Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo I/Allegorie del quarto capitolo
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ALLEGORIE DEL QUARTO CAPITOLO
Ruppemi l’alto sonno nella testa,
La continuazione del senso allegorico del precedente canto con quella di questo, nella fine del precedente è dimostrata: in quanto avendo di sopra mostrato, come talvolta l’uomo ingannato dagli splendori mondani, mortalmente pecchi, e per conseguente diventi servo del peccato; nel principio di questo dimostra, come per quello nella prigion del diavolo si ritrovi. E di questo essersi accorto per la visitazion di Dio, il quale ha in lui mandata la grazia operante, per la quale egli è stato desto dal mortal sonno, e fatto ravvedere, laddove per lo peccato è pervenuto, cioè in luogo tenebroso, pieno di dolore ed oscuro, e pieno di pene: delle quali, acciocchè egli abbia piena esperienza e ammaestrato pervenga con desiderio alla penitenza, seguendo la ragione, procede e vede, dimostrandogliele ella, la prima colpa, che per la giustizia di Dio è punita nel primo cerchio dell’inferno: e questa, come assai è manifestato nel testo, dico che è il peccato originale, il quale per lo lavacro del battesimo da quegli cotali, che in questo cerchio pena ne sostengono, non fu levato via. Per questo peccato entrò la morte nel mondo: per questo peccato fu l’umana spezie cacciata di paradiso: per questo peccato son sempre poi stati e staranno, mentre durerà il mondo, in angoscia, e in tribulazioni, e in mala ventura: per questo peccato Cristo figliuol di Dio ricevette passione e morte, e risurgendo n’aperse la porta del paradiso, lungamente stata serrata. Dico adunque, che per lo non avere ricevuto il battesimo, al quale s’aspetta di tor via il peccato originale, quegli che in questo cerchio si dolgono sono dannati, quantunque per altro innocenti sieno, e ancora per le buone opere di molti paiano degne di merito. Ed è qui da sapere, il battesimo essere di quattro maniere. La prima delle quali è il battesimo della prefigurazione, nel quale insieme con Moisè furon battezzati tutti i Giudei passando il Mar rosso. E di questo dice san Paolo: Patres nostri omnes sub nube fuerunt, et omnes mare transierunt: et omnes in Moyse baptizati sunt, in nube, et in mari. La seconda è il battesimo del fiume, cioè quello il quale attualmente ne’ suoi catecumeni usa la Chiesa di Dio, del quale Cristo dice nell’Evangelio a’ suoi discepoli: Euntes ergo, docete omnes gentes, baptizantes eos, etc La terza maniera si chiama Flaminis, cioè di spirito: e di questa parla l’Evangelio dove dice: Super quem videris Spiritum descendentem, et manentem super eum; hic est qui baptizat. E di questa spezie di battesimo, credo esser battezzati quelli, se alcuni ne sono, li quali battezzati non sono del battesimo della chiesa usitato, e non pertanto si credono essere, ed in ogni atto vivono come cristiani veramente battezzati, nè per alcuna cosa possono presumere che battezzati non sieno. La quarta maniera si chiama Sanguinis, e di questa dice l’Evangelio: Baptismo autem habeo baptizari, et quomodo coarctor, usquedam perficiatur? E in questo credo esser battezzati coloro, li quali disposti a ricevere il battesimo, s’avacciano di pervenire a colui che secondo il rito ecclesiastico il può battezzare, e in questo avacciarsi soprapprenderli alcuni nemici uomini che gli uccidono, o altro caso, avantichè al luogo destinato possan venire. Nel primo, come detto è, furon battezzati i Giudei: Esodi: Divisa est aqua, et ingressi sunt filii Israël per medium sicci maris. Nel secondo son battezzati quelli li quali noi chiamiamo rinati, de’ quali dice l’Evangelio: qui crediderit, et baptizatus fuerit, salvus erit. Nel terzo sono battezzati quelli li quali delle lor colpe pentuti sono; e di questi dice l’Evangelio: Nisi quis renatus fuerit ex aqua, et Spiritu Sancto, non intrabit in regnum coelorum. Nel quarto sono battezzati i martiri, de’ quali similmente dice l’Evangelio: Calicem quidem meum bibetis, etc. E se in quegli che in questo cerchio dannati sono ben si riguarda, alcuni non ve n’è, se non fosse già Seneca, del quale è assai detto nella lettera, che d’alcuno di questi battezzati, o vero battesimi, battezzato fosse. Sono adunque questi cotali solamente per continui sospiri e per difetto di speranza puniti, la qual pena assai pare che si confaccia al peccato. Fu il peccato originale con soavità e dolcezza di gusto commesso, e però qui per amaritudine di sospiri mandati dal cuor fuori si punisce; cioè per dolorosa compunzione in perpetuo, quegli che con esso in questo mondo muoiono, menano amara vita nell’altro: e come i primi parenti per quello sperarono dovere simili a Dio divenire, così qui sono i lor successori, che con esso peccato muoiono, privati d’ogni speranza di mai doverlo vedere: e come la disonesta speranza gli sospinse al peccato, dico i primi nostri parenti, così qui l’onestà nega loro il suo aiuto a dover con minor noia sofferire l’afflizione recata in loro dal martire. E oltre a ciò, come quello per noi non fu commesso, ma come spesse volte è detto, per li primi nostri parenti, punito non è in quelli ne’ quali la sua infezione persevera, per alcuna pena impressa in loro per alcuno esteriore ministro della giustizia dì Dio. Nè creda alcuno questa pena essere di piccola gravezza o poco cocente, cioè il dolersi co’ sospiri, senza speranza di alcuno futuro o desiderato riposo; anzi, se ben riguarderemo, è gravissima: e se gli spiriti fossero mortali, essi la dimostrerebbono intollerabile, siccome i mortali hanno spesse volte mostrato. Assai ci puote essere manifesto, alcuni essere stati che ferventemente desiderando alcuna cosa, come creder dobbiamo che questi spiriti de’ quali parliamo desiderano di vedere Iddio, come conosciuto hanno esser lor tolta ogni speranza di doverla ottenere, essere in tanto dolor divenuti, che essi stoltamente, eleggendo per molto minor pena la morte che la vita senza speranza, ad uccidersi e crudelmente trascorsi sono. Per la qual cosa mi pare essere assai certo, che se morir potessono gli spiriti, come non possono, assai in quella estrema miseria incorrerebbono. E questi cotali dico essere tutti quegli che alcuno de’ sopraddetti battesimi avuto non hanno, li quali qui in tre maniere distingue, cioè in pargoli, e in uomini e femmine non famose, e come sono tutti coloro li quali esso nominatamente descrive.
Intorno alla qual descrizione, son certi eccellenti uomini a’ quali non pare che in questa parte l’autore senta tanto bene, cioè in quanto mostra opinare una medesima pena convenirsi per lo peccato originale a quegli li quali ad età perfetta pervennero, e a quegli i quali avanti che a quella pervenissero morirono. E la ragione che a questo gli muove par che sia questa. Che i primi, cioè gli uomini, pare che dalla ragione naturale mossi, dovessero cercare della notizia del vero Iddio, e così lavarsi della macchia del peccato originale; e perocchè no ’l fecero, non pare che la ignoranza gli scusi, come fa coloro li quali anzi l’età perfetta morirono: e per conseguente, per la negligenza in ciò avuta, meritano maggior pena, e perciò in ciò non pare che 1’autore abbia tanto bene opinato.
Egli è assai manifesta cosa che la ignoranza in coloro, e massimamente ne’ quali dee essere intera cognizione, e per età e per ingegno, non scusa il peccato: conciosiacosachè noi leggiamo, quella essere stata redarguita da Dio in nostro ammaestramento, laddove dice per Jeremia: Milvus in coelo, et hirundo, et ciconia cognoverunt tempus suum; Israel autem me non cognovit; perchè meritamente segue agl’ignoranti quello che san Paolo dice: Ignorans, ignorabitur, e massimamente a quegli de’ quali pare che senta il Salmista, dove dice: Noluit intelllgere, ut bonum ageret. Perchè senza alcun dubbio si dee credere, che a questi cotali, li quali di conoscere Iddio non si son curati, nè l’hanno amato ed onorato secondo i suoi medesimi comandamenti, sarà nell’estremo giudizio detto da Cristo: Non novi vos, discedite a me operarli iniquitatis. La qual cosa1 acciocchè avvenir non possa, con ogni studio, con ogni vigilanza si dee cercare di conoscere Iddio, e credere che chi questo non fa, non potrà per ignoranza in alcuna maniera scusarsi. Ma nondimeno io non credo che ogni ignoranza egualmente sia riprensibile: e dico ogni ignoranza; perciocchè questi signori giuristi e canonisti distinguono, e ottimamente al mio parere, tra ignoranza e ignoranza, chiamandone alcuna ignoranza Facti, ed alcuna altra ignoranza Juris. E vogliono che ignoranza Facti sia quella d’alcuna cosa, la quale verisimilmente non debba essere pervenuta alla notizia degli uomini: verbi gratia, il papa col collegio de’ suoi fratelli cardinali segretamente avranno per legge fermato, che sotto pena di scomunicazione alcun cristiano per alcuna cagione non vada nè mandi in alcuna terra d’alcuno infedele; e stante questa legge ancor secreta, questo o quel mercatante v’andranno o vi manderanno; direm noi che per questa ignoranza, che è ignoranza Facti, questo cotale sia escomunicato? certo nò; che ciò sarebbe manifestamente fuor d’ogni ragione, perciocchè gli uomini non sanno indovinare. Adunque è questa ignoranza escusabile; perciocchè noi non possiamo sapere quello che il papa s’abbia fatto, nè prima dobbiamo il suo secreto voler sapere, che esso medesimo nel voglia manifestare. Ma poichè esso avrà diliberato che questa legge si palesi, e pronunziatala, e per li suoi messaggieri mandatala per tutto, e fattala pronunziare e predicare; senza dubbio non può alcuno dire che il non saperlo il debbia rendere scusato: siccome talvolta fanno alcuni, che sospicando non si dica cosa che essi non voglian sapere, si partono de’ luoghi dove ciò si pronunzia; che fuggono, e poi credono essere scusati per dire e per giurare, io non fui mai in parte dove questa proibizion si facesse; perciocchè a ciascun s’appartiene di stare attento d’investigare e di sapere i comandamenti de’ suoi maggiori, e quelli con ogni reverenza ricevere e ubbidire. E perciò alla obbiezion fatta, cioè che a’ nominati dall’autore, conciosiacosachè per ignoranza iscusati non sieno, si convenga più grieve pena, che a quegli che per la piccola età cercar non poterono d’avere la notizia di Dio, e di seguire i suoi comandamenti; mi pare che, come poco avanti è detto, si possa rispondere e mostrare in loro essere stata ignoranza Facti, e per conseguente dovere da essa potersi con ragione scusare. E che ne’ nominati dall’autore e ne’ simili fosse ignoranza Facti, si può in questa maniera comprendere. Fu il mondo, siccome noi possiamo per lo testo della sacra Scrittura cognoscere, molte centinaia d’anni prima lavato dal diluvio universale, che Dio alcuna legge desse ad alcuno uomo. E la moltitudine della gente da Noè procreata, e da’ figliuoli, era ampliata molto, e in diversi popoli s’era sparta sopra la faccia della terra: e non solamente la terra continua, ma ancora molte isole aveva ripiene, e ciascheduno secondo il suo arbitrio, o secondo il beneplacito di colui il quale il prencipe avea sublimato, vivea: e colai vita estimava ottima e laudevole. Quantunque molti pessimamente estimassono, nondimeno i più lungamente seguitarono le leggi naturali: e alcuni, che più di sentimento cominciarono a prendere a naturali, una breve legge aggiunsero cioè, non fare quello ad altrui, che tu non volessi che fosse fatto a te. E da questa nacque un modo di viver più universale, il quale essi chiamarono Jus gentium: per lo quale assai oneste cose si servavano diligentemente tra l’università de’ popoli. Poi cominciarono le genti a fare le leggi municipali, e secondo quelle vivere e governarsi. E nondimeno sopra le leggi umane avevano alcune divine leggi, per lo ammaestramento delle quali essi onoravano e adoravano Iddio: e così perseverarono, e ancora perseverano molte nazioni. Ma poichè a nostro signore Iddio piacque volere le sue leggi ad alcun popolo dare, delle quali non solamente il popolo, al quale dar le intendea, ma eziandio qualunque altro, volendo, potesse prender regola e norma da piacere a Dio, primieramente fece Abraam degno della sua amicizia, e a lui aperse parte del suo secreto, cioè di quello che fare intendeva nel seme suo: nè a lui perciò alcune singulari leggi diede, se non in tanto che, a distinzione de’ suoi discendenti dagli altri popoli, gli comandò la circoncisione, la qual sempre perseverò, e persevera in quegli che de’ suoi discendenti si dicono. E questa medesima amicizia ritenne con Isac, e con Giacob discendenti d’Abraam. Ma poi Giacob con quegli che di lui eran nati andatone in Egitto, e in grandissima moltitudine cresciuti, per più centinaia d’anni servato il rito della circoncisione, sotto le leggi e sotto la servitudine delli re d’Egitto furono, della quale Moisè per comandamento di Dio, carichi delle più care cose degli Egiziaci, per lo mar rosso gli trasse, e menolli ne’ deserti d’Arabia: e quivi dimorando ancora senza legge, se non quella che arbitrariamente in bene e in riposo di loro, si stava Moisè, siccome loro duca e giudice. Salito Moisè sopra il monte Sinai, in due tavole gli diede scritta la legge, la qual voleva servasse il popol suo: e così cominciaro gli Ebrei ad essere sotto propria legge, che mai infino a quel tempo stato non v’era. E questo fu, secondo Eusebio in libro temporum, appo gli anni Arcadis, l’anno del regno suo otto, e regnante Cecrope re degli Ateniesi, l’anno quarantacinque del regno suo: il quale anno, fu l’anno del mondo tremilaseicentonovantadue, ne’quali tempi nacque Diside e Pafo in Egitto, e il tempio d’Apollo Delio fu edificato da Erisitone. Quindi morto Moisè, sotto il ducato di Giosuè più fattisi avanti, per forza cacciaron delle lor sedie i Cananei, e il loro paese occuparon tutto, e intra sè il divisono; e poi per certo tempo possederono: e secondo la legge ricevuta, e sotto giudici e poi sotto re vivendo, in continue guerre co’ vicini da torno, or vincendo e ora perdendo, e in grandissime avversità e trlbulazioni divisi dimorando, quantunque alcuni nomi acquistassero, non fu perciò di tanta fama, che guari per lo mondo si dilatasse: e quanto essi erano da’ riti degli altri uomini separati, tanto dall’altre nazioni erano reputati da meno. Se adunque avanti la giudaica legge vissero i mortali sotto l’arbitrio loro, o sotto quelle leggi che essi medesimi si dettavano, a cui direm noi che essi dovessero andare cercando per le leggi divine, e di conoscere Iddio? E oltre a ciò, pur dopo la legge data a Moisè, qual maraviglia è se abituati in quella maniera di vivere in che detta è, non sentirono, nè si misono a sentire quello che Iddio s’avesse detto o fatto con Abraam, o co’ suoi successori, e con Moisè nelle solitudini del mondo, nè poi ancora col popolo suo? Conciofossecosachè quelli a’ quali de’ fatti de’ Giudei pervenne alcuna notizia, gli avessero per servi fuggitivi e per ladri, e Moisè per uomo magico e seduttore. E se per così gli avevano, a che ora si dee credere che a loro fossero andate le nazioni strane a consigliarsi della divinità, e de’ beneplaciti di quella? Se forse si dicesse sotto que’ furti, e sotto i lor costumi Iddio sentiva altissimi misteri della futura incarnazione del figliuolo, e della resurrezione, questo credo io ottimamente, ma ciò non sapeano le nazioni gentili, e come dice Isaia: Quis cognovit sensum Domini, aut quis consiliarius fuit? E se quelle leggi e quelle operazioni di Dio, che noi tutto dì leggiamo, si piacque a Domeneddio con questi suoi singulari amici d’adoperare; come il dee aver saputo l’Indiano, come lo Spagnuolo, come l’Etiopo, o il Sauromata a’ quali per alcuno mai significato non fu? E se essi nol deono aver potuto sapere, qual giustizia dannerà la loro ignoranza in questo? Chi non vedrà questa essere stata ignoranzia Facti, la quale davanti dicemmo doversi potere scusare? Appresso, presupposto cbe alcuna altra nazione avesse voluto dagli Ebrei sapere questo secreto, il quale a loro soli Iddio avea dimostrato, l’avrebbe ella potuto credere? essendoci per le loro medesime lettere manifesto, che essi Ebrei essendo lungamente stati pasciuti di manna, e udendo gli ammaestramenti di Moisè, il quale per la loro liberazione avean veduto percuotere Faraone di dieci crudelissime piaghe, e veduto da lui essere stato nel diserto elevato un serpente di rame, al quale mostrate le lor piaghe, da’ serpenti del luogo dove erano ricevute, tutti guerivano: aveangli veduto con la verga percuotere una pietra viva, e di quella a saziar la sete loro uscire un fiume, non gli prestavan però interamente fede, ma or con una ritrosia, or con un’altra, non facevano altro che mormorare, e chiedere che nella servitudine della quale tratti gli avea gli ritornasse. E ultimamente elevato un toro d’ariento, contro al comandamento suo quello adorarono, onorarono, e magnificarono per loro Iddio. Non fu mai alcun messo di Dio mandato, che il suo piacere loro annunziasse, e chiamassegli ad obbedienza della sua legge. E chi dubita che Domeneddio non conoscesse alcuni da sè a ciò non dover venire non chiamati, quando i chiamati con ostinata pertinacia recusavan d’udire i suoi comandamenti e d’ubbidirlo? Se forse volesse alcun dire, Jona fu mandato da Dio a Ninive; ma esso non andò ad ammaestrarli della legge di Dio, ma a nunziare che Ninive infra quaranta dì si disfarebbe. E se gli Ebrei furono in Babilonia lungamente in prigione, e vi furono reputati bestie; estimando i Caldei che se savi fossero stati, o fosser sante le lor leggi, che Iddio non gli avrebbe lasciati venire in quella miseria: e perciò creduti non erano: e’ non pare che dubitar si debba, che non fossero i Gentili molto più prestamente venuti che non fecero gli Ebrei. E questo pare si possa comprendere da ciò che seguì quando chiamati furono, poichè Cristo incarnato recò in terra quella celeste luce della dottrina evangelica, la quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo, che illuminato voglia essere: la quale avendo esso primieramente predicata, e poco dagli Ebrei ascoltato, mandò per l’universo i suoi messaggieri a chiamare alle nozze reali di vita eterna ogni nazione. Nè furon chiamati ne deserti o nelle solitudini arabiche, nè da uomini paurosi o fiochi, ma come dice di loro il Salmista: Non sunt loquelae, neque sermones, quorum non audiantur voces eorum. In omnem terram exivit sonus eorum, et in fines orbis terrae verba eorum. E queste nel cospetto de’ re, de’ prencipi, de’ tiranni, nelle città grandissime, nelle piazze, ne’ templi, nelle convenzioni e adunanze de’ popoli: e a questa chiamata prestamente concorsono le nazioni de’ Genlili, e con intera mente senza alcune ritrosie prestaron fede alla dottrina de’ chiamatori: e non solamente vi prestaron fede, ma per quella sè medesimi fecero incontro a’ tormenti, senza la divina grazia intollerabili, è alla morte temporale senza alcuna paura, e con ferma speranza della futura gloria. E così si può credere avrebber fatto, se alcuna altra volta fossero stati chiamati. E se essi chiamati non furono, come altra volta è detto, essi non si dovevano nè potevano indovinare. Seguirono adunque quello Iddio, o quelli Iddìi, quelli riti d’adorargli, e d’onorargli, che i lor padri, li loro amici, i loro vicini, e’ lor sacerdoti mosiravan loro. E a questo credendosi bene adoperare eran contenti: conciosiacosachè alcuno non sia che cerchi di quello che egli non conosce. E seguendo il predetto rito di adorare Iddìo, furono di quegli assai che il seguirono virtuosamente e moralmente vivendo; avendo in odio e dannando i disonesti guadagni, le violenze, l’ozio, la concupiscenza carnale, le falsità, i tradimenti e ogn’altra operazione meritamente biasimevole; esercitandosi ciascuno di prevalere agli altri in iscienza, in disciplina militare, in ben fare alla repubblica, e in divenire glorioso tra gli uomini. E questo con lunghe fatiche, e con gran pericoli della propria vita: e così si dee credere, e ancora molto più, avrebbon fatto in onore del nome di Cristo, per la vita celestiale, e per l’eterna gloria. Ma a doversi di ciò informare non potevan salire in cielo: nè in terra era chi lor ne dicesse parole, nè che a lor gludicio fosse degno di tanta fede. Se forse volessero alcuni dir così: come per forza d’ingegno essi adoperarono di conoscere i segreti riposti nel seno della natura, e la cagion delle cose, e per saper queste seguivan gli studii caldei, gli egizii, e gli italici, e gli altri quantunque lontani: e così per conoscere il vero Iddio si dovevan faticare, e andar cercando quegli che maestri e dottori erano della ebraica legge, acciocchè di ciò gli ammaestrassero: potrebbesi consentire, i Gentili dover aver creduto gli Ebrei dover esser maestri di questa verità; ma essi non si vedevan tra le nazioni del mondo d’alcuna preeminenza, nè onorato il popolo ebreo, e massimamente a dispetto degli Assiri, de’ Greci, degli Affricani e ultimamente de’ Romani anzi si vedea un piccol popolo pieno di vituperii, di peccati, e di scellerate operazioni, e ogni dì essere da’ Caldei e dagli Egiziaci presi e straziati, e menati in cattività e in servitudine e essi e le lor femmine, e le loro città rubate, e ad esse esser disfatte le mura, e talvolta tutte abbattute e desolate; per la qual cosa assai di fede appo le nazioni strane alla loro religione si toglieva, e per questo essendo avuti in derisione, non era alcuno che mai a loro andato fosse. Erano oltre a questo gli Ebrei intra sè medesimi divisi, che altra maniera servavano i Giudei, e altra maniera i Sammaritani: e chi meglio di costor si facesse, non potevano le nazioni lontane discernere. Nè è da dubitare, che molto di fede non togliesse loro appo gli strani la divisione. Che dunque si può dire della ignoranza di coloro, che avanti che Cristo per li suoi messaggieri la legge da lui data essere stata data manifestasse, se non quello che davanti è stato detto cioè, che la loro ignoranza, siccome ignoranza Facti, si debba potere scusare? E perciò se per altro ben vissero, non aver altra pena meritata, che quella che semplicemente per lo peccato originale è data a coloro, li quali morirono davanti che essi potessono peccare: e quello sentire, che par che san Paolo voglia quando scrive: servus nesciens, vel ignorans voluntatem Domini sui, et non faciens vapulavit paucis. E in altra parte: Facilius consecutus sum veniam, quoniam ignorans feci De ignorantia Juris non dico così, perciocchè, come di sopra dissi, come la legge, la quale a ciascuno appartiene, è promulgata e manifestata, non puote alcuno con accettevole scusa allegar la ignoranza: perciocchè tale ignoranza si può meritamente dire grassa e supina; e apparire aperto, colui, che ciò noi sa, perchè non l’ha voluto sapere. E però se dopo la dottrina evangelica predicata per tutto, è alcuno che quella seguita non abbia, quantunque per altro virtuosamente vivuto sia, siccome degno di maggior supplicio per la sua ignoranza, non dee a simil pena esser punito con gl’innocenti, ma a molto più agra. E di questi cotali pone l’autore alquanti, come è Ovidio, Lucano, Seneca, Tolomeo, Avicenna, Galieno, Averrois: li quali io confesso tra gli altri dall’autor nominati, non doversi debitamente nominare; perciocchè di loro si può dir quello che scrive san Paolo: a veritate auditum avertent, ad fahulas autem convertentur, ec. E il Salmista: sicut aspidis surdae, et obturantis aures suas, ut non exaudiret vocem ec. E di questi meritamente si dice quella parola, che di sopra contro agl’ignoranti è allegata di san Paolo, ignorans ignorabitur: e similmente l’altre autorità quivi poste. Nondimeno, che qui per me detto sia, io non intendo di derogare in alcuno atto alla cattolica verità, nè alla sentenza de’ più savii.
Resta a vedere quello che l’autore abbia voluto per lo castello difeso di sette mura, e da un bel fiumicello, e per lo prato della verdura che dentro vi trova, poichè con quelli cinque poeti entrato v’è. E secondo il mio giudicio, egli intende questo castello il real trono della maestà della filosofia morale e naturale, fermato in su il limbo, cioè in su la circonferenza della terra: conciosiacosachè queste due spezie di filosofìa non trascendano alle sedie de’ beati, ma solamente di terra speculino, conoscano, dimostrino i naturali effetti de’ cieli nella terra, e gli atti degli uomini, per la cognizion delle quali seguiti gli hanno. E a volere a così eccelsa e nobile stanza divenire, si conviene tenere il cammino il quale l’autore ne divisa, cioè passar quel fiumicello, il quale circonda questo luogo, dove la filosofia, maestra di tutte le cose, dimora: e passarlo come terra dura, acciocchè nell’acqua di quello non si bagnino i piè nostri. E sono avanti ad ogni altra cosa, per questo bel fiumicello, da intendere le sustanze temporali, cioè le ricchezze, i mondani onori, e le mondane preeminenze, le quali sono nella prima apparenza splendide e belle, quantunque in esistenza oscure e tenebrose si trovino: in quanto sono privatrici, e massimamente in coloro che debitamente l’amano o guardano, o spendono o esercitano. E come 1’acqua spesse volte è a’ nostri sensi dilettevole, così queste sono agl’ingegni e agl’intelletti nocevoli: e così sono flusse e labili come è l’acqua, la quale è in corso continuo: niuno fermo stato hanno; oggi sono, e domane non sono: oggi sono in questo luogo, e domane in quell’altro; oggi piacciono e domane spiacciono. E chiama l’autor quest’acqua fiumicello, che è diminutivo di fiume, per dare ad intendere queste cose temporali e la lor luce, e il lor comodo, a rispetto delle cose eterne, esser piccole o niuna cosa: e perciò chi vuole pervenire all’altezza della fama filosofica, gli conviea passar questo fiumicello non con delicatezze, non con morbidezze, non con conviti e artificiati cibi e esquisiti vini, e con lunghi sonni e dannosi ozii; ma tutte queste cose, e simiglianti, non solamente scacciate e rimosse da sè, ma senza bagnarsi i piedi in quest’acqua, cioè in alcuno atto lasciarsi toccare, o muover l’affezione a quella, e come terra dura passarlo, come il passarono per la temperai gloria Cammillo, Cincinnato, Curzio, Fabbrizio, e Scipione e simiglianti: e per la filosofica eminenza Diogene, Democrito, Anassagora, e i lor simili, li quali scalpitate co’ piedi le ricchezze, ed avutole a vile, e disprezzatole, passarono con lieto e libero animo alle lunghe fatiche degli studii delle virtù e delle scienze: e passato il fiumicello, cioè le temporali delizie scalpilate, con cinque solenni poeti, cioè con quelli dottori, li quali sieno per sofficienza degni a dimostrare quella via, per la quale alla filosofica operazione a perfezion si perviene. E intendendo per le sette porti, per le quali dice che entrò coi que’ savii, le sette arti liberali: e non per quelle sette arti, le quali molti intendono esser quelle, con le quali i demoni ingannano gli sciocchi. E chiamansi liberali, perciocchè in esse non osava, al tempo che i Romani signoreggiavano il mondo, istudiare altro che i liberi uomini: o vogliam dire, che liberali si chiamano, perciocchè elle rendono liberi molti uomini da molti e varii dubbii, ne’ quali senza esse intrigati sarebbono. E di queste arti ottimi dimostratori furono i predetti poeti, se con intera mente si riguarderanno i libri loro, ne’ quali quantunque esplicitamente le regole spettanti a dover dare la dottrina di quelle peravventura non vi si trovino, e vi si trovano le conclusioni vere, e gli effetti certi delle regole, per le quali si solvono i dubbii, li quali intorno alle regole posson cadere; è nondimeno da sapere, non esser di necessità a colui che odierno filosofo vuol divenire, sapere perfettamente ciascuna delle liberali arti. Saperne alcuna perfettamente, è del tutto opportuno: siccome al filosofo la gramatica e la dialettica: al poeta e l’oratore, la gramatica e la rettorica: poi sapere dell’altre i principii, e sapergli bene, è assai a ciascuno. Entrò adunque l’autore per gli effetti delle liberali arti con questi cinque dottori, co’ quali si dee intendere ciascun altro entrare, il quale degno si fa per suo studio, imitando i valenti uomini, nel prato della verzicante fama della filosofia. Dove da questi medesimi, cioè da’ valenti uomini, e massimamente da’ poeti, gli son dimostrati coloro che per le filosofiche operazioni meritarono la fama, la quale ancora è verde. E dissi massimamente da’ poeti perciocchè di queste così fatte dimostrazioni, niun altro par dover essere miglior maestro che colui, il quale col suo artificio sa perpetuare i nomi de’ valenti uomini, e le glorie degl’imperadori e de’ popoli, e questi sono i poeti, de’ quali è oficio il producere in lunghissimi tempi i nomi, e l’opere de’ valenti uomini e delle valorose donne. La qual cosa quantunque facciano ancora gli storiografi, perciocchè nol fanno con così fiorito, con così rilevato, nè con così ornato stilo, sono in ciò loro preposti i poeti: li quali in questa parte l’autore intende per la perseverante dimostrazione, la qual sempre davanti da sè porta i nomi e l’opere di coloro che son degni di laude. Ma puossi qui muovere un dubbio e dire, che hanno a fare gli uomini d’arme, e le donne, con coloro li quali per filosofia son famosi? Al quale si può così rispondere: non essere alcun nostro atto laudevole, che senza filosofica dimostrazione si possa adoperare. Stolta cosa è a credere, che niuno imperadore possa il suo esercito guardare o guidi salvamente, senza prendere i luoghi da accamparsi, trovare le vie per le quali aver con salvo condotto si possano le cose opportune agli eserciti, guardarsi dalle insidie, prender l’ordine o dare al combattere una città, ad assalire i nemici, al venire alla battaglia, se la disciplina militare, nella quale gli conviene essere amniaestratissimo, non gliele dimostra; e questa disciplina militare è fondata e stabilita sopra i discreti consigli della filosofia, li quali quantunque non paia a molti sillogizzando prestarsi, nondimeno se i ragionamenti, se i divisi, se i consigli si guarderanno tritamente, tutti dal discreto filosofo in sillogistica forma si riduceranno. E perciò se quegli che ottimi maestri nella disciplina militar furono, co’ filosofi si ponghino e nominino, come filosofi in quella spezie de’ loro esercizii vi si pongono. Così ancora le donne, le quali castamente e onestamente vivono, e i loro oficii domestici discretamente e con ordine fanno, senza filosofica dimostrazione non gli fanno. E dobbiamo non sempre nelle cattedre, non sempre nelle scuole, non sempre nelle disputazioni leggersi e intendersi filosofia. Ella si legge spessissimamente ne’ petti degli uomini e delle donne. Sarà la savia donna nella sua camera, e penserà al suo stato alla sua qualità: e di questo pensiero trarrà l’onor suo, oltre ad ogni altra cosa consistere nella pudicizia, nell’amor del marito, nella gravità donnesca, nella parsimonia, nella cura familiare. Trarrà, ancora di questo pensiero, appartenersi a lei di guardare, e di servare con ogni vigilanza quello che il marito faticando di fuori acquisterà e recherà in casa: d’allevare con diligenza i figliuoli, d’ammaestrargli, di costumargli: e similmente intorno alle cose opportune dar ordine a’ servi, e all’altre cose simili; che leggerà più a costei nella scuola, che nella etica, che nella politica, che nella economica le dimostrerà? Niuna cosa. Dunque quelle che così hanno adoperato e adoperano, non indegnamente secondo il grado loro, co’ filosofi sederanno di laude e di fama perpetua degne. Non dunque fece l’autor men che bene a descrivere i famosi uomini in arme e valorose donne in compagnia de’ solenni filosofi.
fine del tomo primo
- ↑ Per la qual cosa.