Il buon cuore - Anno XI, n. 11 - 16 marzo 1912/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XI, n. 11 - 16 marzo 1912 Religione

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ROMA - MILANO
“Commemorazione Costantiniana„

Un dotto scrittore di storia, parlando di Roma pagana, dice che essa era la madre dell’idolatria. Prima che la Croce di Cristo fosse piantata vittoriosa sulla reggia deserta dei Cesari, Roma faceva adorare i suoi dei a tutta la terra, e fra questi dei, gli imperatori suoi sopra tutti. Essa faceva adorare sè medesima, e le provincie soggiogate le innalzavano templi, e tremebonde rendevano omaggio divino alla potenza di una città, che sotto l’ali delle aquile sue adunava tutto il mondo. Roma si vantava di essere per l’origine sua, una città santa, consacrata con augurî propizi e fabbricata sotto fausti presagi. Giove, il Signore degli dei, aveva eletto il suo trono nel Campidoglio; e si credeva che ivi abitasse più che nell’Olimpo stesso e nel cielo ove egli regnava. Romolo l’aveva dedicata a Marte, di cui era figliolo; per cui ella divenne sì bellicosa e vittoriosa. Gli dei, che nel suo seno abitavano, le avevano segnato un destino sotto il quale tutta la terra doveva curvarsi. L’impero suo doveva essere eterno; tutti gli dei degli altri popoli e delle altre città dovevano cedere a lei, e fra gli dei vinti, ella contava pure il Dio dei Giudei. Del resto, siccome credeva che le sue vittorie fossero dovute alla religione, teneva per nemici dell’impero suo, quelli che si rifiutavano di adorare i suoi dei, i suoi cesari e lei medesima; e il combattere la sua religione era per lei lo stesso che intaccare i fondamenti della Romana dominazione.

Tale fu il motivo delle persecuzioni che la Chiesa patì nel corso di trecento anni, perchè fu in ogni tempo una delle massime di Roma di non tollerare altra religione all’infuori di quella che il Senato suo autorizzava. Per cui la Chiesa nascente fu segno alla sua avversione, e Roma immolava a’ suoi numi il sangue dei primi cristiani per tutta l’estensione dell’impero suo; ma nello stesso tempo non dimenticava se stessa, anzi, più che tutte le altre città, al grandioso Anfiteatro accorreva festante per inebriarsi nel sangue dei Martiri. Così esigeva la romana politica e l’odio insaziabile dei popoli.

E noi vedemmo succedersi le feroci persecuzioniS. S. Pio X. [p. 82 modifica]contro i Cristiani, che fecero scorrere a rivi il sangue innocente sulla terra e popolavano di Santi il Cielo. Prima il feroce Nerone, il quale — narra Tacito — «fece perire coi più ricercati tormenti quelli che il popolo chiamava Cristiani.... Gli uni coperti di pelli di bestie venivano esposti ai cani per essere lacerati; gli altri confitti a croci o attaccati a pali, si intonacavano in guisa che potessero facilmente ardere, e servissero di fiaccole durante la notte. Nerone aveva conceduto i suoi giardini per un tale spettacolo e vi compariva egli stesso in abito da cocchiere sopra un carro come nei giuochi del circo....» Poi Domiziano, Traiano, Marco Aurelio — anche Marco Aurelio inferocì contro i Cristiani, e lo provano gli studi del De Rossi nel cimitero di Callisto e i documenti storici e cristiani. — Poi Settimio Severo, Massimino, Decio che prese di mira in modo speciale gli ecclesiastici, a cui non contento di strappare la vita, tentava con arti diaboliche di strappare la stessa virtù: poi Valeriano, Aureliano, e finalmente Diocleziano, la cui persecuzione durò non meno di dieci anni e furon tanti i Cristiani uccisi per la Fede che quella si disse per eccellenza l’era dei Martiri.

Ma d’un tratto muta la scena. Già dieci secoli prima Davide aveva preannunciati questi combattimenti della Chiesa: «Quare fremuerunt gentes et populi meditati sunt inania?». Ah è inutile, che i popoli macchinino vani disegni; Tu, o Signore, li governerai con scettro di ferro, e li stritolerai come un vaso di creta: così mille anni prima il Reale Profeta. Le nazioni della gentilità e i popoli di Israele si mossero a tumulto; i re e i principi, Erode e Pilato, Nerone e Domiziano, Diocleziano e Massimiano Erculeo, Galerio e Massimino Daja si sono alzati e collegati contro il Signore e contro il suo Cristo, per rigettare la sua legge, per sottrarsi al suo impero. Noi li abbiamo veduti stritolati l’uno dopo l’altro come vasi di creta. Nel 310 Massimiano, strangolato ad Arles, dopo di aver sospirato alla porpora imperiale che tanto mal volontieri aveva deposta; l’anno seguente Galerio spegnevasi roso dai vermi. Diocleziano visse fino al 313, ma per vedere dal suo romitaggio di Salona la distruzione totale dell’opera sua.

Costantino comincia a imperare: la guerra contro il Signore è cessata. Il governo di Occidente era diviso tra Costantino e Massenzio; il primo rispecchiava il coraggio e la moderazione di Costanzo Cloro, il secondo la rozzezza e la crudeltà di Massimiano.

A Massenzio, sempre ambizioso ed avido di dominio, dava fastidio la potenza di Costantino, per cui, forte dell’esercito e dell’alleanza di Massimino, si dispose a far guerra a Costantino. Questi, dal canto suo, nel pieno vigore delle sue forze, non esitò un istante; e invece di aspettare nelle Gallie il suo nemico, corse La Città Eterna veduta dalla cupola di S. Pietro. [p. 83 modifica]ad incontrarlo in Italia. Ma come fare, che il suo esercito era appena la quarta parte di quello di Massenzio? Pensò che senza il soccorso dell’alto non avrebbe vinto, cercò qual dio convenisse invocare. Pensò che tutti gli imperatori idolatri avevano finito male, mentre suo padre Costanzo, il quale per tutta la sua vita aveva onorato il solo Dio supremo, aveva da lui ricevuti segni evidenti della sua protezione. Risolse dunque di darsi tutto a questo gran Dio; ed ecco, che mentre "pregava di tutto cuore, declinando già il sole oltre il meriggio e marciando Costantino in piena campagna, gli apparve in cielo una croce formata con raggi di sole, che portava questa iscrizione: «In hoc signo vinces», con questo segno vincerai. Incerto del significato della Croce e di quelle parole si addormentò la notte immerso nei dubbi, ed ecco apparirgli Cristo stesso, nello splendore della sua gloria, portante un labaro simile a quello veduto in cielo, e comandargli di farne uno simile con cui valersi sui nemici nelle battaglie, e di star sicuro della vittoria. Costantino ubbidì ciecamente. Sicuro dell’aiuto divino, scese le Alpi: si scontrò coi massenziani a Susa e a Torino, e li sbaragliò. Indi passò a Milano: accolto in trionfo dalla città forse l’unica che gli era amica, corse a Brescia ed a Verona per sconfiggere nuovamente Massenzio, il quale si ripiegò su Roma, confidando nelle mura inespugnabili di quella città. Forte del numero de’ suoi soldati, prima di scendere in campo, Massenzio volle interrogare i libri Sibillini e gli indovini risposero: «Sovrastare l’ultimo giorno al nemico di Roma». L’oracolo non falliva. La Croce doveva esser piantata trionfalmente quel giorno sugli spalti dell’eterna città. Massenzio si incontra con Costantino; da ambedue le parti si combatte accanitamente. Ma ad un tratto i massenziani si danno a precipitosa fuga. Massenzio stesso vi è travolto, nella confusione guadagna un ponte da lui costruito in danno del nemico. Ma, il ponte si spezza, e Massenzio cade nel Tevere: ripescato il suo corpo, gli fu mozzata la testa e portata in Roma sopra una picca.

La città apri le porte a Costantino, il quale vi entrò tosto vittorioso accolto dalla comune esultanza. Il Senato fece innalzare in suo onore l’arco trionfale che ancor oggi ammiriamo, e il popolo gli innalzò una statua dove volle comparire con una lunga croce in mano al posto della lancia colla seguente iscrizione: «Con questo salutare vessillo, vera insegna del valore, ho liberato dal giogo della tirannide la vostra città, e restituito al Senato e al popolo il suo primo splendore». Parti da Roma Costantino il 18 gennaio 313 si recò a Milano per ivi maritare a Licinio sua sorella Costanza; due imperatori pubblicarono da Milano un editto che concedeva libertà di coscienza non solo ai Cristiani, ma a tutti quelli che professassero qualunque altra religione; aggiungendovi tuttavia in favore dei Cristiani un articolo importante, ed era che potessero rientrare con pieni diritti, e senza nulla pagare, in possesso delle loro chiese e degli altri stabili di cui eran stati spogliati, e perchè questi fondi erano per vendita o donazione passati nelle mani di diversi privati, l’editto imponeva al fisco di risarcire i possessori che quindi se ne trovassero spodestati.

Così terminò questo conflitto durato tre secoli tra la Chiesa di Cristo e Roma idolatra. Per tre secoli Roma idolatra perseguita la Chiesa per mezzo de’ suoi imperatori e de’ suoi idoli, e per tre secoli la Chiesa soffre e muore ne’ suoi martiri finchè, alla fine di questi tre secoli, Roma idolatra vede perire insieme e gli idoli e gli imperatori suoi con tutta la loro schiatta,S. E. Andrea Carlo Ferrari. mentre la Chiesa, sopravvivendo a tutti, vede un altro imperatore che spiega sul suo elmo e ne’ suoi stendardi it segno fino allora ignominioso di Cristo, la Croce, che sarà ormai lo stendardo del genere umano rigenerato.

Ecco gli avvenimenti che tutti i Cristiani del mondo si apparecchiano a solennizzare, ecco il significato delle feste costantiniane del prossimo anno. Nella Chiesa antica questi avvenimenti si solennizzavano certamente con grande pompa ed erano l’adempimento di quelle parole di Isaia alla novella Sionne, la Chiesa di Cristo: «Alza all’intorno gli occhi tuoi e mira!» tutti questi si sono adunati per venire a te:— Vivo io — dice il [p. 84 modifica]Signore — tutti questi saranno il manto di cui sarai rivestita, e te ne abbiglierai come sposa. I tuoi deserti e le tue solitudini e le terre coperte di tue rovine saranno anguste adesso alla folla de’ tuoi abitatori, e saranno scacciati lungi da te quelli che ti divoravano». Ma a poco a poco le date costantiniane si confusero nell’anno ecclesiastico colle solennità di Santi: e così andarono in oblio. Ma ora, nell’occasione della ricorrenza sedici volte secolare, è conveniente, anzi è giusto e doveroso che queste feste costantiniane sianoIl Duomo di Milano. celebrate con una solennità tutta particolare. È perciò che Sua Santità Pio X, affine di risvegliare la fede nel popolo cristiano coll’additarne i trionfi, aggradi entusiasticamente il gentile pensiero di queste feste centenarie, e nominò di sua iniziativa un ansiglio Superiore a cui affidarne il programma e la esecuzione. No, non è per un carattere di opposizione o di rivincita sui festeggiamenti patriottici del 1911, come sognarono alcuni liberali, che la S. Sede vuole queste feste. Il Beatissimo Padre ha sempre di mira gli alti interessi delle anime, e non una bassa vendetta politica: e per persuadersene basterebbe riflettere che non avrebbe avuto nessuna ragione d’essere per il semplice motivo, che la S. Sede non ha mai pensato di festeggiare la vittoria di Costantino su Massenzio del 312, ma sibbene l’editto di libertà del 313. Nè si può credere che le feste nella mente del Pontefice dovessero assumere un carattere spiccatamente temporalista e antiitaliano, perchè la lettera al Sig. Card. Cassetta parla chiaro: «Saranno una solenne manifestazione di fede e un caldo appello a quanti sono cattolici a stringersi viemmaggiormente a questo segno augusto in cui è per tutti salute, vita e speranza di una gloriosa risurrezione». Così Roma risponderà entusiasticamente all’appello del Pontefice. Ma con Roma gareggerà l’antica sua rivale del secolo IV: Milano, già sede ambita dell’impero, ove appunto Costantino emanò l’editto del 313. Solenni saranno i festeggiamenti: ma Milano ora non è più rivale di Roma. Ella ne è la figlia amorosa. È da Roma che giunge a Milano la parola d’ordine; e noi già vedemmo l’amato e zelante Pastore di quell’illustre Metropoli, nell’occasione del III centenario della canonizzazione di S. Carlo, correre prima riverente a prostrarsi ai piedi del Romano Pontefice ad at, tingere la forza e l’energia necessaria, per festeggiare quella data in modo meno indegno del Santo e della città che tanto lo onora. Tra breve, un altro simile spettacolo di fede e di amore vedremo rappresentarsi nell’Urbe dei sette colli, ed il Signor Card. Ferrari a capo di una numerosa falange di anime, milanesi per nascita ma romane per fede, nuovamente verrà pellegrinando ai piedi del Vicario di Cristo per implorare da Lui coraggio e benedizione. Questo pellegrinaggio sarà come il preludio dei solenni festeggiamenti di Milano, che come quelli di S. Carlo riesciranno splendidamente. Milano si mostrerà all’altezza della sua nobiltà, e asseconderà gli sforzi dell’infaticabile suo Pastore, onore e gloria della Santa Romana Chiesa.

Queste feste centenarie serviranno a cementare sempre più la sacra alleanza tra Roma e Milano, alleanza antica quanto il Cristianesimo, e che la strepitosa vittoria e l’editto di Costantino ratificarono e sancirono.

Sac. G. Polvara.


Per l’Asilo Convitto Luigi Vitali pei bambini ciechi



SOCI AZIONISTI.

Marchesa Litta-Modignani Cicogna |||
 L. 5 —
Contessa Teresa Cicogna |||
   » 5 —
Conte Dott. Mario Cicogna |||
   » 5 —
Donna Giuseppina Buttafava |||
   » 5 —
Signora Clementina Ciulini |||
   » 5 —
Signora Emilia Longhi |||
   » 5 —
Signora Gina Stucchi |||
   » 5 —
Signora Teresa Pigni |||
   » 5 —
Signorina Maria Pigni1 |||
   » 5 —
Contessa Vincenza Casati |||
   » 5 —
Signora Eugenia Radice Fossati |||
   » 5 —
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Segn de Primavera

Quand te sentet quell’arietta
Che l’è anmò on poo freschinetta,
che st’aria in d’on moment
La se cambia in d’on gran vent,
Ch’el te suga tutt i strbd
Cont on para de boffad;


Quand te sentet sulla peli
Tutt i pori, insti beli beli,
A derviss e a purisnatt,
Obbligandei a grattatt;
Quand tirand indent el fiaa
Te se sentet consolaa:


Quand in l’aria ghè on odor
Che l’è minga quell de fior;
on profumm che sfuma via
Come de... no savaria...
Ma ch’el ghè; ma ch’el se sent
Intaii o realment;


Quand te vee, liron, liran,
Tegnend foeura tutt do i man
Di saccocc del paletò,
Che a desmettel conven no;
Ma te tocca sbottonali
Perché el pesa sora i spali;


Quand te sentett della gent
A sfogass allegrament
In del rid o in del cantà,
Che se scalden a parlò,
Come pur in del gestì
Appoggiand sul dass del ti;


Quand te vedet la servetta
Cont su el palmo la capietta
Che le mett sora al poggioeu
Per dagh aria al rossignoeu
poca quand la va in cantina
La ghe da ona cantadina;


Quand, ligaa sul lavorà,
Te ven voeuja de scappà
Da quell’afa che tarnega
Dell’Offizi o de Bottega,
ch’el sangu el gha on calòr
Ch’el te rend de bon umór;


Quand te sentet per Milan
Come a cress pussee el baccan,
Perchè eress el moviment
Come on sintom de ferment;
Ché pu dubbi ch’el sia vera,
Vei... semm dent in Primavera.

Federico Bussi.


La marina italiana contro i turchi

nell’opera di P. Guglielmotti

(Continuazione, vedi n. 9)


Nei mari d’Oriente.


Conoscitore profondo di cose marinaresche e di scienze fisiche, egli volse i remi verso il mare fatidico d’Oriente: i lidi di Grecia, d’Africa, d’Egitto esplorò con singolare veggenza di passione, e Atene e Rodi, Gerusalemme e Costantinopoli, Malta e Siracusa, Tripoli e Tunisi, non porto, non città del Levante, non isola del mare latino che egli non visitasse, indagando, indugiando, interrogando uomini e cose: le cose, le cose — documenti, marmi, monete — affinchè gli offrissero i segni indelebili dell’indelebile gesta; gli uomini, affinchè col racconto delle tradizioni e delle memorie locali, e, più ancora, colla genuina documentazione del loro proprio linguaggio — parole, termini guerreschi, marinareschi — rivelassero al filologo geniale, le traccie parlanti della lotta undici volte secolare.

Lotta magnifica che andava svelata nell’anima e riallacciata vigorosamente al destino di Roma. Da quando Maometto raccogliendoli sotto una spada e sotto una fede assegnava ai Saraceni il compito di soggiogare l’Occidente cristiano fino alla vigilia di Navarrino, la lotta superba s’era adempiuta organica e sonoro come un inno. La Mezzaluna aveva attaccato con una forza spaventosa tutta la cristianità, battendo inesorabile contro tutti i contrafforti dell’Unione cristiana, Grecia e Ungheria, Italia e Spagna: e dietro, trepidante, spaurito ancora dalla catastrofe di due imperi, tutto l’Occidente.

E tutto l’Occidente si leva, tutto combatte ed in quattro secoli e mezzo schiaccia l’ardimento fiammante di tutto un popolo di guerrieri. Col 1087 — vittoria di Afrediso — riscossa di Zavilla, sottomissione di Timino — l’offensiva dei Saraceni è frantumata per sempre. Le navi di Pisa e Genova hanno combattuto eroicamente- fiancheggiando una coorte di galee romane in mezzo alla quale il Principe Pietro, comandante in capo, sventola un vessillo crociato. Egli è il capitano del Pontefice, le galee che lo circondano sono romane, il vessillo è il vessillo benedetto di San Pietro. Ed è anche esso la chiave di volta di tutta la storia di una civiltà.

Il Principe Pietro porta, come singolari trofei di guerra, una moltitudine di schiavi liberati: i duci di Roma imperiale avevano trionfato portando cento e cento prigionieri; i duci di Roma cattolica vanno orgogliosi di uomini liberi. È la rivoluzione cristiana che ha adempiuto il prodigio.

E dopo il trionfo di Pietro, tutta un’epopea, le Crociate: s’aprono col trionfo di un eroe leggendario, Pier l’Eremita, e si chiudono coll’olocausto di un eroe di verità: San Luigi re. Coll’ultima Crociata i Saraceni scompaiono dalla scena della storia nostra. Tolemaide è perduta, l’occidente cristiano non libera il Sepolcro divino ma finanche il nome dei Saraceni scompare: la loro vittoria e distrazione. I soldati crociati sconfitti a [p. 86 modifica]Tolemaide si ritirano verso la patria raccogliendo quanti più possono, profughi, e schiavi redenti. Trenta galee procedono, a forza di remo, verso Roma, e per Roma, verso tutta l’Europa combattente: sono le galee pontificie. Un’insegna le guida che non significa orgoglio di città nè governo di paese: la croce; un’idea le conduce lungo le acque tragiche: l’idea della civiltà fatta compiuta nel vangelo cristiano. E a servizio dell’idea un nucleo forte e vigile di energie guerresche: la marina pontificia.

Di questo nucleo inscindibile capace di tutti gli ardimenti, il P. Guglielmotti vuole essere lo storico, il poeta, il mago; egli vuole riporre nella sua piena luce vittoriosa il secolare drappello dei marinai romani, ai quali il fulgore della causa divina che essi difendevano fu, agli uomini e alle storie, occasione più di oblio che di esaltamento. Sì: una grande idea pulsava nel cuore di Roma cristiana; di un magnifico messaggio di conquista e di libertà si faceva banditore, ininterrottamente, il puntefice, a tutti i popoli confessori di Cristo, spesso i popoli rispondevano, talvolta rispondevano i potenti della terra, le repubbliche del mare: le crociate avevano raccolto in effimere e pure efficaci concordie di guerra, Genova e Venezia, Francia e Borgogna, Pisa Spagna: ma pure sotto l’orifiamma cristiano s’alimentavano i desideri di mammona; e regni e repubbliche sognavano — in nome della croce — il dominio dei traffici e il trionfo dei commerci.


Le navi cristiane.

Che cosa sognava l’armata di Roma?

Perchè il messaggio del Pontefice si faceva vivo e squillante nell’esempio magnanimo: da Roma non partivano solo appelli alle Crociate e lettere ammonitrici, partivano anche, e sopratutto, le nostre galee gloriose, la flotta pontificia, o feudale o municipale, o venturiera o nazionale o principesca, batteva, sempre, la via del mare, signora e serva insieme di chiunque avesse voluto combattere la buona battaglia.

E quando i mercanti di Venezia o i conquistatori di Francia restavano sordi all’appello rinnovato del Papa, allora da Civitavecchia, le galee pontificie partivano sole, umili e superbe; partirono sole nell’800 come parti solo Pio li nel 1400, come partirono Ludo visi e Zambeccari al soccorso di Candia. Sì che quando i Saraceni tentarono la tremenda rivincita fu solo contro Civitavecchia, il porto papale, che versarono la loro iracondia vendicatrice.

Civitavecchia, la città forte, che Guglielmotti riguardava con grande orgoglio di figlio e che egli amorosamente sussegue nella sua storia di libertà, dagli ultimi giorni della flotta gloriosa, fin ai primi quando nel 928 essa si sottraeva al dominio bizantino affidandosi lealmente al governo del Papa — cui servire libertas — per divenire, di Roma pontificia e dell’Europa cristiana, il contrafforte italico più robusto.

Da Civitavecchia muovevano le galee pontificie: quando, soggiogati i Saraceni, i Turchi, barbari, ripresero lo stendardo di Maometto, da Civitavecchia mosse, a comandare gli alleati di Giovanni XXIII, Stefano Colonna, a combattere in fronte all’armata maomettana che Marcantonio 236 anni dopo, doveva sgominare a Lepanto. E immediatamente prima di Lepanto, sessant’anni di guerra quotidiana contro i corsari turchi, la marina pontificia aveva sostenuto, guidata da capitani illustri — Da Biassa, Vettori, Doria, Salviati, Orsini, Sforza — mentre la munificenza saggia dei pontefici chiamava a Roma i maestri nuovi dell’arte della fortificazione, a consacrare e a sviluppare nel granito e nel bronzo i principi della fortificazione bastionata: Teccola, Guazzalotti, Sangallo, Bramante, Michelangelo cingevano Roma e il suo mare di baluardi magnifici, dal Pentagono di Astura, alla Rocca d’Ostia, al forte di Nettuno, alla piazza forte di Civitavecchia.

E Lepanto episodio, non epilogo: il volume destinato ad illustrare Marcantonio Colonna sebbene primo nell’ordine della pubblicazione, pure, nell’edizione definitiva della Storia appare il sesto fra i nove volumi.

P. Guglielmotti, rievocando il trionfo s’era fatto amico e quasi fratello d’armi coli’ ammiraglio romano la cui opera egli illuminava di nuova compiuta luce.

E conchiudendo il volume mirabile, egli, con la classica robustezza della sua parola di storico e di poeta, depone la penna come un cavaliere avrebbe, dopo l’evento, deposto la spada, come i padri suoi dovettero deporre, dopo la fatica vittoriosa, il docilissimo remo.

«Io però, tra le mura del chiostro e sulle carte dell’età trascorse dolorosamente ripensando all’ingratitudine degli uomini, che fa più grande e mesta la mia solitudine, non ho cessato fatica per rinverdire nella memoria e nella estimazione dei posteri la fama dell’altissimo campione. L’ho seguito nei suoi viaggi, ho narrate le sue gesta, l’ho accompagnato alla tomba. Qui mi fermo, qui oro, qui poso alquanto la penna a ritemprare l’animo stanco del passato e fiducioso nell’avvenire»

(Continua).

  1. I bambini al di sotto dei 12 anni possono esser soci dell’Asilo Infantile dei Ciechi pagando L. 2 per un triennio.