pristinus illi
Respondet curis, aequatque Sichaeus amorem etc.

Secondo la cattolica verità questo non si dee [p. 58 modifica]credere, perciocchè la divina giustizia non permette, che in alcuna guisa alcun dannato abbia o possa avere cosa che al suo desiderio si conformi, o gli porga consolazione o piacere alcuno: alla quale assai manifestamente sarebbe contro, se questa donna, come vuol mostrare nelle sue parole, a sè medesima compiacesse dello stare in compagnia del suo amante.

Amor condusse noi ad una morte:

cioè ad essere uccisi insieme, e in un punto: Caina attende. Caina è una parte del nono cerchio del presente libro, così chiamata da Caino, figliuolo d’Adamo, il quale perocchè uccise il fratello carnale, mostra di sentire che egli sia in quel cerchio dannato: e perciocchè egli fu il primo che cotal peccato commise, dinomina l’autore quel cerchio da lui; e in quel si puniscono tutti coloro che fratelli e congiunti uccidono. E perciò dice questa donna, che quel cerchio aspetta Gianciotto, il quale uccise lei sua moglie, e Polo suo fratello: chi, cioè colui, in vita ci spense, cioè uccise; perciocchè morte non è altro che un privare, il quale si può dire spegner di vita. Queste parole di sopra dette, da lor ci fur porte cioè da madonna Francesca, parlante per sè e per Polo.

Da ch’io intesi quest’anime offense,

sì dalla morte ricevuta, sì dal prsente tormento, Chinai ’l viso, come colui fa il quale ha udita cosa che gli grava, e tanto il tenni basso,

Fin che ’l Poeta mi disse, che pense?

Quasi volesse dire, e’ si conviene intendere ad altro. Quando risposi, alla domanda di Virgilio, [p. 59 modifica]e cominciai, a dire, o lasso! Quanti dolci pensier, paiono esser quegli che da speranza certa muovono di dovere ottenere la cosa che s’ama: quanto disio, quasi dica molto, Menò costoro Francesca e Polo, al doloroso passo! della morte.

Poi mi rivolsi a loro, e parla’ io,
E cominciai: Francesca, i tuoi martirj,

ne’ quali io ti veggio,

A lacrimar mi fanno tristo, e pio:

cioè dolente e pietoso:

Ma dimmi, al tempo de’ dolci sospiri,

cioè quando ancora tu sospiravi, amando e sperando: A che, segno, e come, cioè in qual guisa, concedette amore il quale suol rendere gli amanti temorosi, e non lasciar loro, per tema di non dispiacere, aprire il desiderio loro, Che conosceste, cioè tu di Polo, e Polo di te, i dubbiosi disiri? Chiamagli dubbiosi i desiderii degli amanti, perciocchè quantunque per molti atti appaia che l’uno ami l’altro, e l’altro l’uno, tuttavia suspicano non sia così come lor pare, insino a tanto che del tutto discoperti e conosciuti sono.

Ed ella a me: nessun maggior dolore,
Che ricordarsi del tempo felice

chiama felice il tempo il quale aveva nella presente vita, per rispetto a quello che era nella dannazione perpetua, la qual chiama miseria, dicendo, Nella miseria. E veramente grandissimo dolore è: e questo assai chiaro testimonia Boezio, in libro de Consolatione, dicendo Summus infortunii genus est, fuisse felicem: e ciò sa ’l tuo Dottore, cioè [p. 60 modifica]Virgilio, il quale e nel principio delle narrazion fatte da Enea de’ casi troiani a Didone, e ancora nel dolore di Didone nella partita d’Enea, assai chiaramente il dimostra.

Ma se a conoscer la prima radice,

la qual prima radice del costoro amore ha l’autore mostrata di sopra quando dice, Amor, ch’al cor gentil, ec. dove qui secondo la sua domanda, cioè dell’autore, madonna Francesca gli dimostra, come al frutto il quale di quella radice si desidera e s’aspetta essi pervenissero; e così vorrà qui l’autore che il principio s’intenda per la fine:

Del nostro amor tu hai cotanto affetto,

cioè cotanto desiderio,

Farò come colui, che piange e dice.

Noi, cioè Polo e io, leggevamo un giorno, per diletto, Di Lancelotto, del quale molte belle e laudevoli cose raccontano i romanzi franceschi, cose, per quel ch’io creda, più composte a beneplacito, che secondo la verità; e leggevamo, come amor lo strinse; perciocchè ne’ detti romanzi si scrive, Lancelotto essere stato ferventissimamente innamorato della reina Ginevra, moglie del re Artù:

Soli eravamo, e senza alcun sospetto.

scrive l’autore tre cose, ciascuna per sè medesima potente ad inducere disonestamente ad operare un uomo e una femmina che insieme sieno: cioè leggere gli amori d’alcuni, l’esser soli, e l’esser senza sospetto d’alcuno impedimento.

Per più fiate gli occhi ci sospinse,

a riguardar l’un l’altro, [p. 61 modifica]

Quella lettura, e scolorocci ’l viso:

cioè fececi talvolta venir palidi e talor rossi, come a quelli suole avvenire, che d’alcuna cagion mossi, desiderano di dire alcuna cosa, e poi temono e così impalidiscono, o si vergognano, e così arrossiscono:

Ma solo un punto fu quel che ci vinse.

A dover pur mandar fuori il desiderio mio: e questo fu,

Quando leggemmo il disiato riso,

cioè la desiderata letizia la qual fu alla reina Ginevra,

Esser baciato da cotanto amante,

quanto era Lancelotto, reputato in que’ tempi il miglior cavalier del mondo, Questi, cioè Polo, che mai da me non fia diviso,

La bocca mi baciò tutto tremante.

Ottimamente descrive l’atto di quegli li quali con alcun sentimento ferventemente amano, che quantunque offerto sia loro quello che essi appetiscono, come qui si comprende che madonna Francesca offerse a Polo, non senza tremore la prima volta il prendono:

Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse:

Scrivesi ne’ predetti romanzi, che un principe Galeotto, il quale dicono che fu di spezie di gigante, sì era grande e grosso, sentì primo che alcuno altro l’occulto amor di Lancelotto e della reina Ginevra: il quale non essendo più avanti proceduto che per soli riguardi, ad istanza di Lancelotto, il quale egli amava maravigliosamente, tratta un dì in una sala a [p. 62 modifica]ragionamento seco la reina Ginevra, e a quello chiamato Lancelotto, ad aprire questo amore con alcuno effetto fu il mezzano: e quasi occupando con la persona il poter questi due esser veduti da alcuno altro della sala, che da lui, fece che essi si baciarono insieme. E così vuol questa donna dire, che quello libro, il quale leggevano Polo ed ella, quello uficio adoperasse tra lor due, che aoperò Galeotto tra Lancelotto e la reina Ginevra: e quel medesimo dice essere stato colui che scrisse; perciocchè se scritto non l’avesse, non ne potrebbe esser seguito quello che ne seguì:

Quel giorno più non vi leggemmo avante.

Assai acconciamente mostra di volere, che senza dirlo essa il lettor comprenda, non quello che dell’essere stata baciata da Polo seguitasse. Mentre che l’uno. Qui comincia la VI. e ultima particella del presente Canto, nella quale l’autor discrive quello che di quel ragionamento gli seguisse, e dice: Mentre che l’uno spirto, cioè madonna Francesca, questo disse, che di sopra è detto, L’altro piangeva, cioè Polo, sì, cioè in tal maniera, che di pietade, per compassione, Io venni meno, cioè mancaronmi le forze, sì com’io morisse,

E caddi come corpo morto cade.

Suole alcuna volta aver tanta forza la compassione, che pare che ella faccia così altrui struggere il cuore come strugge la neve al fuoco: di che addiviene, che le forze sensibili si dileguano, e le animali rifuggono nelle più intrinseche parti del cuore, quasi abbandonato: e così il corpo destituto del suo sostegno, [p. 63 modifica]imapalidito cade. E questa compassione, come altra volta di sopra è detto, non ha tanto l’autore per gli spiriti udito, quanto per sè medesimo, il quale dalla coscienza rimorso, conosce sè in quella dannazion cadere, se di quello che già in tal colpa ha commesso non satisfà a contrizione e penitenza a colui, il quale egli ha peccando offeso, com’è Iddio.

  1. Manca nel testo la voce piacere.
  2. Pare che vi sia lacuna.
  3. Manca questo non nel MS.
  4. Ardì manca nel MS.
  5. Che dicono, manca nel Codice.
  6. Crepunde.
  7. Divide.