Il Canzoniere (Bandello)/Alcuni Fragmenti delle Rime/CXCI - Ne le fiorite piagge, e fertil piano

CXCI - Ne le fiorite piagge, e fertil piano

../CXC - Dunque se' morto, e resta il caro armento ../CXCII - Qual luogo avrai, magnanimo signore IncludiIntestazione 14 marzo 2024 100% Poesie

CXCI - Ne le fiorite piagge, e fertil piano
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CXCI.

Lamento d’una madre che — a Pandino — ha perduto un pargoletto figlio, caduto da alte scale.
        Chi sia costei, sfugge alla nostra indagine.
        Canzone.


Nelle fiorite piagge, e fertil piano
     D’ombrose selve, e folti boschi pieno,
     Che la bell’Adda press’Insubria1 bagna,
     Pan Dio d’Arcadia venne, poi che invano
     5Seguì Siringa2 che d’Amor il seno
     Superba, e ritrosetta discompagna.
     E ’n la ricca campagna
     D’antiche querele in mezz’ai santi orrori3
     L’albergo elesse, e eterno nome diede
     10Al bel Pandino4 erede
     Oggi di più felici e veri onori,
     Di virtù nido, e seggio a’ casti Amori.
     Quivi la bella e gloriosa Donna5
     Ch’a’ nostri giorni di virtute e grazia,

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     15E di beltate albergo si ritrova,
     Stassi con sparso crine in nera gonna,
     E sol di lagrimar s’appaga e sazia.
     Tant’in lei doglia il duol ognor rinnova,
     Il duol a cui non giova
     20Altrui conforto: sì l’affligge e sface
     La morte di un figliuol, tal ch’ella suole
     Dall’uno all’altro sole
     Piagnendo sempre priva d’ogni pace
     Starsi, qual neve al sol che si disface.
25Onde chiavate insieme ambo le mani
     Con gli occhi fissi al ciel si lagna e grida
     Tal ch’a pietate il marmo può piegarse.
     E dice sospirando: ahi! sciocchi e vani
     Nostri pensieri, e pazzo chi si fida
     30In ciò ch’ogni momento suol cangiarse!
     Invide Parche6 e scarse,
     Che ’l caro mio figliuol sì tosto a morte
     Tiraste con sì duro, e orrendo caso,
     Che dall’orto all’occaso
     35Del sol, non fu giammai sì fiera sorte
     Tra quanti qui n’ancide l’empia morte.
Come non potè in me tanto la doglia
     Ch’i’ ne morissi allor ch’i’ vidi il sangue
     Da quelle membra uscir sì caldo fore?
     40I’ vidi, ahimè! la pargoletta spoglia
     D’alto cadendo pallidetta, e esangue
     Restar come tra l’erbe un secco fiore.
     Ben è ver che non more
     Di doglia alcun. I’ pur dovea morire
     45Allor che ’l vidi. I’ pur morir dovea
     Quando mancar vedea
     Il mio caro figliuolo in tal martìre,

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     Che ’n me non può per tempo mai finire.
Questa è pur doglia, ch’ogni doglia avanza;
     50E sovra ogni credenza in me può tanto,
     Ch’i’ ne torrei morir per minor pena.
     E peggio or è, che for d’ogni speranza
     I’ vivo, che cessar mai debbia il pianto,
     Ch’esce dagli occhi miei con larga vena.
     55Ahi! vita amara, e piena
     D’aspri tormenti! I’ veggio ben ch’omai
     Sperar non debbo più diletto, o gioia,
     Ma sol angoscia, e noia,
     Che con dogliosi, e sempiterni lai
     60Mi tengan sempre fin ch’io viva in guai.
Che se per morbo il mio figliuol la vita
     Finita avesse, a poco a poco quale
     Suol avvenir in tal età sovente,
     Forse ch’all’aspro mio dolor aìta
     65Darei. Ma quand’i’ penso all’alte scale7
     Cagion della rovina sì repente,
     Mancami allor la mente,
     Nè come viva resti dir saprei.
     Ahimè figliuolo! ahimè figliuol mio caro!
     70In tanto duol amaro
     Il resto lasci delli giorni miei,
     Che se morta8 non fossi i’ ne morrei.
Or quando mai potrò, figliuol vederti?
     Che senza te la vita non m’aggrada,
     75Ove mai sempre il cor doglioso geme?
     Lassa! che non feci io per ritenerti?
     Ma non puote Esculapio9, o Apollo a bada
     L’alma tener in tante doglie estreme.
     Non valse il colto seme
     80A piena luna10, e meno il suco d’erbe,

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     Nè tra le pietre il verde e fin smeraldo
     Nè lo bel diaspro il caldo
     Sangue fermò, che dalle piaghe acerbe
     Correa qual rio, che larga vena serbe.
85Ind’io mirando que’ begli occhi, quelli
     Occhi tuoi dolci ombrar eterna notte,
     E ’l dolce ragionar finir in tutto,
     Più di te morta, i già leggiadri, e belli
     Lumi bagnai con lagrime interrotte
     90Da fier singhiozzi e sospiroso lutto.
     E ’l viso bel distrutto,
     E la soave bocca in ogni lato
     Baciai più volte, stando intenta allora
     Ch’uscisse l’alma fora
     95Acciò cogliessi almen lo spirto amato
     Sulle tue labbra con l’ultimo fiato.
Dunque, figliuol, l’acerbo mio cordoglio,
     S’hai teco quell’amor, che ’n terra avevi
     Mira dal ciel, e vieni a consolarmi.
     100Tu sai, che giustamente pur mi doglio,
     Da poi che fur i giorni tuoi sì brevi,
     Ch’assai più tempo lieta dovean farmi.
     Ahimè! perchè donarmi
     Non volle grazia il ciel, ch’a questo passo
     105Teco11, figliuol...? Qui tacque, nè più disse,
     Ch’ambe le luci fisse
     Al ciel avendo, il corpo quasi casso
     Parve di vita, ed ella farsi un sasso.
Turbosse allor il cielo
     110Per non veder che ’l cor di duol si svella
     Fra le più belle donne alla sì bella.

Note

  1. V. 3. Insubria, qui sta per Lombardia. Storicamente è la regione abitata un tempo dagli Insubri, nella Gallia Cisalpina, tra il Po, le Alpi, il Ticino e l’Adda.
  2. Vv. 4-5. Pan e Siringa di cui già si narrò la leggenda al sonetto C, v. 4, nota.
  3. V. 8. Santi orrori, sono i sacri orrori delle selve, come già in Tacito; cfr. Germania, IX, passim.
  4. V. 10. Pandino in quel di Crema, oggi provincia di Cremona, deriverebbe, secondo il poeta, il nome da Pan, che quivi pose sua dimora.
  5. V. 13. Donna bella e gloriosa, non designata; nè le Novelle chiariscono l’allusione poichè vi si parla soltanto di un signor Pandino da Pandino introdotto a narrare la nov. II-11.
  6. V. 31. Invide Parche, invidiose e scarse, avare dello stame della vita, che vengono filando.
  7. V. 65. All’alte scale, specifica quanto disse nel v. 41.
  8. V. 72. Che se morta, metaforicamente parlando.
  9. V. 77. Esculapio, colla scienza medica, e Apollo col fascino del suo canto che lenisce. Apollo è padre di Esculapio e medico col nome di Paìana, donde Peana.
  10. Vv. 79-80. Il colto seme a piena luna, empirici medicamenti varii colti con superstiziosa credulità; sacchi d’erbe; smeraldo verde, e diaspro, attribuendosi alle pietre preziose virtù salutari. Si cfr. son. LXXXVIII, dove il Bandello stesso narra d’esser stato risanato da Beatrice d’Ungheria con un ricco smeraldo sfatto in polvere e da lui bevuto.
  11. V. 105. Teco, sottint. moristi. Ma qui la parola le muore sul labbro. Segue breve chiosa poetica.