Il Re Torrismondo/Atto secondo/Scena seconda
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SCENA SECONDA
TORRISMONDO
Pur tacque alfine, e pur alfin dinanzi
Mi si tolse costui, ch’a me parlando
Quasi il cor trapassò d’acuti strali.
O maculata coscienza! or come
Mi trafigge ogni detto! Oimè, dolente!
Che fia, se di Germondo udrò le voci?
Non a Sisifo il rischio alto sovrasta
Così terribil di pendente pietra,
Come a me il suo venire. O Torrismondo,
Come potrai tu udirlo? o con qual fronte
Sostener sua presenza? o con quali occhi
Drizzar in lui gli sguardi? o Cielo, o Sole,
Che non t’involvi in una eterna notte?
O perché non rivolgi addietro il corso,
Perch’io visto non sia, perch’io non veggia?
Misero! allora avrei bramato a tempo,
Che gli occhi mi coprisse un fosco velo
D’orror caliginoso e di tenébra,
Ch’io sì fissi li tenni al caro volto
Della mia donna. Allor traean diletto,
Onde non conveniasi; or è ben dritto,
Che stian piangendo alla vergogna aperti,
E di là traggan noja, onde conviensi,
Perchè la men costante il ferro adopre.
Ma vien l’ora fatale, e ’l forte punto,
Ch’io cerco di fuggire; e ’l cerco indarno,
Se non costringe la canuta madre.
La figlia sua col suo materno impero,
Siccome io l’ho pregata, ella promesso:
E so, ch’al mio pregar fia pronta Alvida.
Ma chi m’affida (oimè ) che di Germondo
L’alma piegar si possa a nuovo amore?
E se fia vano il più fedel consiglio,
Non ha rimedio il male altro che morte.