Il buon cuore - Anno IX, n. 31 - 30 luglio 1910/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

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Un monumento al Padre L. M. VILLORESI


DALLA Rassegna Nazionale


Il tempo, per edace che sia, non riesce a cancellare i ricordi dei veri benefattori, tanto è vero che, attraverso alle alterne vicende, attraverso ai contrasti, succedono i momenti di tregua, di riposo, di riflessione, e, appunto per effetto del tempo, sorgono i migliori propositi di giustizia, di rivendicazione, di glorificazione, e si rende plausibile e possibile oggi ciò che venti anni prima avrebbe suscitato vivaci opposizioni.

Così è del venerato Padre Luigi Maria Villoresi, del santo sacerdote, il quale, combattuto in tempi remoti per le sue opere e i suoi insegnamenti ispirati al grande Rosmini, ora si ripresenta circondato di ammirazione e di simpatia.

Ciò è significante e anche consolante.

Sono trascorsi ventisette anni dalla morte del venerato Istitutore, ma la memoria delle sue virtù e delle sue opere è sempre viva, ed ora si va concretando un progetto da gran tempo vagheggiato dai suoi ammiratori, cioè un monumento in Monza che ricordi le di lui amate sembianze e sia omaggio ed esempio, nonchè prova della gratitudine dei beneficati al grande e modesto Benefattore.

Il Padre Luigi Maria Villoresi nacque il 23 dicembre del 1814 nel Regio Palazzo di Monza e studiò lettere e scienze nei seminari diocesani. Fu ordinato sacerdote nel 1838 ed entrò novizio nel Collegio dei Barnabiti al Carrobiolo in Monza. Insegnò filosofia per circa quarant’anni e fu anche Rettore nel Collegio a S. Maria degli Angeli.

Nel 1845 fondò l’Oratorio festivo pei fanciulli poveri, unendolo nel 1850 a quello istituito dal P. Redolfi pei giovanetti di civile condizione e rimanendone poi sempre zelante direttore. Fu pure eletto Maestro dei Novizi e tre volte Proposto Provinciale. Nel 1862 il Padre Villoresi ebbe la sua più grande ispirazione e fondò l’Istituto dei Chierici poveri e lo rese capace di duecento allievi, riuscendo, nel volgere di un ventennio, a dare alla Chiesa duecentoquaranta sacerdoti distinti negli studi e animati tanto dal suo spirito eletto, da portare manifestazioni di caratteristiche speciali, assai efficaci nell’esercizio del ministero sacerdotale in tempi difficili.

Amato e incoraggiato dai sommi Pontefici Pio IX e Leone XIII, il Padre Villoresi, segnalato come un Filippo Neri, fu specialmente il buon apostolo della gioventù monzese.

Sapiente e pio direttore di anime, oratore sacro di vera eloquenza, dottissimo in filosofia e in teologia, fu grande ammiratore di Antonio Rosmini e come lui fu pazientissimo in ogni avversità, giungendo al punto di difendere e amare i suoi nemici. È da notarsi che il [p. 243 modifica] Padre Villoresi fu ospite del Rosmini per circa sei mesi a Rovereto.

La sua predilezione fu sempre per i poveri, e in ogni intrapresa, in ogni congiuntura, attraverso a grandi difficoltà, a indicibili amarezze e a contrasti impreveduti, non curò i falsi giudizi degli uomini e confidò soltanto in Dio.

Egli morì in Fabbrica Durini (Brianza) il 17 giugno 1883 colla benedizione del S. Padre e dell’arcivescovo di Milano.

Rimpianto da tutti, fu dagli intimi segnalato qual santo. Ai suoi funerali intervennero più di quattrocento sacerdoti, e quelli che erano più competenti a giudicarlo, dissero che il Padre Villoresi fu uno di quelli uomini grandi che Dio suscita in ogni secolo sulla terra a vantaggio della Chiesa e della società.

Ora, trattandosi di erigergli un ricordo monumentale, ci piace riportar qui l’espressione del sentimento di un distinto sacerdote che del venerato Maestro fu degno allievo.

«Tu mi chiedi notizie intorno al Padre Villoresi.... Un’anima grande e santa, formata sullo stampo del Rosmini. Se sapessi e dovessi scrivere degnamente delle sue virtù, sarei costretto a metterti lì un grosso volume. La sua imagine e la sua vita sono sempre vivissime nell’anima mia. Egli fu proprio uno di quegli uomini che la Provvidenza manda a volte sulla terra per ravvivare la fede nelle anime e richiamarle efficacemente dalle false imagini di bene al Bene Eterno. E’ consiglio profondo della stessa Provvidenza che tali uomini abbiano il battesimo della persecuzione, e, di solito, proprio da coloro dai quali meno si aspetterebbe. E il Padre Villoresi si ebbe quel battesimo, e fu, si può dire, battesimo di sangue. Ma è da soggiungere che, appunto per questo, non solo Egli fu un santo, ma altresì un promotore efficacissimo di un bene immenso nella diocesi milanese e più particolarmente nella sua nativa Monza. Tuttavia, neppure quando più fiera si scatenava la tempesta, a noi chierici, che lo vedevamo di continuo, fu mai dato di sorprenderlo menomamente alterato nella sua abituale serenità e dolcezza. Egli possedeva il segreto dei santi: dissimulare colla carità le pene più atroci e sfogarsene solo con Dio. Ad un sacerdote che voleva fare del Maestro una pubblica difesa, disse: «Preferisco fidarmi di Dio e abbandonare a Lui la mia difesa, perchè sento che in silentio et in spe erit fortitudo nostra».

Era così un incomparabile esempio di carattere forte e dolce ad un tempo. Con una dottrina filosofica di suggestiva chiarezza, attinta direttamente alle limpide fonti del grande Rosmini, quel Maestro presentava ai discepoli una vita tutta informata al più eroico amore della verità nella carità, sicchè nella mente e nel cuore dei chierici doveva rimanere come un ideale che li avvicinava al Maestro divino. E i discepoli, divenuti sacerdoti e sparsi in gran numero nella vasta diocesi milanese, serbano perenne in cuore la cara e dolce imagine paterna da cui presero lo spirito della santa vocazione, e ritornando a Lui col pensiero, rivivono i giorni più belli e sereni della loro vita.

Dobbiamo anche citare una testimonianza resa dal rimpianto arcivescovo Calabiana al Villoresi nell’incoraggiare un sacerdote nella sua vocazione: «Io ringrazio ogni giorno la Provvidenza di avermi dato un Padre Villoresi, e qualunque vescovo al mio posto non potrebbe a meno di apprezzare altamente un tale beneficio».

Il Comitato promotore del ricordo monumentale, recentemente ricostituito per colmare dei vuoti causati da perdite dolorose, e confortato dall’approvazione di S. Em. il cardinale arcivescovo Andrea Carlo Ferrari, è così composto:

Rossi mons. Paolo, arciprete di Monza — Annoni Aldo — proposto Anselmi Ottavio — Antonietti Carlo — Belgeri mons. Ambrogio — Biffi sac. prof. Adolfo — Bosisio sac. Pietro — Bozzi Enrico — Casanova mons. cav. Luigi — Cazzaniga sac. prof. cav. Cesare — proposto Colnaghi Carlo — padre Crippa Antonio — Gerosa cav. Alessandro — De Giorgi mons. professore Alessandro — Mattavelli padre Giovanni — proposto Mezzera Romildo — Orsenigo sac. Cesare — proposto Orsenigo Giuseppe — Pennati rag. Alessandro — Pini nob. rag. Carlo — Rusconi sac. professore Pietro — proposto Pietro Sommariva — Strazza sac. Gaetano — Tagliabue Giuseppe — Talamoni sacerdote prof. Luigi — Villa Gerardo — Villoresi ingegnere Giuseppe — Vitali mons. comm. Luigi.

Per l’esecuzione del progetto, venne prescelto il bozzetto presentato dal valente quanto modesto scultore prof. cav. Francesco Confalonieri, degno allievo del Vela e autore dei due monumenti a Pio IX, del monumento eretto in Lecco al Manzoni e delle statue innalzate in Milano al Rosmini e allo Stoppani.

A seconda del risultato della sottoscrizione tuttavia aperta nella speranza di un nuovo slancio degli ammiratori del Villoresi, il Comitato si riserva di fare qualche aggiunta al progetto del Confalonieri, come un bassorilievo che raffiguri col personaggio principale tra i suoi allievi, anche il defunto fratello don Giosuè e il rimpianto cooperatore don Antonio De Ponti.

Così, nel giardino esterno del Collegio di S. Giuseppe in Monza, rivivrà nel bronzo la figura alta e maestosa del grande Educatore che, colla sua presenza, col suo sguardo, colla sua parola, col suo esempio, esercitò un fascino irresistibile, un’autorità superiore, una forza sovrana d’amore.

Angelo Maria Cornelio.


La sottoscrizione.

L’accenno alla sottoscrizione tuttavia aperta, ci ha fruttato alcune offerte che qui pubblichiamo.

N. N., in memoria del venerato Proposto Catena |||
 L. 15 ―
Cav. ing. Luigi Silva |||
   » 5 ―
Luisa Silva Candiani |||
   » 5 ―
Caterina Candiani Biffi |||
   » 5 ―
Rag. Ronchetti |||
   » 5 ―
Giuseppina Ronchetti Silva |||
   » 5 ―


La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.



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Le memorie del conte Ulisse Salis1


In un’elegante e nitida edizione dedicata alla Famiglia e agli Amici, Donna Rita Salis Sertoli, con devoto e riverente affetto figliale ha pubblicato le memorie di suo padre, conte Ulisse Salis, perchè — sono parole di Lei — facciano fede del fiero e generoso carattere di chi le ha scritte e del forte animo e dell’angelica bontà della Madre.

E noi le dobbiamo essere veramente grati, perchè queste memorie oltre ricordarci un uomo che tutti rammentiamo con compianto, aggiungono nuove e interessanti notizie su un’epoca, che pur essendo ancora vicina a noi, sembra tanto lontana per tutti i martiri che ci ha dato.

Il conte Ulisse Salis era di antica famiglia valtellinese, di Tirano, ed aveva incominciato presto a combattere segretamente l’Austria specialmente diffondendo gli opuscoli della Giovane Italia che ritirava dalla Svizzera.

Era a Milano quando scoppiò la rivoluzione del marzo 1848 e prese parte attiva ai combattimenti delle «cinque giornate» rimanendo anche leggermente ferito a una mano. Fu poi incaricato sui primi di aprile dello stesso anno dal generale Lecchi di organizzare allo Stelvio la difesa di quel passo. E di là passò poi al Tonale difendendo il passo di Montosso.

E’ notevole un episodio che egli ci narra e che dimostra come in quell’epoca tutti cooperavano ad un unico fine, che reputavano il bene comune — la redenzione della patria. — Quando volsero tristi le sorti dell’armata piemontese, ed essi dovettero abbandonare quei luoghi che avevano occupato e difeso con tanto accanimento, si rifugiarono in Svizzera, ma non vollero abbandonare le loro armi, vollero anzi conservarle per averle pronte nel dì della riscossa. Furono quindi incassate e le monache del Convento di Poschiavo volonterosamente si prestarono a custodirle in gran segreto e le riconsegnarono poi ai volontari Valtellinesi nel 1859.

Il Salis esiliò in Piemonte, poi in Toscana e ritornò infine a Tirano fidando in un’amnistia concessa dall’Austria. Negli anni di poi fu in rapporti continui con Mazzini e coi suoi emissari avendo riposto in lui, come quasi tutti allora, ogni speranza. Non sempre però eseguì i disegni del Grande Patriotta, anzi alcuni, specialmente quelli che dovevano avere luogo in Valtellina, ostacolò quando li credette inopportuni e inefficaci, come purtroppo anche i fatti più volte lo dimostrarono.

Nel 1853 abbiamo appunto un disgraziato tentativo, ideato dal Mazzini, nel quale l’Austria riuscì ad arrestare il Calvi e altri che dovevano recarsi nel Cadore e nelle provincie Venete per promuovere un movimento insurrezionale.

Al Calvi fu sequestrata una nota nella quale il Mazzini dava il nome di coloro che avrebbero concesso aiuto e appoggio, fra queste persone eravi anche il nome del Salis. Fu perciò arrestato e tradotto a Sondrio e di là a Milano, e, dopo un interrogatorio sommario, a Mantova ove fu consegnato al Casati nel castello di S. Giorgio il 4 ottobre 1853. Qui comincia la storia di una serie lunga di sevizie e di dolori, di angherie per opera specialmente del Krauss.

Ma il Salis resiste e resiste a qualunque costo, anche quando gli pare che gli vengano meno le forze al punto da rendere avvertiti gli amici con poche frasi espressive dette di sfuggita alla moglie — donna ammirevole e forte — che aveva avuto il permesso di visitarlo qualche volta in carcere.

La descrizione dei mezzi usati per ottenere invano da lui confessioni e rivelazioni, le blandizie, le minaccie e gli stratagemma posti in opera per farlo parlare, fanno fremere di indignazione e di raccapriccio.

Ma egli più che di sè ama parlare degli eroismi altrui e ricorda il Calvi e i compagni del Calvi, il Marin, il Moratti e il Gervaso Stoppani di Bormio e altri che resistettero a ogni bassezza.

Pur troppo però non tutti furono eroi e il Salis dovette alla denuncia di un suo compatriotta se fu condannato a sette anni di lavori forzati ai ferri. Le memorie riportano integralmente anche il prezioso documento che Alessandro Luzio afferma essere l’unico del genere che si conosca, e cioè il constituto assunto dal famigerato auditore Krauss in seguito alla confessione del delatore del Salis.

Dopo la condanna fu vestito da galeotto e gli chiodarono le balze ai piedi e fu messo, con altri patriotti, insieme agli assassini comuni di cui rigurgitava l’ergastolo. Di là passò poi nella fortezza di Kufstein e finalmente nel 1857 in seguito ad una amnistia potè ritornare a Tirano, ove il 1859 lo trovava ancora intento a combattere l’esecrato Governo Austriaco e questa volta con miglior fortuna.

Non mi è stato possibile qui, per evidenti ragioni di spazio, che di riassumere molto sommariamente le vicende tristi e gloriose di questo modesto, ma forte martire della nostra Redenzione, ma i fatti soli che ho esposto sono una prova sufficiente del diritto che il conte Ulisse Salis ha di essere annoverato, e in prima linea, fra i nostri più insigni patriotti.

Avv. P. G. Paribelli.

La Messa di S. Gregorio2

Un soggetto molto popolare, carissimo alla pietà e all’arte dell’Europa cattolica, dal secolo XV al XVII, è quello che comunemente vien chiamato La Messa di S. Gregorio; e fu riprodotto in pitture murali, in tele, in miniature, in stampe in tante riprese, da sfuggire al calcolo anche approssimativo. In generale rappresenta [p. 245 modifica] un altare al quale si sta dicendo messa da un celebrante in pianeta e cinto il capo da una tiara molto pronunciata, ora in piedi, ora in ginocchio, tanto davanti alla mensa come al fianco. La parte centrale della scena è occupata dalla figura mesta e dolorante del Salvatore, apparso sull’altare circondato da tutti i simboli della Passione. Ma nei particolari, da una riproduzione ad un’altra di questo motivo fondamentale, c’è una variazione infinita, a seconda delle bizzarrie, della fantasia e anche della pietà di artisti e committenti.

Una così esuberante fioritura d’un soggetto per sè non di prima importanza nella storia del dogma e dell’arte, potrà benissimo provocare la domanda: d’onde originò e il nome e la cosa. L’interesse del problema è tanto più grande in quanto che le Vite più note di S. Gregorio sono assolutamente mute su questo punto. Non c’è storico documento che accenni all’apparizione di nostro Signore passionato a S. Gregorio durante la Messa; nulla che anche da lontano valga a insinuare una tale idea. Il solo miracolo eucaristico ricordato nelle Vite di questo Papa è d’un carattere curiosamente definito e conservò la sua fisionomia sino alla fine del medio evo. E tale qual è, occorre narrarlo secondo la versione del monaco di Whitby nel Northumberland:

È storia corrente dei nostri padri che una volta a Roma una matrona, facendo l’offerta (alla Messa), la consegnò a lui (S. Gregorio), e il sant’uomo la prese la transustanziò nell’Ostia del sacratissimo Corpo di Cristo. E quando la donna salì per riceverlo nella Comunione dalle mani dell’uomo di Dio e lo sentì dire — Che il Corpo di nostro Signor Gesù Cristo custodisca la tua anima — essa rise di nascosto. Del qual atto accortosi l’uomo di Dio, le chiuse la sua mano in faccia, rifiutandosi di darle il sacro Corpo del Signore, cui pose sulla mensa e coprì con una tovaglia dell’altare come meglio credette conveniente. A Messa finita fece chiamare la donna e le domandò perchè avesse riso al momento di comunicarsi. Lei rispose dicendo: Io colle mie mani ho fatto quel pane, e voi diceste che esso era il Corpo del Signore. Allora sull’istante invitò il popolo di Dio a pregare insieme con lui in Chiesa, affinche Cristo, Figlio di Dio vivo si degnasse mostrare se il suo santo Sacrifizio (cioè l’Ostia) come pronunciò, era veramente il suo Corpo, allo scopo di fortificare la mancante fede di lei che fu incredula su questo sacramento. La quale preghiera debitamente fatta, il sant’uomo trovò sulla mensa ciò che vi aveva collocato come una porzione di carne in forma di un piccolo dito sanguinante. A questa vista maravigliosa egli chiamò la donna incredula e questa contemplandolo ne fu grandemente stupefatta. Cui il sant’uomo disse: Osserva ora cogli occhi del tuo corpo ciò che fin adesso nella tua cecità non hai potuto vedere coi sensi celesti e impara a credere a Lui che disse, se non mangerete della carne del Figliuol dell’uomo e non berrete il suo Sangue, non avrete la vita in voi; ed inoltre egli esortò i presenti nella chiesa di pregare perchè Colui che aveva accondisceso di mostrar loro la sua Bontà come ne lo avevano richiesto, si degnasse ancora tramutare il suo Corpo nella sua propria natura, inquantochè essi avevano osato far pressione soltanto per ragione dell’incredulità di una donna senza fede. E come essi fecero secondo aveva loro ordinato, la fece comunicare, mettendo ora tutta la sua fede in Lui dal quale era stato detto — colui che mangia il mio Corpo e beve il mio Sangue, dimora in me ed io in lui».

Come si vede, in tutto questo racconto non c’è nulla, proprio nulla che appoggi l’apparizione del Salvatore, circondato dagli emblemi della Passione, a S. Gregorio mentre celebrava Messa; ed è giusto che i critici abbiano trovato impossibile connettere la Messa di S. Gregorio colla leggenda della matrona romana. Che dietro la leggenda si debba vedere qualche fatto storico che non lasciò di sè nessuna traccia nella letteratura? Dom Alston per esempio dice:

«Interesserebbe non poco sapere come originò la apparizione di nostro Signore a S. Gregorio. Le antiche vite del Santo non la ricordano; i suoi scritti non forniscono indizii di sorta su quel fatto, e le più antiche pitture od altre rappresentazioni che oggidì conserviamo, non ci portano indietro oltre il decimoquinto o decimoquarto secolo. Tuttavia queste rappresentazioni, siano esse in manoscritti, libri stampati o freschi, tradiscono tante particolarità comuni a tutte per precisare la natura della visione, da essere costretti ad ammettere che almeno hanno qualche apparenza di autenticità... Il fatto che ogni esemplare conosciuto della Messa di S. Gregorio mostra elementi di composizione praticamente identici, sembra indicare che la tradizione fu accuratamente formata, e non è mera invenzione d’un’età più lontana».

Monsignor Barbier di Montault è anche più positivo; e non solo crede che questa rappresentazione insinua l’esistenza d’un fatto storico, ma vi dice di scienza sicura esattamente anche il luogo dove accade la visione la causa determinante. Quanto al tempo, era avanti la dedicazione della piccola Chiesa di S. Gregorio chiamata a ponte quattro capi, costruita sull’area della antica dimora della famiglia di S. Gregorio. E la località era sul monte Celio; in base ad un’iscrizione che, ahimè! data dal secolo XV in cui la Messa di S. Gregorio era già un soggetto tanto famigliare agli artisti, e molti altari di Roma reclamavano per sè l’onore dell’apparizione di Cristo Uomo dei dolori. Curiosa poi una citazione dal libro Horae di Poitiers e stampato nel 1491:

«Noi troviamo scritto che il nostro benedetto Salvatore Gesù Cristo apparve una volta al signor mio S. Gregorio, mentre era rapito in contemplazione alle secrete della Messa. Che considerando come tutta l’efficacia della remissione dei peccati procedeva dai meriti della Passione, concesse quattordicimila anni di indulgenza a quanti veramente pentiti e confessati, inginocchiati per terra innanzi alla rappresentazione della sua benedetta Passione, divotamente reciteranno sette Pater ed Ave, colle preghiere annesse. E in seguito, altri Papi concedettero in aggiunta, come si trova scritto, altre indulgenze fino ad aumentare a quarantamila anni».

A questa potremmo far seguire altra citazione da un libro di Horae del 1522:

«Vengono poi le sette orazioni di mons. S. Gregorio, [p. 246 modifica] il quale ha concesso a quanti che veramente pentiti e confessati le reciteranno divotamente, mille anni di indulgenza, e molti altri Papi vi fecero tante aggiunte da ammontare a quarantasei mila anni d’indulgenza all’incirca».

Diamo un saggio delle sette orazioni indulgenziate, riportandone la prima e l’ultima: O Domine Jesu Xpiste, adoro te in cruce pendentem et coronam spineam in capite portantem: te deprecor ut tua crux liberet me ab angelo percutiente. Pater noster, Ave Maria.

O Domine Jesu Xpiste, te deprecor propter illam amaritudinem quam pro me miserrimo sustinuisti in cruce, maxime quando nobilissima anima tua egressa est de corpore tuo; miserere anime mee in egressu suo. Pater, Ave.

Ora, tanti sforzi e tante bone intenzioni di dare alla Messa di S. Gregorio una base storica, e proprio quella di cui sopra, purtroppo non riescono nell’intento. Anzitutto le suddette citazioni non hanno il minimo riscontro in nessuna Vita antica di S. Gregorio o in scritti contemporanei. Quanto alla località dell’apparizione di Cristo paziente a S. Gregorio mentre celebrava, lo si è già detto, sarebbe stata il Monastero di S. Andrea sul monte Celio, perchè sotto una Messa di S. Gregorio sita in alto dell’altare di quella Cappella v’era l’iscrizione

gregorio i. p. m. celebranti jesus

christus. patiens. heic. visus. est.

Ma viceversa l’iscrizione non prova nulla in propoposito, datando essa da un tempo (secolo XV) in cui la Messa di S. Gregorio era già tanto famigliare agli artisti, e perchè molti altri altari di Roma reclamano per sè l'istesso onore.

E la critica procede a respingere anche il fatto della apparizione stessa. Prima perchè l’immagine di Gesù sofferente per sè è molto più antica della composizione nota come la Messa di S. Gregorio. Il Venturi nella sua Storia dell’arte italiana, e antiche stampe e miniature del British Museum anteriori al 1420 portano immagini di Gesù sofferente in cui il Salvatore è rappresentato col corpo tutto piagato e col Sangue che dal costato sgorga in un calice tenuto non già da S. Gregorio magno ma dal giovane re inglese Erico V; e in questo tempo è quasi impossibile che la Messa di S. Gregorio fosse nota in Inghilterra.

Poi ci sarebbe l’ostacolo delle preghiere indulgenziate: La forma in cui è espressa la concessione dellle indulgenze annesse alle cosidette sette preghiere di S. Gregorio non è mai dato trovarla in autorità contemporanee al Santo ma parecchi secoli dopo; le indulgenze sono indifferentemente attaccate tanto alle semplici immagini di Gesù sofferente come alla Messa di S. Gregorio; il che mostrando avere un rapporto, non col Papa, ma colla compassionevole vista del Salvatore, contribuisce ad escludere il fondamento storico della Messa di S. Gregorio. Poi anche è inammissibile da parte di chi dovrebbe essere servo prudente e bon amministratore dei beni di Cristo, tanta prodigalità e sperpero di tesori della Chiesa, quale è la concessione di quarantaseimila anni circa di indulgenza per la recita di sette brevi preghiere, quando si pensi che quasi c’è da incomodarsi di più per lucrare quaranta miserabili giorni d’indulgenza ai nostri giorni. C’è pertanto tutta la ragione di credere apocrife dette indulgenze, e che sventuratamente si sia continuato a ristampare così e l’immagine e la dicitura.

Poi a farci respingere l’antichità della Messa di S. Gregorio e a fissarla in tempo molto posteriore, e solo con intendimento di pietà e di culto, c’è che nella rappresentazione si introduce progressivamente tutta la suppellettile sacra, propria della Messa, volendosi esprimere con ciò un nuovo concetto della presenza eucaristica del Salvatore insinuato dall’extra-liturgico culto del SS. Sacramento che allora si svegliava alla vita.

Resta sempre da spiegare come all’immagine complessa di cui abbiamo parlato fin qui si diede il titolo di Messa di S. Gregorio. Ora da manoscritti Vaticani del 1375 editi nella edizione critica del Mirabilia Romae ci sarebbero questi dati: In sancta Prisca est corpus eius; item corpus Aquile et Pisce (sic) de quibus scripsit Apostolus. In altare quod consecravit Gregorius Papa cui in eodem missam celebranti apparvit imago crucifixi, ob cuius memcriam Papa Urbanus officium Nos autem decrevit; et super idem altare est pictura sancte (sic) Luce de manu propria.

Ebbene, da ciò sembrerebbe che si possa essere sulle traccie della storica tradizione concernente la Messa del Papa Gregorio. Risulta infatti dalla detta citazione che un Papa Urbano istituì una Messa il cui Introito è presumibilmente Nos autem gloriari oportet in cruce Domini nostri Jesu Christi. È un fatto curioso che un cosiffatto Ufficio della Santa Croce fu verisimilmente introdotto da Papa Gregorio XI, nel 1377 (V. Baronio ad annum) e, sapendo noi che il successore di quel Papa fu Urbano VI, ciò insinuerebbe, almeno come remota possibilità, che il Gregorio al quale in origine fu attribuita la manifestazione del Cristo sofferente, possa essere un altro e molto più moderno Gregorio, e che il Papa Gregorio magno fu solo introdotto in forza di quella legge dell’habenti debitur che presiede a tutta l’agiologia popolare. Nulla può meglio essere stabilito che il fatto che i leggendarii eroi invariabilmente attrassero a sè fatti altrui, specialmente quando una identità di nomi e di ufficio intervenga a facilitarne il processo.

Tuttavia non saremo noi che esigeremo si giuri sulla nostra parola. Potrebbe darsi il caso d’una ben diversa soluzione del problema, che saremmo felici di conoscere e di adottare quando sia più soddisfacente della nostra. Intanto siamo ben lieti di avere messa innanzi questa qualunque spiegazione: è già molto aver fatto dei passi per dilucidare oscurità liturgiche e storiche come quelle della «Messa di S. Gregorio», e di aver fatto di tutto per eccitare, provocare gli studiosi a rivedere, a trovare di meglio, se c’è.



Il libro più bello, più completo, più divertente che possiate regalare è l’Enciclopedia dei Ragazzi.



Note

  1. Milano — Scuola Figli Provvidenza, 1910 — Vendibile anche presso la Casa editrice L. F. Cogliati, Corso P. Romana, n. 17.
  2. V. nel The Month del settembre 1908 il dotto articolo del P. Herbert Thurston, che qui, alla meglio, riassumiamo, non potendo renderlo integralmente in veste italiana per la soverchia lunghezza.