Il buon cuore - Anno XIII, n. 14 - 4 aprile 1914/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIII, n. 14 - 4 aprile 1914 Religione

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Pensieri e ricordi

di GIULIO TARRA.


Giungono dei libri nelle redazioni — piccoli e grandi libri — che, indipendentemente dal loro va’°re o dal loro contenuto, per un complesso di.ragio,_nt Che nessun collega saprebbe spiegare precisamen:", son lasciati là dove vennero posti dal primo fatt̀orino che li ebbe in consegna. Sono guardati da,utti per largo e per lungo, ma nessuno osa toccarOsa portarli via... come gli altri. Era successo coanche di un libriccino, che mi capitò sotto gli oe, (1, a caso e che scorsi nelle pagine interne prima ’4’echra di leggerne il frontespizio. Lessi-: «Nessuno e Iter° dove la libertà non ha freno e dove tutti Olio essere liberi finchè vogliono. La sfera d’ail’`’rte d’ognuno viene intercetta, vincolata da quel, degli altri e legami vanno moltiplicandosi, la -; i javitù crescendo; la libertà sfrenata di tutti impeIsce la libertà ragionevole di ognuno. E’ perciò che b a legge, che è secondo la giustizia, impedendo gli ILsi della libertà, ne consacrra e ne fa possibire 11%. Il dovere è il principio del diritto, Chi scrisse questa sentenza? Chi vergò queste rie? L’autore è Giulio Tarra, il grande benefattore miseri, il sacerdote che meglio di ogni altro ha i;lììPreso il problema del sordo-mutismo e si è daa risolverlo «praticamente a, con la scienza e la Marit i a,con la mente e col cuore, in un connubiò coefficace che si perpetua meraviglioso,

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Di Giulio Tarra il libriccino che mi sta Manzi e che ho letto e riletto, con soddisfazione, non dice niente. Il sacerdote che accolse questi /pensieri e queste riflessioni che ha voluto conservare l’anonimo narra come, frugando in giorni d’ozio estivo, tra vecchie carte, nella libreria di don Ettore Sellani trovò alcuni scritti del Tarra e li ritenne degni di essere conosciuti.» Quella lettura — è scritto — fece molto bene all’animo mio. Mi domandai: Se si pubblicassero questi scritti non potrebbero fare bene anche agli altri?». E nacque il libriccino che tanto, tanto bene potrà fare, veramente. Dedicato ad un uomo, ad un sacerdote che è il continuatore nell’apostolato buono di Don Tarra — Don Bellani’ — è lanciato nel mondo a beneficio delle «Opere di carità di S. Gregorio a, che si trovano ora in condizioni finanziarie di una eccezionale gravità e meritano e devono essere aiutate. Oh abbiti una grande fortuna, piccolo libro santo, piccolo libro prezioso! Prezioso! Così veramente. Sdarriamolo insieme; ogni pagina è una fonte di squisitissime cose, di pensieri cristiani, di indirizzi spirituali, sereni, efficaci), modernissimi. Possono essere utili all’uomo di fede e possono giungere fino al cuore di chi non ebbe mai la fede, che è la nostra consolazione migliore.. Tutti i libri di Giulio Tarra hanno questa virtù di penetrare nelle anime, questa virtù di conquista spirituale, ma questo piccolo libro ci sembra che tutti li superi in efficacia. Vorrei dire che è l’assenza degli altri, il substrato del loro- contenuto migliore. Sono i «riposi» di quell’anima grande, di quel grande apostolo sono le confessioni del sacerdote che molto «visse a, molto comprese, nella serenità della sua mente e del suo cuore -- confessioni tanto più sincere — quindi più efficaci — perché scritte più per sè che per gli altri — non certd destinate alla pubblicazione — per sfogare un sentimento interno per lasciare, se caso, in testamento spirituale ai pochi co quali aveva vissuto ed ai quali solo sarebbe stato dato di frugare in quelle carte. Ma pensieri, sentenze osservazioni che non dovevano, che non potevano rimanere segrete, sconosciute. E’ la loro sorte, [p. 106 modifica]questa; ed è, forse nel fatto che furono scritte per rimanere ignorate che devono essere pubblicate, conosciute, diffuse. E và, piccolo libro e fa il tuo bene e compi la tua missione.

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Ma lo voglio anticipare, a chi mi legge, una gioia. Ripeto, questo non è un libro che si deve solamente leggere, è piuttosto un libro che deve essere meditato; uno di quei libri, che ci accompagnano dovunque, che si aprono spesso, che si leggono e si rileggono a riga a riga, come si beve a sorsi una bevanda squisita; libri che sono i migliori vade-mecum delle nostre anime, oggi, più Che mai, assetate di bene, di fede, di parole semplici e sublimi... Queste di Giulio Tarra, sono tali. Apriamo a caso il piccolo libro. Leggiamo: a V’ha ora i principi della morale qualche sentenza mite, modesta nel suo aspetto, quanto sublime nella sua sostanza, dalla cui osservanza risulta il criterio di tutta la morale stessa. L’obbedienza è il migliore dei sacrifici — il compimento del proprio dovere, un’orazione l’annegazione dell’istinto, la più valida ed efficace mortificazione — il rispetto alla virtù ed alla giustizia, il miglior culto di Dio — ed altri pochi. L’uomo invece tende a farsi legge e scrupolo di quei precetti che nella morale sono derivati e secondari, la cui esecuzione ha una maggiore esteriorità e che si fanno valutare da chi li’ osserva; e così anche nel fare il bene non vuol smettere dal sommo dei suoi incessante — l’amore, il compimento della legge — mali, che è l’orgoglio, e si concilia una religione ed una moralità che non rifuggono da transazioni, che ne distruggono la sostanza. Ma al proposito è necessario non illudersi; come non possiede la morale cattolica chi) crede di riservarla ad una professione tutta interna, così non l’ha chi crede di tacitarla con una professione tutta esterna: anzi questi hanno sui primi lo svantaggio, e ben fatale, di essere creduti dalla Società e da sè stessi in una Chiesa, da cui sono estranei; seguaci di un codice che li condanna». Ed ecco una sentenza tutta moderna, tutta nosgra, dei nostri tempi: Che cos’è il criterio, il buon senso, che pure nella vita è riconosciuto da tutti come il principale fra i doni? Esso è appunto iil contemperamento d’un retto sentire fisico-intellettuale-morale, da cui consegue, come risultato d’un triangolo perfetto, una forma di giudizio che corrisponde alla triplice natura del bello,,del vero e del buono. Un giudizio così `fatto è certamente retto, piacevole, utile, perchè per ogni riguardo è giusto, armonico, perfetto: esso, se da un lato implica la necessità d’un senso integro e colmo, dall’altro conferma quella di -una mente riflessiva e di una serena e ben illuminata coscienza per cui, come dovrà mancare di retto criterio chi è difettoso nel modo di sentire, verrà meno a tanto dono anche colui che, per quanto

perfetto nei sensi è turbato da passioni, da rimorso, da falsi principi, da perverse abitudini. Quindi lo studio spassionato della verità e l’esercizio della virtù, la coltura della pietà e della religione, sono la base, i preservativi, gli antidoti ed i formanti dell’istesso criterio, del vero buon’senso». E leggiamo ancora. Ecco l’educatore, ecco come educava — ed educa veramente — Giulio Tarra. a Condurre grado grado, dolcemente, senza violenza, per una via sempre ordinata e razionale a riconoscere e ad amare la legge: ecco il prógramma ch’io mi prefissi educando. — Mettere nel cuore del mio allievo una viva fede, una grande idea, un salutare timor di Dío e a Lui dirigere la sua mente e la sua volontà operante: ecco il mezzo unico, efficace ch’io mi proposi a compimento di tanto mandato. — In ogni altro fine trovai traviamento di educatori e di allievi; orgoglio e prepotenza, tirannia o noncuranza nei primi; finzione od impostura, malignità o tristezza nei secondi. — Ogni altro mezzo impellente o cattivo, lusinghiero o coercitivo lo rinvenni espressione piuttosto di passione nell’educatore, che di desiderio del bene dell’allievo e lo riconobbi a questo piuttosto di danno, che di vantaggio. L’ira, le minaccie, le percosse, le escandescenze, in una parola la reazione dell’animo dell’educatore contro il suo allievo, la riconobbi uno scandalo fatale, una vendetta, un mezzo di distacco fra edut cando ed educatore, fra entrambi e la legge. Compiansi, ogni giorno, educando, di non essere abbastanza educato e nelle volte convenni che la prima, l’unica condizione per poter guidare gli altri all’amor della legge e della virtù è quella d’aver la prima e di possedere la seconda, d’aver prima conoscenza di sè stesso e l’intiero dominio delle proprie passioni...». In questi scritti Giulio Tarra ha affidato anche un po’ delle sue amarezze, dei suoi sconforti ed un po’ anche delle sue gioie. Sono le gioie degli apostoli, dei sanfi, dei buoni. Chissà, dopo quale gioia, Gite lio Tarra scrisse così: «Ammirano molti o compatiscono come vittime quelli che sacrificano la loro vita per un’opera di beneficenza: e non sanno che tale è la soddisfazione morale del ben fare e: le segrete compiacenze della carità sono tale compenso, che a chi l’esercita torna di stupore e di compatimento la vita di chi non la conosce e non la pratica, di chi vive a sè stesso e alle povere aspirazioni, alle ristrette gioie della vita privata. Credetemi: il cuore non basta, le forze mancano, la vita è poco per f a’ re, sostenere, gustare una opera di pura carità pel prossimo». Ed altrove: a Vissi la mia vita fra gli sventura’ ti; ma li trovai più felici di molti avventurati, so’ lo perchè non erano malcontenti del loro stato, e co’ noscendolo, vivevano di rassegnazione e di sperar’za: fu questa per me una grande, una continua coo’ ferma della necessità, della opportunità della fede; fu la più grande lezione e_ forse la più utile, la 1)1 solenne ed efficace della mia vita». [p. 107 modifica] Attraverso a queste citazioni, a questi pensieri, raccolti qua e là, a caso, senza il benché minimo criterio di cernita, è facile ’comprendere quale sia il valore del piccolo libro modesto, al quale auguriamo la più larga diffusione. Per sè, per il bene che potrà fare, per il ricordo del grande apostolo, ma:sopratutto per le Opere di Carità di S. Gregorio, a beneficio delle quali è stato stampato. Giulio Tarra, primo rettore dell’Istituto dei sordo-muti poveri di campagna in Milano, accolse fra le sue braccia l’Opera bambina — la fece crescere sotto l’impulso potente della sua mente illuminata e del suo cuore generoso e, sagace com’era ne intuì tutti i bisogni e, quando ed in quanto potè, vi provvide., Era naturale che, mentre ci si attende a soccorrere le Opere di S. Gregorio, in uno slancio di iniziative buone e di generoSità cristiana, vi si facesse collaborare l’apostolo infaticabile dei sordo-muti. Egli scrive così nelle opere compiute dai suoi successori, tutti compresi ed accesi dell’esempio di lui, santo e grande. Giovanni Mussio.

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33 CRONACHE DI COLTURA

Un maestro antico Continuazione e fine del numero 13.

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Nè ci par necessario dire quale sia mai la soluzione Che, di codesti delicatissimi quesiti, l’Alessandrino, con secura perspicuità, proponga e propugni: basti ricordare che egli, esaminando con apostolico senso di realismo, le reali innegabili condizioni del giovane di fronte ai molteplici fattori di corrompimento, asserisce, a modo di principio, che nell’ordine naturale «il miglior rimedio contro l’intemperanza è la ragione». Congiuntamente, quindi, ragione e fede illumineranno la fronte del giovine casto e forte, educato alla luce: tale che, senza infingimenti e senza dubbiezze Possa, nell’età virile, raggiungere la sintesi di tutte le poderose forze risvegliate nell’anima, e affrontare Come un signore di sè medesimo, la vita del secolo. I due capitoli che il P. Lahnde dedica alle «convenienze cristiane», sono, quindi, i veri gioielli di un ideale galateo della vita cristiana vissuta nel mondo: C’è tutta una integrale «pedagogia della tavola», la correttezza, l’eleganza del gesto e dei modi, cioè, quali si rivelano nel pasto, nell’ora in cui tutta la famiglia Si raccoglie e celebra la sua più elevata intimità. Clemente, colla facile luminosa capacità artistica del suo genio, si raffigura il lieto «ménage» cristiano, libero e puro di tutti gli eccessi ripugnanti ed ineleganti che contaminano il banchetto dei pagani; che pratica la moderazione nel cibo e nelle bevande, che resta lontano dalle intemperanze di quelle conversazioni che, scaldate dal vino, degenerano, tanto facilmente, in

discorsi scorretti o in litigi dolorosi; il buon maestro antico vuole dei volti sorridenti; invece, delle tavole dove sia concesso, sì, d’inverno, un po’ di vino, ma dove il latte predomini e sopratutto l’acqua pura delle fontane. Nè la parola del Vangelo tace, ancora: i precetti del buon gusto cristiano debbono essere applicati anche alla toletta e, contro il lusso sfrenato ed effeminato, caratteristico di tutte le età di decadenza, esaltano la semi plicità, in nome non solo del bene, ma puranché della verace bellezza: «Se siete belle — così, con questa mirabile semplicità apostolica vestita di purissima grazia, parla codesto padre della Chiesa, rivolgendosi alle signore — la natura basta a rendervi piacevoli, se siete brutte, i vostri fronzoli non faranno che sottolineare la vostra’ bruttezza...». Ed illumina l’immagine bella del cristiano ideale, dalla barba fluente, dalla chioma accurata, non sdegnoso dei buoni e salutari profumi, avvolto in soffici tuniche bianche. Nè di questa visione eletta di spirituale eleganza Clemente resta appagato: il galateo cristiano, dopo aver permeato le piccole quotidiane cose della vita, modererà anche le grandi, ispirando, potentemente, l’educazione e la vita sociale del fedele: tra il capitalismo egoistico e il collettivismo geloso, la saggezza evangelica consiglia l’uso buono e giusto delle ricchezze, l’accettazione di esse come di un mezzo atto a far esercitare un ministero, il ministero della carità nel senso più elevato e fecondo del termine. L’azione, l’apostolato fraterno e sociale sono dunque il coronamento di una bene intesa e ben condotta educazione, perseguita, come la vuole Clemente, nella famiglia e per mezzo della famiglia. Allora l’Alessandrino vede adempiuto il suo compito, e tace: «E tempo per Inc — egli conclude --,di porre termine a questo corso; e per voi, di andare ad ascoltare un altro Maestro». Questi è il Maestro Eterno, l’Unico: Gesù.

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Cosi, sul limitar del secolo corrotto e corrompitore, nel cuore stesso della ambigua città mortale, si leva l’immagine purissima del cittadino cristiano: l’anima, rinnovellata nell’annuncio— evangelico, la volontà ritemprata nell’amore del Viandante divino, egli appare il vindice di tutte- le liberazioni, l’artefice di tutte le rinascite. Tutto un universo si consuma attorno a lui, tutto un mondo ebbro di dissolvimento e di desolazione: esemplare superbo di sanità morale, creatura esuberante di gagliardia nella congiunta purezza dell’anima e del sangue, il cristiano è splendidamente, il figlio dell’energia, l’operaio della città nuova. Aitante nel candore della tunica bianca, la barba fiorente, la composta chioma odorante, agile ai giuochi sotto il sole, salutante, a notte, nella letizia del canto, il Padre vigile raccolto e raggiante nel tempio, lieto, operoso, benefico: eccola, la creatura cristiana siccome la saluta l’umile e grande maestro antico, eccola balzare dalla vita. Si che voi, nelle pagine aùguste dell’Alessandrino [p. 108 modifica]— che ora in sì degna veste italica appaiono in edizione accuratissima — cerchereste invano, di tra lo splendore della conquista cristiana, l’ombra fallace di quelle turbe maledicenti all’opre della vita e dell’amore, tante volte tristamente evocate dalla facile retorica sonora degli ignari e dei vili. Egilberto Martire.