Il buon cuore - Anno XI, n. 31 - 3 agosto 1912/Educazione ed Istruzione
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Educazione ed Istruzione
La seconda giovinezza del Manzoni
Sposata la protestante Enrichetta Blondel, il Manzoni, come dicemmo, riparte con la nuova sposa e con la madre per Parigi; ritorna vicino al suo Fauriel, il quale seguitava a convivere, tra Parigi e la Maisonnette, con la bella signora di Condorcet. E lavorava anche, il Fauriel; ma con quella sua incredibile lentezza di preparazione che doveva far di lui uno scrittore di opere postume. Egli non fa che cercare materiali e i suoi lavori non escono mai. Per dieci anni il Manzoni, in lettere che gli scriverà, seguiterà da presso e da lontano a chiedergli notizie del suo Dante, a cui l’altro attende, ma che non compie. Nell’aprile 1812, saputo che l’amico attende a una storia della rinascenza letteraria in Europa, il Manzoni gli scriverà da Brusuglio:
«Avvezzo a non udirvi parlare di queste cose, se non con idee profonde e nuove, non posso dubitare della importanza e di tutti i pregi del vostro lavoro; non mi resta che a desiderare di vederlo un giorno, poichè, sia detto senza dispiacervi, comincio un poco a capire quel che siano le vostre ricerche di materiali, le vostre correzioni; son cose alle quali voi, forse, date un po’ di quel tempo, che potrebbe già essere impiegato nello scrivere la vostra opera». Era tuttavia quel Fauriel un’amicizia ideale per il nostro: perfetta l’intesa delle anime, cordialissime le relazioni tra famiglia e famiglia; comuni molte idee e molti principi in fatto di letteratura, di religione e di politica; non sostanzialmente diverso il modo di vita, ritirato, tranquillo meditativo, con molta onesta passione per il vero e nessuna preoccupazione e ambizione di fama o di gloria. Ambedue erano uomini dagli ingegni ancora assai superiori alle opere; meglio noti a se medesimi reciprocamente che non agli altri ed al mondo. Erano, si può dire, due grandi uomini inediti; e due perfetti signori. Il Manzoni pareva portato unicamente alla poesia, ma anch’egli leggeva più che non componesse, e qualche lavoro intrapreso in passato cominciava quasi a pesargli, come il poemetto Urania, del quale scriveva nel gennaio 1809: «Non ho scritto undici sillabe dopo la vostra partenza; tuttavia, vado sbarazzandomene, perchè ne sono molto annoiato». E il Muxtoditi, scrivendo al Pagani, nel settembre, gli dava queste buone notizie di Alessandro: «Gode buona salute, studia, ed è reso beato dalla più pura felicità essendo figlio e sposo di due donne adorabili, e padre di una vispa e sana fanciulla».
La conversione della moglie.
Cade in quest’anno la conversione della moglie Enrichetta dal calvinismo al cattolicismo, e la petizione del Manzoni a S. S. Pio VII per il legittimo riconoscimento del suo matrimonio. «Alessandro Manzoni, cattolico del Regno italico, ed Enrichetta Blondel, di religione detta riformata della communione di Ginevra, riempite le formalità civili, sonosi congiunti in matrimonio innanzi ad un ministro della suddetta Religione riformata. Da tale unione è nata una fanciulla, la quale è stata battezzata cattolicamente, secondo il rito della Santa Romana Chiesa.
«L’Oratore cattolico, per qualche ostacolo, e per lo stimolo anche della concepita passione, mal volentieri sì ma pure s’adattò all’esposta celebrazione; ed ora è disposto a riparare il suo fallo secondo il principio della Santa Religione cattolica.
«Quindi è, che godendo egli piena libertà dell’esercizio di sua cattolica religione, e dell’educazione della prole dell’uno, e dell’altro sesso, secondo la stessa cattolica Religione, ed essendo rimosso ogni pericolo di sua sovversione, col consenso della suddetta sua compagna, pentito del fallo commesso, implora dall’Autorità apostolica un opportuno riparo, capace di render tranquilla la di lui coscienza, e di cancellare ogni sinistra idea nei cattolici, fra quali debbono ambedue abitare, benchè vengano reputati legittimamente congiunti».
Grande fu lo scandalo di questa conversione nella famiglia Blondel, e fiere le ire del padre e della madre della sposa contro tutta la famiglia. Strazianti le lettere della figlia per implorare il perdono. Furono messe in mezzo persone avvedute e sacerdoti di coscienza per persuadere i Blondel della piena buona fede della sposa e del pieno suo diritto a convertirsi a una religione che le pareva superiore e che sola ormai le dava la pace dell’anima; ma inutilmente. I Blondel non perdonarono; e Alessandro e la madre non misero più piede in quella casa e corsero fra gli uni e gli altri dure parole. Ed ecco entrano in scena l’abate Eustachio Degola e il canonico Luigi Tosi, due confortatori di tutta la famiglia Manzoni alla nuova vita cristiana, colorata in questo primo periodo di giansenismo, poichè il Degola, come è noto, era, in senso lato allievo di Scipione de’ Ricci e sino dal 1797, in un giornale stampato a Genova, s’era sforzato di conciliare la libertà e la religione senza troppo curarsi dell’attitudine della S. Sede.
I Manzoni e i Cavour.
È da notare questo influsso del giansenismo nella giovinezza di Alessandro Manzoni, come, forse più direttamente, in quella di Giuseppe Mazzini e in quella di Camillo Cavour, la cui madre Adele de Sellon, di religione riformata, si converti anch’ella al cattolicismo in quegli anni. Abbiamo nel carteggio una lettera di Giuseppe Boyer all’abate Degola, datata da Torino il 28 ottobre 1811, nella quale appunto si legge: «Più mesi or sono, io mi sono indirizzato a voi per sapere qual era il metodo, che voi avete adottato per convertire alla Religione nostra cattolica una signora che professava il Calvinismo; del che io era richiesto dall’abate Tardì, il quale aveva intrapreso la medesima cura spirituale verso la Marchesina di Cavour e Madama d’Huzers, sorelle della Baronessa della Turbie, la quale, alcuni anni sono, già s’era fatta cattolica. Ora ho la soddisfazione d’annunziarvi che desse hanno solennemente fatto li 21 corrente l’abiura del Calvinismo, abbracciando la sacrosanta nostra Religione, nelle mani dell’abate Tardì, che le istruiva. La funzione fu edificantissima, ed esse sono contentissime della risoluzione loro. Lessero tutte le opere di Bossuet e di Nicole contro i protestanti, oltre alcune altre, e nel corso delle loro letture ebbero anche ben lunghe conferenze coll’abate Tardì....». Anzi, l’abate Degola concepì il disegno di far entrare in carteggio le neofite del Tardi con la signora Manzoni: ma dal carteggio non risulta che il disegno avesse effetto.
Il Manzoni pio.
Ci appare invece da queste carte in nuova attitudine il nostro Alessandro. «Monsignor Tosi, scrive l’Enrichetta nel gennaio 1811 da Milano dove erano tornati, mi ha dato da leggere il catechismo di Montpellier (opera del grande Colbert, ascritto dal Sainte-Beuve alla razza leonina, pugnace e generosa dei lottatori che il giansenismo seppe produrre accanto all’Arnauld) che mi ha fatto grandissimo piacere ed io ne faccio qualche volta la lettura a maman. La sera mio marito ci legge un poco della Religion meditée (altra pubblicazione cara ai giansenisti) è un libro che io amo molto di cui cerco di leggere qualche cosa ogni giorno: il nuovo Testamento che voi ci avete procurato. Il buon monsignor Tosi viene una volta la settimana a farci la dottrina e la fa separatamente e in francese a una delle nostre donne che non capisce l’italiano». Al medesimo abate Degola, da Lecco, il 22 febbraio 1811, monsignor Tosi ospite dei Manzoni, mandava intorno alla famiglia altre notizie, particolarmente preziose: «....le cose continuano bene. La signora Enrichetta non può condursi meglio, ha acquistata anche una maggiore franchezza con sua madre, nel che prima la di lei tenerezza e pusillanimità mi dava qualche timore; del resto, mi pare che la di lei virtù vada crescendo ognora più; la famiglia ne è edifidata, ed io ne son sempre più consolato. Anche D. Giulia è sempre meglio tranquilla; si va staccando a poco a poco dalle idee non cattive, ma irregolari di cui era ripiena; si avanza nel fervore e nella esattezza, e mi dà le migliori speranze. Per il buon Alessandro confesso che son in inquietudine, perchè i miei timori sulla dissipazione che potevano cagionargli le cure di una fabbrica dispendiosa in Brusuglio, le brighe per gli affari propri, ai quali giustamente ha cominciato ad attendere, la conversazione di qualche amico di Milano, non sono stati del tutto vani. Vorrei vederlo occupato più seriamente, più economo del tempo, e più docile alle insinuazioni dolcissime della moglie e della madre. Pregate e fate pregar molto per lui, perchè si ottenga tutto quel frutto che si cerca, per una perfetta corrispondenza alle grazie singolarissime che il Signore ha fatte a lui e alla sua famiglia. Guardatevi però dal fare alcun cenno, scrivendo, di ciò che vi dico in piena riserva». Ma questi del Tosi erano forse scrupoli piuttosto che fondati timori, e in una letterina del Manzoni al Canonico leggiamo: «Si compiaccia di pregare il buon Gesù che non si stanchi di farne risplendere i miracoli in un cuore che ne ha tanto bisogno»; e in un’altra di lui al Degola: «La famiglia tutta si raccomanda alla memoria sua dinanzi al Signore, ed io principalmente come il più bisognoso di tutti. Preghi Ella perchè piaccia al Signore scuotere la mia lentezza nel suo servizio e togliermi da una tepidezza che mi tormenta, e mi umilia; giusto castigo per chi non solo dimenticò Iddio, ma ebbe la disgrazia e l’ardire di negarlo. Ma se il desiderio mio è per la gloria di Lui, e se sarà avvalorato dalle sue orazioni, spero vederlo esaudito». Che sono accenti di animo contrito, nel quale la gran lotta ormai era cessata e subentrava al contrasto la pace e la nuova spirituale interezza di volere e di sentire. Lo stesso Tosi esclamava: «Oh qual miracolo è questo della Divina Misericordia! Non la sola Enrichetta, che è un angelo di ingenuità e di semplicità, ma Madama, ed anche il già sì fiero Alessandro sono agnellini, che ricevono con estrema avidità le istruzioni più semplici, che prevengono i desiderii di chi dovrebbe dirigerli, che danno coraggio a chi loro parla, onde parli liberamente, che tutto mettono a profitto di loro santificazione.... La città nostra è sommamente edificata di questo prodigio della destra del Signore; i buoni sono inteneriti, e presagiscono grandi beni alla causa della Religione...».
Le convulsioni.
Il male era che il Manzoni cominciava a patire seriamente nella salute. La sua pigrizia, la sua lentezza talora torpidezza avevano un fondamento nella fragile e facilmente scossa compagine dei suoi nervi. La vita di campagna non valeva a risanarlo pienamente. Improvvise vertigini, spossamenti, languori, deliqui, convulsioni lo tormentavano a quando a quando. Aveva paura e ribrezzo a far quattro passi solo fuori di casa, doveva sempre farsi accompagnare nelle quotidiane passeggiate che imprendeva per divagarsi e rafforzarsi. La madre e la moglie erano seriamente impensierite. «La salute incostante del mio caro Alessandro, scrive l’Enrichetta nell’ottobre 1816, è anche la causa del poco tempo che posso avere per me, perchè le angosce nervose che egli prova non gli permettono di rimanere solo un momento. Non saprei quale altro nome dare ai suoi malesseri se non quello che vi dico, poichè, grazie a Dio, la sua salute non è cattiva; ma egli prova talora delle agitazioni interne così forti che non può assolutamente assentarsi, o trovarsi solo; potete ben immaginare la pena che ci deve fare il suo stato, ma egli è più sovente così gaio e piacevole e di sì buon aspetto che ogni volta che lo udiamo parlare dei malesseri, ci pare una cosa straordinaria. Ha cercato di vincersi più d’una volta, ma questo sforzo gli fa peggio; e una volta che essendo solo nel giardino ha sentito le angosce prenderlo e ha voluto rendersi superiore sforzandosi a non far loro attenzione, si è sentito venire uno svenimento e non avendo potuto avere altro aiuto che se stesso, ha rischiato di perdere un occhio gittandosi dentro senza volere una quantità d’acqua di Lecco, acqua fortissima e che brucia e che non si porta con sè se non per rianimare gli spiriti in simili casi, aspirandola». Per mutare aria e cercare uno svago si pensò allora in casa Manzoni di fare un viaggio nella Svizzera e a Parigi per rivedere il caro Fauriel che nel frattempo non aveva quasi mai più scritto, e al quale il nostro si ricordava con affettuosa insistenza, mandandogli sue notizie e della famiglia e chiedendogli premurosamente ad ogni volta a che punto fossero i suoi lavori. Fu difficile ottenere dal governo i passaporti, alfine si ebbero e Alessandro e le due donne e un branchetto di figliuoli partirono poi con molto ritardo nel 1819; furono ospitati per qualche tempo alla Maisonnette, e tornarono in patria l’anno seguente senza che la salute del nostro fosse gran che migliorata.
Il Manzoni agricoltore.
Aveva cominciato e seguì poi sempre il Manzoni a vivere nella sua villa di Brusuglio, tra gli affari grossi della famiglia, e le cure dell’agricoltura e gli ameni svaghi del suo giardino. Della quale vita veramente virgiliana si osservano tracce in alcuni lavori e disegni di lavori di quegli anni, e anche in certi episodi dell’arte sua più matura. Un poema sulla vaccinazione aveva egli in mente, come da sicura notizia, fin dal gennaio 1809, quando, ancora a Parigi, si faceva mandare da Milano libri sull’argomento. Leggeva allora assiduamente Virgilio e scriveva al Fauriel, in ottobre, di una tradizione che era nelle valli del Bergamasco di menare le vacche infette nelle case di coloro che si volevano preservare dal vaiuolo. «Così, vedete, concludeva, ho vaiuolo, Lombardia, montagne e tradizione». Meditava la sua georgica; intorno alla quale lavorava nel 1812 avendone fatto il piano e il principio del primo canto, in ottave «pel timore che un seguito troppo lungo di versi bianchi non divenisse opprimente, e me ne trovo molto contento». A Brusuglio leggeva libri di giardinaggio, di orticoltura, di agricoltura e ordinava piante nuove a Parigi, fra le altre le acacie che egli fu il primo se non a introdurre a diffondere largamente in Italia. Viveva fra le sue piante, osservandone le qualità, studiandone la vita, imparandone i nomi: cure, delicatezze, conoscenze ed esperienze che gli vennero poi fuori tutte insieme, molti anni dopo, il giorno che scrisse la memorabile particolarissima descrizione della vigna di Renzo nei Promessi Sposi. Appunto al Fauriel scriveva nel 1812: «Attendo con impazienza le sementi; un’altra volta vi farò la descrizione del nostro giardino e delle nostre piccole ricchezze botaniche, che la vostra spedizione aumenterà considerevolmente». Altre impressioni di questi anni, che riapparivano nel romanzo sono le seguenti: l’assalto alla casa del Prina, vicina alla casa sua di Milano, donde uscirà la descrizione del tumulto intorno alla casa del Governatore; e le soldatesche austriache che nel 1814 avevano invase e occupate le case di campagna intorno alla capitale. Piccole cose, si potrà dire; ma l’arte del Manzoni è come quella dei classici, fatta di singoli episodi, che s’inquadrano poi nella vasta e organica tela ordinata dal pensiero e dalla meditazione.
Gli Inni e le Osservazioni.
Una parte dell’arte del Manzoni è nella elaborata comprensione ed espressione delle grandi idee morali. Studio che gli anni rafforzavano in lui: «Io mi ricordo, scrive al Fauriel nel 1815, che voi mi citavate una osservazione fatta su voi medesimo, che l’imaginazione relativa alle idee morali si fortifica con l’età in luogo di raffreddarsi, come si crede comunemente. Quante volte facendone l’applicazione a me stesso l’ho trovata pienamente vera». E nel 1812 aveva scritto al Degola, alludendo agli Inni: «L’operetta che io ho pensata a Parigi, e che sto ora lavorando, non è sostanzialmente religiosa, bensì la religione vi è introdotta co’ suoi precetti, e co’ suoi riti; insomma l’opera non è apologetica, qual mi pare la supponeste». Era tuttavia poetica, piena di quell’interesse umano che il Manzoni voleva infuso in ogni opera di poesia vera, e la cui mancanza nell’Urania gli aveva raffreddato il poemetto fra le mani, facendogli scrivere al Fauriel: «Voi avete voluto copiare questa piccola rapsodia? Voi! Se avessi ora la voglia e l’indiscrezione di intrattenervi di queste bazzecole direi che sono molto scontento di quei versi, sopratutto per il loro assoluto mancamento d’interesse; non è così che bisogna farne; ne farò forse dei peggiori, ma non ne farò più come questi». E qualche anno dopo, nel 1812: «Sono più che mai del vostro avviso sulla poesia; bisogna che essa sia tratta dal fondo del cuore; bisogna sentire, e sapere esprimere i sentimenti con sincerità (non saprei come dire altrimenti)». E passando allo stile degli Inni: «quanto allo stile e alla versificazione, dopo essermici un poco tormentato, ho trovato il modo più facile, ed è di non pensarci affatto.... Mi sono ricordato dell’oraziano verbaque provisam rem non in vita sequentur, che trovo essere la sola regola per lo stile...». Gli Inni passano inosservati; ed il Manzoni non se ne rattrista affatto. Egli rimaneva sempre quel desso; gentiluomo e signore senza vanità, letterato senza furori di gloria e senza ambizioni, tempra di scrittore e di uomo infinitamente lontana e diversa a un Foscolo, a un Alfieri, a un Leopardi. Egli era piuttosto della famiglia del Grossi e del Porta. E non voleva saperne nè di giornali letterari, nè di battaglie chiassose; osservatore disinteressato di se stesso degli altri, molto più freddo del Goethe, il quale era olimpico in quanto appunto si sentiva alto e superiore ad ognuno. Il Manzoni rimane in conspetto all’arte sua al movimento letterario italiano, in una posizione unica, che forse nessuno occupò mai prima di lui, nè certo nessuno riacquistò mai dopo. Anche quando parla delle Osservazioni sulla morale cattolica, lo fa senza calore, e non si sente in lui l’amor proprio del padre nè altro affetto che il proprio intimo compiacimento di un lavoro tranquillo ed onesto, condotto in campagna fra le cure degli alberi, della famiglia e degli amici, fra le conversazioni e le letture che pare quasi gli servissero a passare in dolce ozio il tempo.
Le tragedie.
Così anche delle sue tragedie, il Carmagnola e l’Adelchi che scrive in questi anni, apparentemente senza altra fatica che della elaborata e curiosa e ingegnosissima preparazione storica e critica. Vorrebbe avere accanto a sè il Fauriel per cavarne un qualche lume sul buio profondo di quei tempi. La leggerezza e presunzione degli storici non gli desta nessun moto di sdegno: solo, vorrebbe avvertirli bonariamente che non sanno nulla.
Alfine, compiute le tragedie, si mette alla prima composizione del romanzo, senza farcene sapere nulla. Comincia, semplicemente, a lavorare. E con la figura di quest’uomo che tormenta con delicati scrupoli un amico perchè gli mandi libri su libri e vecchie storie, ecc., ecc. si chiude questa prima parte dell’epistolario attraverso il quale abbiamo mosso forse un po’ lentamente i nostri passi erranti. E li abbiamo mossi con molta quiete riposo quasi direi dell’anima; perchè questa è qualità del Manzoni, uomo e scrittore e par che s’apprenda naturalmente a chi nella vita lo segue e lo osserva nell’arte.
Epistolario, diremo, non grande come non copioso; tutt’altro che ricco, anzi povero; un epistolario al quale, eccettuate forse poche lettere e qualche biglietto, Alessandro Manzoni non pensava. Non pensava, scrivendo agli amici, di preparar nulla pei posteri: nè rivelazioni intime, nè sorprese, nè la cronaca, nè la storia di sè medesimo e delle cose sue. Le lettere di Ugo Foscolo, di Giacomo Leopardi, del Tommaseo e del Capponi entrano a far parte della letteratura italiana: sono prosa pensiero, passione e contrasto, critica e cultura; sono episodi rilevati di umanità eloquente e vigorosa. Delle lettere di Alessandro Manzoni non si può dir tanto. La parte critica e culturale la ritroviamo ben altrimenti sviluppata nelle sue prose; egli non aveva voglia nè di raccontarsi nè di indagarsi per lettere ai conoscenti e agli amici. Era pigro; era parco, era ineffabilmente ascetico. Ed è, così come ci appare, un che di non bene distinto e quasi di confuso tra l’uomo antico ed il nuovo. Scriveva le sue lettere su per giù come le scriviamo noi, oggi, che non abbiamo più il tempo di scriverle, e non le sappiamo scrivere. E ne ha lasciate poche, come certi scrittori antichi. E forse si potrà dire un giorno alcun che di più vero che non si sia detto finora sul Manzoni uomo, a parte l’ingegno. Che cioè fu savio, ma anche innegabilmente mezzano e limitato, senza passioni quotidiane che potessero dar valore e rilievo al racconto della sua vita mortale. Fu molto economo di sè medesimo. Non visse in espansione lirica, come il Foscolo, la sua vita mortale: non la visse letterariamente come il Tommaseo, nè psicologicamente e pedantescamente come il Leopardi. Una lettera del Manzoni non sa essere nè una bella pagina di prosa, nè uno stato d’animo travagliato profondo. È qualche cosa di infinitamente meno. Ma egli volle che fosse così. Il suo ideale era nella vita, non nella letteratura. O se era nella letteratura, questa si chiamava lirica, romanzo, tragedia, non mai epistolario.
Accettiamo dunque il compimento della sua volontà.
Carteggio di Alessandro Manzoni, a cura di Giovanni Sforza e Giuseppe Gallavresi; con 12 ritratti e 2 fac-simili, 1803-1821. — Milano, Ulrico Hoepli, editore, pagg. xx-610, L. 6,50.
Il rifugio di lbsen ad Amalfi
I bibliografi di Enrico Ibsen, a proposito dia «Casa di bambola», sanno ed annotano solamente questo: che essa fu scritta nei tre mesi autunnali del 1879 ad Amalfi. Niente altro: troppo poco per chi ama di ogni grande figura rappresentativa conoscere le consuetudini l’ambiente entro il quale essa operò. Qualche settimana fa, soggiornando tra le aspre solitudini marine e montane di Positano — sulla strada tortuosa che lega Sorrento al golfo di Salerno — fui consigliato dal giovine e valente pittore svedese Carl Palme e dalla sua signora, di recarmi nella vicina Amalfi a visitare il rifugio ove il grande poeta scandinavo concretò uno dei suoi drammi più noti. I signori Palme vennero meco a rendere omaggio riverente a quegli che è della loro lingua e del loro pensiero, più che nazionale di razza, l’inclito rappresentante.
⁂
Ad Amalfi — linda e graziosa, raccolta intorno alla cupola e al campanile sfolgoranti della lor cattedrale — tutti vi sapranno indicare l’antico Albergo della Luna che in diversi tempi e replicatamente ospitò Gladstone, Kinley, Gioacchino Pecci, che fu poi papa, Victor Hugo, Enrico Ibsen, Otto Erik Hartler, l’autore squisito di «Lunedì delle rose»....
L’Albergo della Luna — insegna piena di romanticismo e con in sè qualcosa di profondamente misterioso — si drizza bianco su di uno scoglioso promontorio alla punta estrema del quale, come a guardia di due piccoli golfi, sta una diruta e, fenduta torre saracena simile all’altra poco lontana dello Ziro, ove nel 1500 fu rinchiusa ed uccisa dai fratelli, Giovanna d’Aragona, duchessa d’Amalfi.
L’edificio fu convento degli Antoniani sino al 1793, poi scuola e infine dal 1848 albergo a cui convenivano, per la magnificenza della positura, i grandi uomini a riposare o a lavorare: non fu qui che Hugo scrisse il suo Inno ai maccheroni napolitani?...
Salite una scala esterna a tre ripide e brevi rampe e vi troverete nel graziosissimo chiostro quattrocentesco che, con le sue colonnette sorreggenti archi acuti, inquadra un piccolo giardino pensile pieno di sole, di cespugli, di fiori. In un angolo del corridoio, su un battente della porticina, è inchiodata una cartolina illustrata con il ritratto di Enrico Ibsen e più sotto quello dell’Hartler.
Il cameriere Raffaele Barbaro — un magro uomo di cinquant’anni, eretto, dai grandi baffi e dagli occhi rabbuiati — vi dirà, indicandovi la porticina, senza aggiungere altro:
— È qui!
Si capisce che qui non può riferirsi che ad Ibsen od all’appartamento da lui occupato.
Quattro camerette comunicanti fra loro, due delle quali separate da un arco a tutto sesto, così che una di esse appare alcova dell’altra: ecco ove il poeta norvegese assieme con la moglie e il figlio Sigurd, giovinetto allora, adesso grave signore ed ex-ministro del Re, trascorse tre mesi nella quiete operante. In questo iperbolicamente minuscolo appartamento come dovevano essi sentirsi vicini vicini in piena intimità famigliare anche quando Ibsen, nel salotto — la prima camera azzurra che dà sulla terrazza — curvo sulla vecchia scrivania, che religiosamente oggi si conserva — volava lontano nelle alte profondità del pensiero insieme con i suoi fantasmi poetici! E di contro il Tirreno risonante e l’arco del cielo, e ai lati le montagne della Calabria e della Campania...: l’Italia nostra che egli amò compiutamente per le mille bellezze e le mille bontà e che abitò da Sorrento ad Amalfi a Roma....
Roma è ricca di memorie di lui, c’è anche una lapide sulla facciata di un albergo.... I nostri vecchi videro il piccolo norvegese ispido, dalla grande testa laboriosa; e lo rammentano anche per gli aspri dissidi con Bijörnson che pareva si elaborassero in Scandinavia e venissero a maturarsi da noi. Chi ignora, per esempio, che sopra un album tenuto segreto del Circolo Scandinavo, tra i due confratelli corse un dialogato di insolenze ogni qualvolta l’uno vedeva dell’altro la firma? Chi non sa al Caffè Greco — il classico ritrovo secolare di poeti e di artisti — che una sera si passò dalle insolenze alle vie di fatto? Ma son quelli tempi lontani: la pace doveva essere sigillata da un matrimonio: il figlio dell’uno impalmò la figlia dell’altro. Davanti all’amore tacquero le ire nemiche.
(Continua).
PAGLIUZZE D’ORO
La luce del volto.
Non c’è nulla di più bello e piacevole d’un viso illuminato da un senso di vera simpatia e di vigile amore e non c’è nulla di più triste del volto chiuso ed accigliato di un uomo che gira e rigira sempre intorno al suo piccolo Io.
Enciclopedia |
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