Il buon cuore - Anno IX, n. 04 - 22 gennaio 1910/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 04 - 22 gennaio 1910 Beneficenza

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LA CELEBRITÀ DI GIUDITTA PASTA


(Lettera aperta al critico musicale della “Perseveranza„)


Milano, 14 gennaio 1910.


Egregio Amico,

Mi permetto fare un appunto all’articolo pubblicato nella Perseveranza di ieri sulla rappresentazione della Sonnambula, per una frase sfuggita al critico riflessivo: «Bellini scrisse la Sonnambula — se non erro — per la Pasta e Rubini: due artisti sommi, almeno se dobbiamo prestare fede, e non c’è ragione di dubitarne, alla cronaca ed alla critica di quei tempi».

Perchè questa forma così dubitativa? La mia domanda si riferisce specialmente alla Pasta, la cui celebrità si è mantenuta viva attraverso quasi un secolo. Perchè noi italiani ci mostriamo tanto guardinghi nel parlare delle nostre glorie passate, anche quando possiamo illustrarle con documenti inoppugnabili?

Prendiamo la Vita di Bellini dell’Amore e vi troviamo che la Norma — andata in scena nel 1833 a Venezia, non fu sostenuta, come scrisse il Bellini medesimo, che dalla Pasta, àncora sicura in ogni naufragio.

Prendiamo Les Annales del 1908: «Ce rôle de Sémiramide fut également, au Théâtre Italien, le triomphe de cette Giuditta Pasta, qui fut peut-être la plus populaire de cantatrices italiennes chez nous, à cette époque. N’inspira-t-elle pas sa Niobé à Pacini, à Bellini la Somnambule?Et Talma, un jour, après l’avoir entendue lui déclarait, avec des larmes dans les yeux: — Madame, vous réalisez l’idéal que j’ai rêvé; vous possedez les secrets que je n’ai cessé de chercher avec ardeur, depuis que la carriere théâtrale s’est ouverte devant moi, depuis que je considère la faculté d’émouvoir le coeur comme le but suprême de l’art».

Sono trascorsi molti anni dall’epoca dei trionfi della nostra Pasta; ma vive ancora qualcuno che la vide e la udì circonfusa di gloria, e ricorda quell’epoca di entusiasmi impossibili all’epoca nostra.

Pur troppo le esecuzioni degli artisti di scena non si possono nè dipingere, nè fotografare; ma degli artisti veramente grandi rimangono le memorie che dobbiamo tener vive.

Le pare? Saluti cordiali.

Aff.mo A. M. Cornelio

La Redazione del Buon Cuore ben volontieri si associa all’omaggio dovuto alla celebre e virtuosa Giuditta Pasta, basandosi non semplicemente sulla cronaca di quei tempi, bensì su documenti luminosi e irrefutabili. Facciamo tesoro innanzi tutto d’una interessantissima relazione, colla quale, associando i nomi e le memorie di Alessandro Volta e di Giuditta Pasta, una penna distinta (C. d’A.), or sono dieci anni, informava i lettori della Lega Lombarda dei preziosi cimelî che si conservano nel Museo Civico di Como.


Alessandro Volta e Giuditta Pasta.

(C. d’A.) Il riavvicinamento è alquanto strano, per lo meno, nè che io sappia, si trova in nessuna delle biografie dell’uno o dell’altra e tanto meno passerebbe per la testa di quei signori elettricisti che in Como si son dati convegno in questi giorni per fare onore al sommo fisico.

Eppure il riavvicinamento sta.

Per una di quelle bizzarre combinazioni di cui il caso — non giungo a mescolare la Provvidenza a queste inezie — si compiace, in uno stesso palazzo, di una delle città di questo mondo, un riavvicinamento fisico del grande scienziato e della grande attrice è già fatto.

Chi trovandosi in Como, per la via che direttamente conduce dalla piazza Cavour passando dinanzi al [p. 26 modifica]Duomo, al Palazzo Giovio, sulla cui facciata oggi campeggia la scritta «Museo Civico», si inducesse a entrarvi, a pian terreno e a mano sinistra, l’una corntigua all’altra, vedrebbe, anzi ammirerebbe due sale, delle quali una, la più vasta e sontuosa, dedicata ad Alessandro Volta, l’altra a Giuditta Pasta.

Comaschi entrambi, l’uno per nascita, l’altra per adozione, dopo di avere per diversissime vicende raggiunto entrambi il fastigio della gloria, e con mezzi tutto affatto differenti, beneficata l’umanità, oggi Volta e Pasta rivivono l’uno accanto all’altra, nelle memorie che di loro restano e che con cure diligenti, con intelletto di amore raccolte e ordinate, costituiscono nel loro assieme una delle cose più interessanti che si offrano allo studio ed alla curiosità del forastiero.

Già fu fatto un cenno del Museo Voltiano recentemente aperto: nulla ancora fu detto della raccolta delle memorie di Giuditta Pasta: se oggi posso completare ciò che fu detto del primo e dir qualche cosa non del tutto priva d’interesse della seconda, ne sien rese grazie alla cortesia squisita dell’avv. Cencio Poggi che in una minuta visita di entrambe le sale, mi fu guida intelligente e paziente: sopratutto paziente.

· · · · · · · · · · ·

Di grazia, seguitemi: usciamo dalle sale di Volta e dal portico le cui pareti sono rivestite di frammenti lapidari numerosi e preziosi, entriamo a mano manca in un’altra sala.

Un’alta, una stupenda figura di donna, staccandosi dallo sfondo nero di una tela, vi viene incontro, e per la maestria del disegno e del colorito vi par d’udirne l’accento, mentre lo sguardo si scuote e si commove.

Quella donna, vestita di nero, in atto tragico, è Giuditta Pasta, e chi la dipinse così è il grande pittore russo Bouloff.

Levate gli occhi dal quadro, li girate attorno per la sala, li posate sulle vetrine che vi circondano e tutto vi parla di Giuditta Pasta, della celeberrima attrice che nata a Saronno il 26 ottobre 1797, moriva a Como nell’aprile del 1865.

Ecco qui una prima vetrina isolata, nella quale assieme ai ritratti di parecchi degli autori, sono disposte le lettere di molte tra le più grandi celebrità che hanno reso omaggio alla somma attrice.

Ecco lettere di Bellini, di Thomas Moore, di Cristina Trivulzio di Belgioioso, di Henriette Santos che si firma «Cantatrice de la Cour royale de Berlin», della celebre ballerina Taglioni che scrive Madamme e mes respect, prova evidente che se sapeva lavorare stupendamente coi piedi, scriveva anche il francese, per lo meno, coi medesimi. Seguono lettere della famosa rivale della Pasta, la Malibran.

Il principe Marino Torlonia, la principessa di Galikin, il principe Jablouwski, le Vicomte de Noaille, il principe Luigi Gonzaga, il duca di Gaeta, portano tutti in un modo o nell’altro l’omaggio delle più elevate classi sociali alla «diva», mentre alla sua arte ed ai suoi vezzi non si mostrano restii uomini gravi come FrançoisCousin e Melchiorre Gioia che chiude una lettera alla Giuditta scrivendole «amami e credimi tuo aff.mo»; Cicognara, lo storico; Davide Bertolotti, il traduttore di Eschilo, i poeti e gli artisti in genere sono pure largamente rappresentati in questo omaggio mondiale all’arte della Pasta: mi basti ricordare Camillo Sivori, il grande violinista, Giacomo Meyerbeer, Francesco Hayez, Giovanni Pacini, Carlo Botle, Mercadante, Paer, Tommaso Grossi, Giambattista Bazzoni, Longhi, il celebre incisore di Monza, Cesare Betteloni, Felice Romani, il Raiberti che indirizza alla Pasta un sonetto inedito graziosissimo, lo Zingarelli, maestro di Rossini, Rossini, Donizetti e il suo maestro Simone Mayr, Paganini, ecc.

Mai forse fu riunita collezione più preziosa di autografi di celebrità, tutte viventi in uno stesso periodo di tempo e tutte prone dinanzi alla fascinatrice virtù del canto e del porgere di una donna, tanto celebre e bella, quanto buona e virtuosa.

Perchè — e questo è il secondo punto per cui si toccano A. Volta e G. Pasta — anche la Pasta pur in mezzo ai trionfi che otteneva in ogni città d’Europa, nonchè soffocati, serbò più vivi ed intensi gli affetti di famiglia, ad essa tornando col desiderio precisamente come abbiamo visto tornarci A. Volta dopo gli onori tributatigli da Napoleone.

Basta, per persuadersi di ciò, dare una scorsa alle lettere che la Pasta indirizzava alla sua mamma o alle sue figlie dal teatro dei suoi trionfi maggiori e che qui sono esposte.

In una, datata da Torquay in Inghilterra, per aver ricevuto notizie dei suoi, scrive alla madre: «provo tutte quelle contentezze che posso avere lontano da voialtri e vado alle prove col musino meno lungo».

In un’altra, datata da Mosca e pure indirizzata alla mamma, dice di aver sempre presenti i suoi consigli e soggiunge: «Ogni ora che mi tocca andare innanzi bisogna rinnovare il rosario composto di coraggio e pazienza, pazienza e coraggio».

In una terza, dopo di aver modestamente scritto dei suoi successi parlando di un concerto dato in patria — forse quello a prò del ricovero industrie e mendicità, ricordato nell’epigrafe che sta nel vestibolo del Teatro Sociale di Como — scrive, dolendosene: «mi sono mostrata ai mie compatrioti ciò che non sono, li ho ingannati senza volerlo».

E la nota pia è data da un’altra lettera in cui la grande artista dice di essersi «affidata ai suoi angioletti» prima di andare a un concerto.

Fin che me ne ricordo, noto che parecchie delle lettere della Pasta portano nella testata le vedute dei luoghi d’onde provengono; il che verrebbe a confermare anche in tema di «cartoline illustrate» il vecchio motto «nil sub sole novi».

Interessante la collezione di figurini teatrali, abiti, ornamenti muliebri, gioielli, ecc., di cui la Pasta si serviva sulle scene: come pure alcune miniature sue e dei suoi ammiratori. Tra queste notevole una di Rossini che ci rivela cosa che non credo nota, essere stato cioè l’autore del Barbiere affetto da strabismo.

Riuscirà di sorpresa al visitatore il trovare tra questi [p. 27 modifica]oggetti una spada dall’elsa d’argento dorato, finemente cesellata, colla guaina di madreperla a fregi pure in argento dorato.

La spada è nientemeno che di Napoleone I, e da un ammiratore della Pasta passò in proprietà di costei, che sempre se la teneva ai piedi del letto: la spada nel ’48 sfuggì alla requisizione d’armi fatta dai tedeschi, avendola un servo avveduto nascosta sotto le lenzuola.

Non meno interessante per l’amatore la raccolta di diplomi, attestati, ecc., che le infinite accademie di Orfei, Anfioni, Filodrammatici di Venezia, Milano, Bergamo, Napoli e Roma indirizzarono alla Pasta, come hanno alto valore numismatico le varie medaglie alla Pasta decretate ed offerte in diversissimi luoghi, illustrate già dall’avv. Cencio Poggi, tra le quali piacemi ricordare quella d’oro decretatale dai soci del Casino di Bologna, sulla quale leggesi la seguente bellissima epigrafe:

Giuditta Pasta
nel magistero del canto
per giudicio d’Italia
nell’arte del gesto
per consenso di Francia
meravigliosa
i Soci del Casino
di Bologna
grati plaudenti
1829.

Come Alessandro Volta, Giuditta Pasta fu grandemente benefica, amando destinare parte della sua fortuna al sollievo d’ogni miseria, così in patria come all’estero.

Un confronto tra le benemerenze del Volta e quelle della Pasta non è possibile, ma ci è consentito di essere sereni estimatori dei meriti di queste due grandi glorie comasche, riconoscendo la infinita varietà degli aspetti onde il buono ed il bello si vestono, e traendone argomento per cercare di scoprire nell’al di là l’archetipo che tutte le bontà e tutte le bellezze in sè assomma.

Questa relazione è per sè stessa la più splendida apologia della grande artista; ma altre se ne potrebbero citare in appoggio, e sono quelle che serviranno — lo speriamo — alla compilazione di una biografia completa, vagheggiata da molti. Intanto ci piace spigolare nella Vie de Rossini del De Stendhal, pubblicata a Parigi nel 1892, alcuni brani assai eloquenti.

«Quali termini potrei adoperare per parlar della ispirazione che la Pasta rivela col suo canto e della forma di sublimi o straordinarie passioni che ci fa conoscere? Secreto questo, ben al di sopra di qualunque grado di poesia, e di tutto quello che lo scalpello dei Canova od il pennello dei Correggio possono rivelarci sulle profondità del cuore umano. Per la Pasta, la stessa nota in due diverse situazioni d’animo, non ha, per così dire, lo stesso suono. E questo è semplicemente il sublime nell’arte del canto. Uscendo da una rappresentazione dove ci ha trasportati, non è possibile ricordarsi d’altro che della profonda emozione che ci ha colpiti. Invano si cercherebbe di rendersi esatto contod’una sensazione così profonda e straordinaria. Non si sa da qual parte rifarsi per ammirare. Quella voce non ha un metallo straordinario; non deve i suoi effetti ad una sorprendente flessibilità; non è neppure d’una insolita estensione: è unicamente e semplicemente il canto che parte dal cuore, e che seduce e trascina tutti gli spettatori. Fu chiesto alla Pasta chi fu il suo maestro, come attrice. Ella non n’ebbe mai altro che un cuore atto a sentir vivamente le minime gradazioni delle passioni, ed una profonda ammirazione per la bellezza ideale. A Trieste, un povero fanciullo di tre anni, che avvicinandosele le chiedeva la carità per la mamma cieca, la fa scoppiare in lacrime e la induce a dargli quanto aveva. Gli amici che erano in sua compagnia, si mettono a lodare la bontà del suo cuore, ma ella, asciugando le sue lacrime: «Non accetto — dice loro — le vostre lodi. Questo bambino mi ha chiesto la carità in un modo sublime. Ho visto, in un colpo d’occhio, le disgrazie della madre, la miseria della casa, la mancanza di vesti, il freddo che soffriranno, tutto. Oh, sarei una grande attrice, se, data la circostanza, potessi trovare un gesto ch’esprimesse i grandi dolori con tanta verità!...»

Anche in Francia e in Inghilterra, si conservano bellissimi ritratti e ricordi assai interessanti per la vita della grande artista italiana, che passò attraverso il fuoco senza esserne tocca, nell’elevatezza del sentimento, nella purezza degli ideali.

Onoriamo adunque il merito e la virtù!

Un richiamo alla memoria di Napoleone III

Ai lettori del Buon Cuore non può far meraviglia se diciamo non chiusa, anzi ancor sanguinante nel nostro cuore, la ferita aperta nel veder passare il 1859, senza che il monumento a Napoleone III, venisse collocato nel posto dove il dovere della gratitudine e una deliberazione solenne, e non ancor ritrattata, del Consiglio Comunale, volevano che si ponesse, cioè nel Parco, dinnanzi all’Arco della Pace.

Noi godiamo tutti i giorni i benefici dell’indipendenza dallo stranie’ o e della libertà, e teniamo in prigione il monumento di chi tanto contribuì a darci la sospirata libertà, colui senza del quale nessuno può dire in qual modo noi saremo riusciti a toglierci di dosso il giogo austriaco.

E per ciò tutte le volte che, pur senza voluto intento, ci capita sotto gli occhi qualche accenno allo sventurato Monarca, e vediamo ricordato il beneficio da lui recato alla redenzione politica d’Italia, l’impressione dell’ingratitudine milanese si fa viva e ci ribolle nel cuore, e non siamo capaci di reprimerla e chiuderla dentro, fermi in una dolce speranza che un giorno sarà fatta giustizia alla giustizia.

Questi riflessi ci vennero suggeriti da un articolo che troviamo nella Rivista Minerva del 15 genn. 1910. [p. 28 modifica]L’articolo è una recensione fatta dal sig. Vittorio Graziadei sul libro Silvio Spaventa, la politica della destra, scritti e discorsi raccolti da Benedetto Croci.

A pagina 91 si legge il brano seguente:

«Mi piace riportare qui ciò che scrive lo Spaventa a proposito di un momento tragico per la Francia, capitalissimo per la storia d’Europa e d’Italia, di grande passione e contrasto per l’anima di Lanza, allora presidente dei ministri. Già prima ci ha detto come il Lanza amasse la Francia, a cui doveva tutta la parte della sua coltura che non era italiana, e nutriva ferma opinione che gli interessi della civiltà fossero assicurati solo con la primazia in Europa di Francia e Inghilterra e si sentiva oltre modo grato a Napoleone dell’aiuto dato al Piemonte e al suo Re per costituire l’Italia. Quando senti la sconfitta di Sedan e l’abdicazione dell’imperatore dicono che piangesse. Chi non è più giovine ricorda come quelle lagrime siano state rinfacciate, con malignità di interpretazioni e crudezze di derisioni, all’austero ministro piemontese».

Lo Spaventa scrive: «Sublimi lagrime, se son vere, anzi, poichè egli era uomo, che nascondeva sotto una scorza ruvida un animo affettuoso schietto e buono, egli dovette piangere. Periva in quella sconfitta tutto un sistema che era stato il suo, e gli pareva il solo adatto a salvare la libertà e l’avvenire civile d’Europa, per, va un uomo, a cui, per il bene fatto alla sua patria, egli era grato; un uomo, a cui, per il bene della sua patria, aveva dovuto impedire il suo Re, di portare il suo aiuto in un’estrema urgenza, e non doveva e non poteva piangere? Ma egli che piangeva non aveva lasciato commovere il suo cuore e la sua mente, da non vedere e non seguire la politica che solo poteva giovare al suo paese... Qui, è grandezza: egli si provò uomo di cuore insieme e uomo di Stato, egli non mancò al suo passato, nè a’ suoi sentimenti, nè a’ suoi doveri».

Fra tutte le frangie che l’accompagnano, le frasi che mi piace ricordare son due — quando sentì la sconfitta di Sedan e l’abdicazione dell’Imperatore, dicono che piangesse — Lanza si sentiva oltre modo grato a Napoleone dell’aiuto dato al Piemonte e al suo Re per costituire l’Italia.

Chi ha sentito e veduto, per conoscenza propria, i benefici di Napoleone, ricordandone le sventure, non trova che un’espressione sola adeguata a esprimere i suoi sentimenti: le lagrime!

Altri possono credere invece di imprecare alla memoria di Napoleone, e contrastargli l’omaggio tributatogli nel suo monumento, perchè non hanno nè veduto, nè sentito i benefici da lui recati all’Italia.

Sta a vedere se alle affermazioni proprie e alla condanna altrui possa mettersi innanzi come leale e dignitosa giustificazione: l’ignoranza, che è l’indipendenza della mente, sorella della indipendenza del cuore, che è l’ingratitudine.

L. V.




Il libro più bello, più completo, più divertente che possiate regalare è l’Enciclopedia dei Ragazzi.


Il Divino Artista

DI LUISA ANZOLETTI

Sua Eccellenza Mons. G. Bonomelli, al quale Luisa Anzoletti faceva omaggio del suo libro Il Divino Artista, indirizzò all’Autrice la seguente magnifica Lettera, che Il Buon Cuore si onora di pubblicare.

Illustre Signora,

Il libro che Ella gentilmente m’à offerto, e ch’io ò letto con vero interesse, à due meriti principali, quello di onorare la religione e di favorire l’arte.

I modi coi quali l’uomo si eleva a Dio, sono molteplici e sfuggono in parte a una propria definizione. Noi però siamo soliti raccoglierli e classificarli tutti nelle due grandi esplicazioni del nostro spirito, l’intelletto e la volontà. Due scuole opposte, l’una troppo vecchia, l’altra troppo novatrice, non solo si combattono, ma falliscono entrambe alla mèta, escludendosi anzichè completarsi reciprocamente. La Scolastica, che pure ebbe il merito d’aver ai suoi tempi esercitato mirabilmente l’umano intelletto, ebbe il torto di limitarsi quasi esclusivamente ad esso; e sorprende che lo stesso S. Tommaso, ai famosi cinque argomenti metafisici sull’esistenza di Dio, non ne abbia fatto seguire uno di carattere morale.

Come per reazione, da Emanuele Kant in poi, la Filosofia Nuova è venuta mano mano criticando, omettendo, condannando il valore delle argomentazioni teoriche, per dare alla sua volta un risalto quasi esclusivo a quelle insite nel cuore più che nella mente dell’uomo. Come tutte le reazioni, anche questa passò i giusti confini e in quello che aveva di esagerato giustamente venne disapprovata. Ma in quanto riempie una lacuna lasciata dal passato e completa il processo filosofico che ci fa trovare e sentire il Divino, il nuovo sistema, non solo non è disapprovato, ma giudicato opportuno ai bisogni dei nostri tempi.

Per quanto intellettuali, i tempi nostri s’arrendono facilmente a quanto li commuove come buono e come bello, più ancora che come vero. Il sentimento è sempre quello che predomina nell’uomo, e la civiltà, lungi dal fugarlo, lo raffina. I modi di attrarre col sentimento variano secondo le classi di persone e i gradi di cultura: al popolo basta un certo culto esterno, forse un po’ chiassoso, che non impressiona e talvolta disgusta persone di altra levatura. Queste, che pur troppo, disertano dalla Chiesa e da Cristo per questo o quel pregiudizio, siano a Cristo ricondotte da libri che, come il suo, illustre e ottima Signora, trattano d’un culto più elevato e geniale, del culto per eccellenza: l’arte.

Dall’arte a Dio! è un magnifico programma; e l’atttuazione ne è possibile, anzi facile, se l’arte, come noi siam persuasi, non è che emanazione della Divinità: vostr’arte a Dio quasi è nipote. L’uomo non à che rifare il cammino luminoso pel qùale Dio in certo modo è sceso a lui.

Ricordo che, con altri libri forti di cultura filosofica di raziocinio, Ella dimostrò la Fede nel [p. 29 modifica]soprannaturale, La salute della patria nella Religione, L’armonia fra la Religione e la Scienza; ma con quest’ultimo, Il Divino Artista, Ella, disposando alla cultura e al ragionamento un sentimento vivo e profondo della natura umana e dell’arte, à completata genialmente una apologia del Cristianesimo. È questo il primo merito del suo libro. Il secondo è quello di schiudere all’arte moderna, la quale colla Fede, à smarrita l’inspirazione del bello, la sorgente da cui è legge che sgorghino fuse insieme l’una e l’altra, come stanno a dimostrare i più grandi capolavori che onorano e abbelliscono la patria.

Il positivismo materialistico à creduto di spiegare l’universo colla sua scienza e di riprodurlo con miglior arte. Non è qui il caso di rilevare il fallimento dei suoi principii scientifici; qui occorre soltanto mostrare come nessun’opera ancora provi come utili i suoi principii estetici. Rigorosamente fedele ai metodi positivistici, la scuola artistica moderna à sviscerato coll’analisi sperimentale tutti i segreti della forma: le teorie naturalistiche anno fornito i modelli e le regole per produrre il lavoro fisicamente perfetto: la critica china sui capolavori antichi à esaminato, adunato, ricostituito gli elementi del passato, e col sussidio di scienze affini è riuscita a fissare di quali e quanti elementi storici, psicologici, sociali l’arte si compone; e ultimamente à creduto di definire ciò che non si è mai definito, ne, credo, si possa mai definire sul serio: la bellezza e il genio. Ma il lamento è ancora generale: tutto quello che s’è fatto e si continùa a fare è la rettorica che viene dopo l’arte, e noti sa produrre l’arte. Le Riviste portano ogni giorno la confessione dei moderni maestri di critica d’arte sulla deficienza degli artisti attuali: una fra le altre scriveva ultimamente che «oggi si fa dell’archeologia, della fisiologia, dell’ingegneria, ma non dell’arte». S’è perduto dunque il segreto di far sì che la bellezza viva: s’è smarrita la fonte dell’inspirazione. Credendo di scoprirla, l’arte nuova, col suo metodo prettamente materialistico, nelle audacie e crudezze del verismo, diè fondo alla natura, mettendone allo scoperto anche i lati più oscuri e tristi; ma fu peggio; fu una nausea generale; e l’arte di questi ultimi tempi, mormorando il suo vanitas vanitatum, retrocede a gran passi verso lo spiritualismo.

Anche la scienza moderna va verso una fede; ma più ansiosa vi corre l’arte: perchè questa, quando se ne persuada, sente che per essa più che per quella le idealità spirituali sono condizioni di vita e di gloria. Un ritorno verso lo spiritualismo è molto, non è tutto: resta a indicare la sorgente donde esso scaturisca più puro e copioso.

Ella indica, e a ragione, la Religione di Cristo. Lo stesso razionalismo oggigiorno esalta il Cristianesimo come la più bella dealità morale. Del resto, nessun’altra idea à fatto nella storia dell’arte prova più gloriosa. Ella poi non asserisce, dimostra. Dopo aver constatata la degenerazione artistica dei tempi nostri, rilevate le cause nella mancanza d’una fede spirituale, fatta la critica serena quanto esauriente delle teorie estetiche nuove e dei nuovi tentativi di far risorgere l’arte odierna, con argomenti intrinseci illustrati dai luminosi esempii della nostra arte cristiana, può con diritto conchiudere che l’arte oggi fallisce alla sua meta, principalmente perchè à divorziato da Cristo, e che in Cristo deve ancora cercare, come nei giorni migliori, il segreto di vivere e trionfare. Così Ella, onorando il Cristianesimo, favorisce per suo mezzo molto efficacemente l’arte dei nostri giorni; è questo l’altro dei due meriti principali che fin da principio ò attribuito al suo libro.

Auguro che premio a questi meriti sia il compimento di quel desiderio che l’à mossa a scrivere: sia un premio duplice come il merito e allieti insieme l’anima di un’artista e di una cristiana.

L’arte moderna ritorni all’Artista Divino, che solo può cominciare la sua ristorazione di là dove bisogna ch’essa cominci: dallo spirito. E l’arte moderna in virtù della fede sposata al genio divenga quasi un altro Vangelo insegnato col verbo della Bellezza.

Geremia Bonomelli.

Vescovo di Cremona.