Il buon cuore - Anno XIII, n. 26 - 27 giugno 1914/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIII, n. 26 - 27 giugno 1914 Religione

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I ricordi inediti di un celebre artista

Irresistibile vocazione nell’arte - Anni di prova - Il primo saggio - La partenza per Norimberga


Gustavo Eberlein, il celebre scultore cui feci or sono due mesi nello studio-museo la visita poi raccontata per esteso su queste colonne, m’ha mandato a leggere in una raccolta a stampa fuori commercio riservata alla seconda moglie (la contessa Maria von Hertzberg) e agli amici intimi, e in alcuni fogli dattiligrafati una, parte dei suoi ricordi.

Nella lettera d’accompagno, riferendosi specialmente ai fogli copiati a macchina, «si restringa anche solo a scorrerli», mi ha scritto «essi le diranno quanto io amo ed ammiro la sua patria, l’Italia».

Ebbene, sono franco, ero con la lettura si o no a mezza strada che già m’ero invogliato a tradurre e far conoscere quasi integralmente ai lettori questi ricordi. E allorchè poi, purtroppo, le solite imprescindibili ragioni di spazio, e qualche altra che non mette conto d’esporre, m’hanno costretto a smorzare, dirò così, il mio zelo e a scegliere, son rimasto non poco perplesso a quale delle due serie accordare la prefenza o, sul momento almeno, la precedenza.

Mi sono infine risolto per la prima, e non certo per amore d’ordine cronologico, sì invece perchè essa costituisce, a mio avviso, un documento umano attraentissimo

come quello che ci rivela le difficoltà innumerevoli e i pericoli che l’Eberlein fanciullo e giovinetto dovè affrontare solo per non disubbidire alla chiamata della sua voce interna, assai lungi ancora dalla lotta durissima impegnata più tardi per affermarsi e divenire ciò che è poi divenuto. Del resto, chiunque ha senso vero di delicatezza non stenterà, credo, a riconoscere l’opportunità della mia scelta anche per un altro intuitivo riguardo, molto più che il grande profondo amore dell’Eberlein per il «bel paese» in genere e per la città, in ispecie, dalla natura admirablement, située à l’endroit le plus propre à recueillir, comme dans la plus noble coupe qui se soit ouverte sous le ciel, les ioyaux des peuples qui passaient autour d’elle sur le cimes de l’histoire, non aveva bisogno di nuove conferme.

Cedo dunque sen’altro la parola al celebre scultore.

Fui messo alla luce il 14 luglio 1847, in Spiekershausen, piccolo villaggio dell’Annover adagiato fra i boschi su le rive della Fulda come un nido di fanelli fra i rami di un cespuglio.

Mio padre, testa calda se mai una, con la fisionomia di un Blücher e un pasato avventurosissimo (fuggito tredicenne di casa per arruolarsi soldato, aveva sposato qualche anno appresso la vivandiera del reggimento, traversato il Reno recando sullo zaino il primo figlio, combattuto quindi in Francia, in Russia, a Lipsia, a Waterloo), s’era da ultimo ridotto a fare il doganiere. Tutte le notti egli doveva perlustrare i boschi lungo il confine fra l’Annover e la Prussia a caccia di contrabbandieri e il caso volle che una, volta fu una giovane e gagliarda contadina ad esser da lui sorpresa ed arrestata. Dinanzi al potestà si svolse allora, fra pianti e risa, uno dei soliti processi per contrabbando, ma la fine fu che mio. padre, vedovo si riammogliò con la contadina la quale divenne così l’autrice dei miei giorni.

Nel 1855 mio padre fu traslocato a Münden, la cittaduccia su la confluenza della Verra e della Fulda che un tempo aveva ospitato i primi sovrani d’Annover.

Con la penetrazione propria di chi ama, egli aveva da un pezzo compreso che in me fermentava e anelava di espandersi qualche cosa. che non poteva trovare il [p. 202 modifica]necessario nutrimento in un piccolo centro segregato del mondo. Sin dal primo svegliarsi della mia intelligenza egli aveva notato in me la inclinazione imperiosa, irresistibile a divenire artista: scultore, pittore musicista, architetto o scrittore era indifferente: ’la mia ’brama comprendeva tutte le arti. Siccome però i mezzi per farmi frequentare una scuola di belle arti gli mancavano affatto, egli stimò che la meglio fosse di mettermi come apprendista da un pittore. Ottima intenzione la sua, senonchè il pittore scovato altro non era, in realtà, che un inverniciatore: io dovevo aiutare costui a dare il colore a usci, portoni, finestre, e tornavo ogni sera a casa così coperto di macchie e così triste che in breve mio padre si convinse non esser quella la via. Passai allora da un tornitore che torniva impugnature di bastoni; ma anche presso di lui non rimasi a lungo. «Visto che con l’arte non si riesce a cavare un ragno da un buco, io ti consiglio, ragazzo mio, ad avviarti a far •l’impiegato come me. Almeno quando sarai vecchio una pensione non lauta ma sicura ti preserverà da preoccupazioni», mi disse mio padre, e mi collocò come scrivano presso un usciere di tribunale. Poveretto! Io non feci che consumare e sciupare tutta la sua provvista di carta, e più d’un debitore, invece dell’intimazione di pagamento, ricevette un foglio zeppo di versi senza capo nè coda. Assorto nelle mie fantasie, in rotta col mondo e con me stesso, io passavo ore ed ore seduto al gran tavolo da scrivere nella stanza arcaicamente ammobiliata. Nessun raggio di speranza mi confortava, mentre il desiderio dei miei, dei disegni e delle poesie abbozzati mi bruciava il cuore. Altri genitori avrebbero ricorso ormai alle percosse contro il monello ostinato a deviare dalla carreggiata • comune: mio padre invece seguitò a torturarsi il cervello per trovare il modo di aiutarmi. Fra i nastri conoscenti nessuno, all’infuori che nelle chiese, aveva mai veduto una scultura o una pittura. Di musica, in Miinden, era molto se talvolta alcuni filarmonici eseguivano un’oratorio. Con occhi lungi anelanti e i polsi febbrili io leggevo nel mio Goethe: «Conosci la casa, su colonne poggia il tuo tetto», e più oltre: Statue di marmo stan ritte e ti rimirano». Era questo la poesia? Nel ’piccolo cimitero, fra tombe in rovina, sorgeva una figura marmorea: era questo la scultura? Vecchie immagini di santi su fondo d’oro sorridevano nella chiesola dall’altare: era questo la pitturà? Era la musica la voce dell’organo, erano l’architettura la facciata in pietra arenaria ornata di colonne e il balcone riccamente scolpito del Rathaus? E dove poi poter venire in chiaro di tutto ciò: dove saziar di tutto ciò l’anima assetata: dove inebriarsi con tutto ciò sino al colmo della felicità terrena? Possibile che non vi fosse una persona che nel mio volto pallido e afflitto, negli occhi dell’adolescente non indovinasse quelle doti che son proprie degli artisti? No, non v’era! «Se non m’inganno — saltò fuori un giorno mio padre — l’oreficeria è fra le arti minori quella che più

  • s’avvicina alle grandi». E poichè l’orafo del luogo cercava un garzone io gli venni profferto.

Sotto la guida ’di questo maestro assai abile e colto io avrei potuto divenire un bravo orefice, ma... non lo divenni. Mentre, tirando il mantice, dovevo arroventare o saldare l’aro e l’argento, io mi ’distraevo, e scandivo versi, ideavo quadri, cantarellavo canzoni. Accadeva così che il prezioso metallo si struggeva, che persino gli oggetti più massicci non resistevano all’eccessivo calore e s’accartocciavano perdendo ogni forma, come le figurine di piombo nella notte di San Silvestro. Pezzi d’oro andavano spesso a cadere nel fuoco, siochè poi bisognava stacciare la cenere per ritrovarli ridotti in pallottole nere. %maestro m’insegnava minutamente a lavorare d’invede/4 anche al tempo stesso come specialmente la fu,vedevo anche al tempo stesso come specialment la funesta decadenza del buon gusto spingesse i ricchi della città e dei dintorni a far fondere nella nostra officina le loro antiche preziose argenterie, i vasellami, le filigrane, gli ornamenti d’oro. E’ vero che io sospettavo solo vagamente il valore di queste opere d’arte, ma nondimeno sento ancor oggi vivisimo rammarico ’d’esser stato costretto a distrugger tanti tesori. ’Le finestre della bottega fuligginosa, che io dovevo spazzare e riscaldare, davano su un cortiletto angusto. Nelle cupe giornate d’inverno, allorquando un uniforme strato di neve seppelliva ogni cosa in città e fuori, oh la tristezza invincibile che s’impadroniva del piccolo orafoapprendista dal viso i capelli e gli abiti neri di polvere di carbone! Era una tristezza che quasi fermava il battito del cuore. Come Dio volle, trascorsi tre anni e mezzo, il maestro dichiarò che non’aveva più altro da insegnarmi, che potevo pure cominciare a girare il mondo. Fui dunque a Hildesheim e poi a Cassel, ma dopo breve assenza, moralmente e fisicamente depresso, me ne tornai a casa. S’era alla vigilia della guerra del 1866. Un pomeriggio d’estate fulgido di sole, con un amico che da Weimar m’aveva riportata una cartella piena d’ottime incisioni risolsi ’di recarmi in un vicino villaggio dove sapevo che un contadino, nelle ore ’d’ozio, si divertiva a intagliare nel legno. Il brav’uomo, richiamato dai campi, venne a noi e senza farsi pregare ci mostrò subito i lavori •accatastati sul tavolino presso la finestra della sua cameretta. Un bassorilievo riproducente il quadro «Geremia su le rovine di Gerusalemme» di Benidemann attrasse specialmente la mia attenzione. -- Non potresti tentar anche tu qualche cosa di simile? — mi domandai. E correre allora a Miinden, cercare in tutte le botteghe di falegname un pezzo di basso grande il doppio dr quello del contadino, ’e poi, in casa, mettermi a lavorare febbrilmente alla luce che scarsa si diffondeva dalla finestra fu tutt’uno. Nei giorni seguenti, scoppiata la guerra, Miinden mutò rapidamente il suo aspetto tranquillo. Schiere interminabili di soldati percorsero le vie e da Langensalza giunse il rombo dei cannoni. I Prussiani s’acquartierarono pure da noi. Curiosi, i colossi d’ogni parte-della Germania set [p. 203 modifica]tentrionale, si curvavano sul miò tavolo e osservavano attoniti quel che io, lavorando alacremente sin nel cuore della notte, venivo operando. Nessuno aveva mai veduto alcunchè di simile, solo un soldato di Colonia raccontava che nel Duomo venivano scolpite figure, ma in pietra. Dalla cartella di Weimar io avevo scelto a modello, guidato felicemente dall’ingenito senso d’arte, una splendida incisione rappresentante l’annunzio della nascita di Cristo ai pastori. In capo a due mesi ebbi finito. Sparsasi pel vicinato la notizia fu un accorrere di gente da tutte le parti. I parenti di mia madre e i contadini del villaggio nativo non la finivano d’ammirare •e di esclamare: «Gustavo dovrebbe mettersi con uno scultore, egli ha la testa ben fornita!». Mio padre richiamò allora tutto il suo coraggio, prese il mio lavoro, lo nascose sotto il mantello militare, •e accompagnato da me si recò all’Albergo del Leon d’oro, dove si radunavano a mangiare gli ufficiali prussiani. Stretto nel vestito della prima comunione che quasi più non m’entrava, io vidi trepidando il legno scolpito passar di mano in mano, ma all’infuori dei soliti convenzionali «bellissimo! stupendo» nessuno, nemmeno il generale seppe esprimere un giudizio o dare un consiglio preciso. Eguale negativo risultato si ottenne coi professori del la vicina Università di Gottinga e col Borgomastro di Miinden. Danari per mandarmi a frequentare una scuola l’ammnistrazione non ne aveva, dichiarò quest’ultimo. Da nessun lato, insomma, il più fioco barlume di speranza! In preda alla mia crudele angoscia sedevo io dunque una sera curvo su la mia opera illuminata dai riflessi del crepuscolo, quando fu picchiato alla porta ed entrò- nella stanza domandando di vedere «ciò di cui tutti parlavano» il pastore della chiesa di San Biagio nel quartiere basso della città. La visita inattesa di quest’uomo sino allora sconosciuto fu la mia salvezza. Egli,esaminò attentamente il lavoro, s’informò delle mie dolorose peripezie e mi disse: «Un patrizio di Norimberga si trova di passaggio in Miinden: se vuoi, io gli affido il bassorilievo perohè lo mostri al direttore di quella scuola di belle arti». Io accettai con entusiasmo la proposta, e il buon uomo per farmi anche più contento, mi commise un crocifisso per l’altare della sua chiesa promettendomi in compenso tredici talleri. Con quale ansia io e i miei genitori attendevamo le notizie da Norimberga s’immagina. Finalmente queste notizie giunsero favorevoli. Il direttore della scuola,si dichiarava disposto a prendermi fra i suoi allievi! Non ho mai dimenticato ne potrò mai dimenticare il nebbioso mattino d’autunno in cui, con diciotto talleri in tasca e un orologio d’argento, partii da Miinden. Mio padre mi svegliò verso le sei, poi come fui vestito, mi condusse misteriosamente in giardino e mi disse: «Gustavo, io ho sotterrato qui il tuo Cristo. Il modello di creta del crocifisso che ti bisogna lasciare incompiuto non deve andare in pezzi. Nessuna mano deve toccarlo. Qui sotto il melo io l’ho nascosto, presso la panca che ti lavorasti con le tue mani e su la quali ti Piaceva tanto sedere».

Dirottamente piangendo io abbracciai il vecchio, e il proposito che in quell’attimo feci di corrispondere degnamente a tutte le sue cure e premure è stata la molla segreta d’ogni mio posteriore succeso. GIUSEPPE SACCONI. II / PASSEGGIATE LIBICHE

DA APOLLONIA A CIRENE ttl La collina dirupata selvaggia e quasi a picco sul mare che al viaggiatore impedisce la vista del fertile altipiano cirenaico da lunghe ore appariva al mio sguardo annoiato che distrattamente la seguiva dal castello di poppa del piroscafo. I marosi agitati dal maestrale s’infrangevano con ritmo uniforme contro la parete rocciosa, non offrendo in alcun sito una qualsiasi probabilità di approdo. Fu quindi con un senso di sollievo che vidi finalmente ritrarsi la collina per lasciare il posto ad una larga radura, sulla quale si aggruppano numerosi baraccamenti e rovine. Fra qualche ora sarei sbarcato a Marsa Susa, o meglio ad Apollonia.

Due nomi e due epoche In questi due nomi è racchiusa la storia di una città che costituì un tempo il più importante punto di sbarco della Cirenaica. Apollonia: il nome ampio, sonoro, sinonimo di quella magnifica e feconda pace rimana che seguiva ogni conquista: Marsa Susa: il nome aspro, ferrigno, racchiudente in sè una forza barbara, distruttrice, implacabile. Apollonia: lungo periodo di benessere e di commercio produttore; Marsa Susa: periodo oscuro di continua decadenza e di generale impoverimento. Un popolo di agricoltori e di commercianti scomparso per cedere il posto ad un popolo nomade, altrettanto prode a combattere, quanto incapace a fecondare il terreno; una città romana dagli edifici grandiosi, dal porto spazioso, distrutta per veder sorgere fra le sue rovine la città berbera, fatta di casupole basse, sprovvista di un porto sicuro, diroccato anch’esso e d’altronde ormai diventato inutile, dopo che Cirene — l’antica capitale della regione — di cui era lo sbocco naturale, era stata rasa al suolo e abbandonata per sempre. Il governo turco, colla sua,opera nefasta ha finito per trasformare la popolosa e ricca città in un miserabile villaggio. I cannoni della marina italiana colpendo Marsa Susa hanno trovato il loro più degno bersaglio in un mulino primitivo e l’hanno spaccato in mezzo con una granata ben diretta; le altre rozze catapecchie non avrebbero meritato nemmeno un’colpo di fucile. Ma Apollonia non è del tutto scomparsa. Con tutte le creazioni di Roma essa è immortale. Frammiste alle tende arabe vi sono colonne spezzate, capitelli finemente intarsiati, traccie numerose di ricche abitazioni: là ove oggi è difficile porre piede in terra a causa della mancanza di ripari che fronteggiano il mare perennemente agi [p. 204 modifica]tato, si intravvedono ancora fondamenta di opere grandiose, costruite con macigno che ha saputo resistere per secoli all’azione devastatrice degli uomini e della natura.

L’opera degli italiani

Marsa Susa non avrebbe certo assistito ad uno sbarco dei nostri soldati se la necessaria avanzata nell’interno su Zauvia Bedia e Slonta non avesse portato di conseguenza la necessità di un posto (di rifornimento, lungo la costa alla più breve distanza possibile. Cosi numerosi’ reparti delle nostre truppe hanno posto il loro quartiere fra i ruderi di Apollonia; vivificandoli con la loro attività e con la loro energia. Il saldato italiano n Libia non è soltanto un combattente: è un lavoratore tenace che innalza case, apre strade, adopera indifferentemente il fucile come il piccone. In un maggio ridente non lontano — l’anno non è ancora compiuto -- i nostri soldati si sono trovati come sperduti fra mezzo a delle rovine e con dinanzi la parete collinosa grigia, insidiosa, non solcata neppure da capaci sentieri. Al di là vi era Cirene: bisognava andare avanti contro gli ostacoli del terreno e degli uomini. Essi si sono gettati innanzi e hanno vinto: quasi contemporaneamente cominciava l’opera apportatrice di una civiltà nuova. Le baracche vennero disposte in modo da formare spaziose e simmetriche vie; qualche casupola araba fu aggiustata alla meglio e qualche modesta casetta venne innalzata; un candido e bell’ospedale in muratura sorse in breve tempo; una abbondante illuminazione che non poche città italiane invidierebbero, fa provare il rammarico che non possa essere goduta da •una circolazione notturna un po’ più intensa: perfino qualche grazioso giar dinetto fa bella mostra di sè a fianco di non pochi baraccamenti. Trattorie, bar, negozi, un comodo albergo per ufficiali, stanno dimostrare la regolarità di vita ad Apollonia, fattasi sicura soltanto dopo l’arrivo degli italiani. Mi raccontava infatti un greco qui domiciliato da lungo tempo, che sotto la dominazione turca succedevano frequenti grassazioni, permesse dalle autorità compiacenti, che riscuotevano poi grosse taglie. Per quanto Apollonia non abbia più alcun’altra importanza che quella militare, i soldati italiani hanno saputo con la loro opera feconda e continua darle una parvenza di vita commerciale, di cui approfittano greci avventurosi, arabi sottomessi e sopratutto italiani intraprendenti, nell’animo dei quali deve_ancora albergare lo spirito degli antichi colonizzatori, di cui fu cosi prodiga la nostra razza.

Sulla strada di Cirene Ma il segno più bello, più significativo che l’esercito italiano ha lasciato impresso nel territorio di Apóllonia a comprovare la sua attività — intesa a riscattare tutta una regione da secoli e secoli di barbarie — non è tanto ciò che ha saputo fare nella costa quanto la costruzione di un’ampia strada carrozzabile che da Apollonia giunge fino a Cirene e di ’là si prolunga fino a Zauvia Fedia e Slonta. Già dal piroscafo avevo osservato con attenzione quella striscia bianca che si snodava lentamente lungo il

verde dei cespugli ed il rosso cupo dele roccie e avevo provato il primo senso,di commozione. Gli italiani non de vono •dimenticare che il primo elemento di civiltà da apportare alle abbandonate terre africane è sopratutto procurar loro numerosi e comodi mezzi di comunicazioni, come ferrovie e strade carrozzabili. Nella Cirenaica non ancora pacificata, il nostro.esercito ha compresa la missione ch&gli è stata affidata: alpini, fanteria, genio, nella loro avanzata su Cirene non si sono preoccupati soltanto di •picconi e di mine, hanno tracciato nel terreno infido la via nuova, che avrebbero poi battuto col piede sicuro lel conquistatore. La stagione faticosa — i lavori furono inco minciati in giugno — gli ostacoli della natura — in più punti si è dovuto tagliare.la strada nella viva roccia — il pericolo di fucilate traditrici — ancor oggi non del tutto scomparso — nonchè impedire, non hanno neppure arrestato per un istante l’opera a cui hanno preso parte tutte le armi che erano state destinate all’avanzata su Zuvia Fedia e Slonta. Fortunatamente se la costruzione della parte di strada che sale lungo la collina fu quanto mai aspra e resa più (difficile da malfidi burroni, in seguito sull’altipiano la Via pianeggiante permise un più sicuro e rapido lavoro. Percorrendo quell’altipiano ho avuto la conferma di quel che già hanno scritto tutti coloro che hanno avuto l’occasione di visitarlo, la conferma cioè della sua fertilità, nonostante che sia in massima parte rimasto incolto da secoli e secoli. Il terreno è particolarmente favorevole ai prati; infatti l’acqua vi si trova in abbondanza e per sei o sette mesi all’anno vi sono assicurate frequenti pioggie: rammento ad esempio un magnifico prato dal colore dello smeraldo che si stende per numerosi ettari ai piedi di Cirene e che nessuno si preoccuperà certo di tagliare regolarmente per ricavarne l’abbondante foraggio. Un’altra attrattiva dell’altipiano cirenaico è l’abbondante cacciagione che ivi si trova: quaglie, allodole e colombi volano a stormi, in numero tale da formare la delizia di tutti quei nembrotti che in Italia si lamentano sempre della scarsità della preda. Si può esser certi che la civiltà non sarà troppo benigna per quei piumati abitatori del cielo: fra non molto essi cercheranno invano nella regione africana il sicuro loro rifugio. Ma ecco che delle tombe scoperchiate mi distolgono da queste riflessioni cinegetiche. Cirene non è lontana: le tombe su cui appare il segno recente della mano dell’uomo sono già state minuziosamente visitate dalla spedizione archeologica inglese ’del 1861 e da quella americana del 1868 che ne asportarono le rarità più significative. Più innanzi il tumulto di un membro della spedizione americana ucciso da una palla beduina resta a provare il contributo di sangue, che i pionieri sella civiltà bianca hanno dovuto pagare in ogni tempo e in ogni luogo sul continente nero.

[l’impronta che non si cancella Cirene non è più una città; non è n’eppure un villaggio; è un salo cumulo imponente di rovine. Il viaggiatore, che sale la collinetta su cui si trova l’antica capitale della Cirenaica non può che restare attonito quando anche non sia fornito dalla minima passione archeolo gi

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F e [p. 205 modifica]gica. I berberi ed i turchi, che su Apollonia hanno edificate le loro miserabili dimore, non hanno osato toccare Cirene. Per chilometri e chilometri gli ultimi ruderi della vatusta civiltà si stendono senza che ad essi si rtovino frammiste le luride tende beduine o le caratteristiche costruzioni orientali. Sono archi, colonne, tombe, capitelli, muri diroccati; è tutta una storia che anima quelle pietre immote, rimaste intatte come un monito severo ed incancellabile. E cosi rimarranno. Cirene non risorgerà più sulla collina verdeggiante. Quand’anche i nuovi conquistatori riuscissero a rendere prosperoso il suolo libico, quand’anche dovessero trasfondere un vibrante soffio di vita con il commercio fecondo di produzioni e ricchezze. Cirene non può più ritornare allo splendore di un giorno. Altre località le hanno strappato anche per l’avvenire quel primato che ella aveva imposto: si ingrandiranno Bengasi e Derna, città costiere che già hanno la loro importanza; diventerà più produttiva Tobruk, favorita da un comodo porto naturale dalla vicinanza del confine egiziano; ci torneranno sommamente utili Merg e Giarabub, oggi già noti come notevoli centri di linee carovaniere; se anche ciò si tentasse non tarderebbe ad apparire tutta la meschinità del tentativo. Io non posso •concepire una Cirene come una qualsiasi delle tante località berbere che le truppe italiane hanno occupato. Meglio assai che fra misteriose tombe scoperchiate venga ad aggirarsi solo qualche professore di archeologia; è una preda ricca che non sfuggirà loro: ma sopratutto che sopra gli imponenti palazzi di secoli lontani non sorgano le poche e modeste nostre case coloniali: che minareti e chiese non turbino i vetusti templi pagani dell’impero romano o quelli cristiani dell’epoca bizantina; che Cirene, la popolosa e ricca città lei passato, la città di due Imperi, non diventi la quieta Cittadina dell’avvenire. Sarebbe un sacrificio inutile. L’impronta che non s’è cancellata e non si cancellerà nei secoli rimarrà sola ad indicare quanto possa la virtù colonizzatrice di un popolo. E’ quella l’impronta lasciata da una mano che non conosceva ostacoli; di fronte a dessa ci si scopre e si prosegue più sicuri e più risoluti. CARLO RAVA.