I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Il fanciullo rapito

Il fanciullo rapito

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Il vampiro della foresta Il boa delle caverne

IL FANCIULLO RAPITO


Sumatra, una delle più grandi isole della Sonda, situata al sud del grande continente asiatico, si può dire che è la patria delle scimmie.

Su quella terra, ricca di foreste ancora vergini, d'una potenza di vegetazione sconosciuta per noi, sembra che si siano dato convegno tutti i quadrumani del mondo. Vi sono scimmie nere, rossastre, bianche, alcune con barbe, e altre con cappucci che le fanno rassomigliare talvolta a frati; di piccole e di grosse. In alcune parti dell'isola ve ne sono dei veri reggimenti e nell'entrare nelle foreste da loro occupate, si corre sovente dei gravi rischi.

Maligne e sospettose all'eccesso, quando scorgono qualche cacciatore, lo tempestano di frutta e di rami secchi, costringendolo quasi sempre a battere in ritirata.

Vi sono però certe grosse scimmie che non si accontentano di lanciare rami e frutta. Affrontano risolutamente gli uomini e li uccidono a colpi di randello o d'unghia.

Questi sono gli urang-outans, veri mostri che mettono paura solamente a vederli.

Sono alti più d'un metro e mezzo, hanno spalle larghissime, membra poderose e grossissime, coperte d'un fitto pelame rossastro e armati d'unghie fortissime.

La loro faccia poi è orribile. Hanno la bocca larghissima e irta di denti acutissimi e così solidi da schiacciare perfino le canne dei fucili, e i loro occhi piccolissimi, invece brillano come carboni.

Questi mostri vivono per lo più nelle foreste altissime e umide e si tengono lontani dai luoghi abitati, però talvolta lasciano i loro nascondigli e si recano a saccheggiare i giardini e le piantagioni dei coloni olandesi.

Alcuni anni or sono, uno di questi orribili quadrumani aveva preso la pessima abitudine di devastare i campi d'un colono chiamato wan Oken.

Questo flemmatico figlio della nebbiosa Olanda, si era stabilito da molto tempo sulle rive del Kium, assieme alla moglie, una brava e coraggiosa massaia.

Espatriato con pochissimi fiorini, quel brav'uomo a poco a poco, lavorando con accanimento, era diventato possessore di una bella piantagione di pepe e di canne da zucchero, che gli permetteva di vivere agiatamente. Vedendosi quindi guastare i suoi raccolti, l'olandese si era giurato di punire severamente il ladro, non immaginandosi che l'autore di quei danni fosse uno di quei pericolosi abitanti delle selve.

Più volte si era imboscato in vari punti della piantagione e senza mai riuscire a sorprendere l'audace ladro.

Ed intanto le canne da zucchero, già giunte quasi a maturità, scomparivano rapidamente.

Ogni notte delle zone intere rimanevano vuote.

Una sera, appena tramontato il sole, wan Oken se ne tornava a casa in compagnia del figlio, un bel fanciullo di dieci anni, il solo che aveva e che, come si può ben immaginare, adorava pazzamente.

Aveva fatto un giro attorno alla piantagione e si era accorto che nuovi guasti erano stati fatti nella notte precedente dal misterioso ladro.

– Che non lo possa mai sorprendere? – si era domandato, con molta rabbia. – Se la continua di questo passo, non raccoglierò nemmeno una libbra di zucchero quest'anno.

Aveva attraversata la piantagione di pepe, quando udì in mezzo alle piante sarmentose un certo rumore sospetto.

Immaginandosi che fosse il ladro, l'olandese armò risolutamente il fucile e fece fuoco.

Fra le piante erasi udito un grido che aveva qualche cosa di umano, poi un'ombra era passata velocemente attraverso ad una macchia di cespugli, scomparendo fra le canne.

– L'ho ferito di certo – pensò l'olandese. – Forse il ladro non andrà molto lontano.

Raccomandò al figlio di tornare subito a casa, essendo poco lontani dall'abitazione, poi si slanciò in mezzo alla piantagione, risoluto a scovare il ladro.

Non lo vedeva in causa dell'oscurità e dell'altezza delle canne, però lo udiva fuggire, rompere impetuosamente le piante per aprirsi il passo.

L'olandese, il quale aveva ricaricato il fucile, lo seguiva più rapidamente che poteva, approfittando del solco aperto dal fuggiasco, ma non riusciva a guadagnare via, anzi ne perdeva.

Dopo una lunga corsa, wan Oken s'accorse di trovarsi sul medesimo sentiero dove poco prima aveva lasciato il figlio. Il ladro aveva descritto un ampio semicerchio, tornando sui propri passi.

In quel momento udì un grido, poi un colpo di fucile.

Qualcuno aveva fatto fuoco contro il ladro.

– Chi ha sparato? – gridò.

– Io, padrone – rispose una voce.

Un momento dopo, l'olandese vide comparire sul margine delle piantagioni un malese che aveva preso al proprio servizio onde lo aiutasse nelle coltivazioni.

– Su chi hai sparato, Kalina? – chiese l'olandese.

– Sul ladro.

– Lo hai ucciso?

– Ci vogliono parecchie palle per uccidere quella bestia, padrone – rispose il vecchio malese.

– Una bestia! – esclamò wan Oken. – Non era un uomo?

– No, padrone, era invece uno di quei terribili quadrumani che noi chiamiamo urang-outan.

– Era solo?

– Sì, però mi era sembrato che stringesse al petto qualche cosa di voluminoso, e mi era parso anche d'aver udito un grido umano.

– Cosa mi narri tu, Kalina? – chiese l'olandese, diventando pallido.

– È come ve la racconto, padrone. Quella scimmia stringeva un essere vivente fra le braccia.

– E chi? – gridò wan Oken, con angoscia.

– Non lo so padrone.

– Hai veduto mio figlio dirigersi verso casa?

– Non ho veduto alcuno – rispose il malese. – Io d'altronde venivo dalla piantagione di pepe.

L'olandese, in preda ad un'angoscia indescrivibile, si era slanciato verso la casa, la quale sorgeva proprio nel mezzo della campagna.

Un atroce presentimento gli si era infiltrato nel cuore, diviso in parte anche dal malese.

Appena entrato, l'olandese corse da sua moglie, gridando:

– Dov'è Alberto?

– Non l'ho veduto ancora tornare – rispose la madre, sorpresa da quella domanda. – Non era con te?

– Non l'hai veduto! – gridò il povero uomo appoggiandosi alla parete per non cadere.

– Ma no – rispose la donna.

– L'hanno rapito! Sciagura! Sciagura!...

– Chi?... Parla!... – singhiozzò la madre.

– L'urang-outan!

La povera madre era caduta al suolo come fulminata.

– Padrone – disse il malese, mentre accorrevano i servi della casa. – Non disperatevi e se volete salvare vostro figlio, non perdiamo un solo minuto. Ogni istante che passa, è una probabilità di meno.

– È perduto!... Perduto!... – singhiozzò l'olandese strappandosi i capelli. – Mio povero Alberto!

– Venite padrone – disse Kalina. – Noi lo ritroveremo.

Raccomandò ai servi della casa di aver cura della padrona, poi trascinò con sé il colono, dicendogli:

– Non è questo il momento di piangere, bensì di agire. Forse so dove l'urang-outan ha il suo nido.

Wan Oken aveva rialzato il capo, tergendosi le lagrime che gli bagnavano le brune gote.

– Hai ragione, Kalina, amico bravo ed affezionato – disse. – Non è colla disperazione che io posso salvare il mio povero Alberto. Bisogna trovarlo o sua madre morrà di dolore.

– Lo troveremo, padrone – rispose il malese. – Altri fanciulli sono stati rapiti da quelle orribili scimmie e sono stati salvati. So d'altronde che sono ferocissime solamente quando vengono assalite e trovano resistenza. Venite padrone e non disperate.

Kalina era un vero uomo dei boschi, che conosceva molto bene le abitudini degli urang-outans. Ne aveva anzi uccisi più d'uno nel suo paese e, quantunque non ignorasse di quale straordinaria forza erano dotati, non li temeva.

Dapprima condusse l'olandese là dove aveva fatto fuoco, per ritrovare le tracce della scimmia e scopertele gli fece osservare alcune gocce di sangue disperse sulle canne da zucchero.

– Io devo averla ferita, – disse, – quindi non avrà potuto fuggire con troppa facilità.

Attraversò la piantagione, sempre seguendo le orme, e giunse ben presto sul margine d'una immensa foresta formata da banani selvatici, da mangostani, da palme immense e da alberi della gomma.

La luna, che era allora sorta in tutto il suo splendore, permetteva ai due cacciatori di poter seguire le orme della mostruosa scimmia, anche sotto quegli alberi.

Il malese si fermò per ascoltare e non udendo alcun rumore, fece cenno al colono di seguirlo.

– Che sia qui il mio Alberto? – chiese l'olandese.

– Ho osservato un grosso albero alcuni giorni or sono, che aveva attaccati al tronco dei peli rossi – rispose il malese. – Sospetto che fra quei rami vi sia il nido del rapitore.

Assicuratisi che i fucili erano carichi, i due cacciatori si inoltrarono sotto gli alberi, camminando nel più profondo silenzio, per non allarmare la scimmia.

L'oscurità era profonda, essendo il fogliame molto folto, però il malese era certo di non smarrire le tracce.

Di quando in quando si curvava a terra, rimuoveva adagio adagio le foglie secche per accertarsi che l'urang-outan era passato per di là; poi si rimettevano in cammino.

Dei vaghi rumori rompevano di tratto in tratto il silenzio. Degli animali, forse delle tigri o delle pantere, udendo accostare quei due uomini, fuggivano. Talvolta invece, il malese e l'olandese vedevano passare rapidamente dei babirussa, animali che hanno la statura dei cervi e le forme dei maiali, ottima selvaggina per le belve feroci che sono così numerose nelle foreste vergini di Sumatra.

Dopo aver percorso più d'un miglio, il malese, che da qualche tempo procedeva con maggior cautela, si volse verso il padrone, dicendogli:

– Ho udito muovere delle frondi in mezzo a quel gruppo di banani selvatici.

– Che sia stato l'urang-outan? – chiese l'olandese con voce soffocata.

– Lo sospetto, padrone. L'albero che io avevo osservato deve trovarsi in questi dintorni.

– Lo troveremo vivo il mio Alberto?

– Gli urang-outans non tormentano i ragazzi che rapiscono; badiamo però di ucciderlo sul colpo o lo strangolerà. Quando queste scimmie entrano in furore, non risparmiano nessuno. Silenzio e seguitemi.

Si gettarono a terra, essendo i cespugli molto folti, e si misero a strisciare come i serpenti, badando di non far scrosciare le foglie secche.

Giunti in mezzo alla macchia, il malese mostrò al colono un albero enorme, un durion, il quale si rizzava per oltre quaranta metri, torreggiando sopra tutte le altre piante.

Il malese guardò attentamente fra i rami, e mostrò al padrone una specie di piattaforma, formata di pezzi d'albero, larga due metri e lunga quattro, collocata alla biforcazione del tronco.

– È il nido dell'urang-outan – mormorò. – Vostro figlio deve trovarsi lassù.

Il colono aveva provato una stretta al cuore.

– Se l'urang-outan si accorgesse della nostra presenza e gettasse giù il mio Alberto! – esclamò.

In quell'istante sulla cima della pianta si udì un urlo rauco, che terminò come in un colpo di tosse.

– La scimmia veglia – disse il malese. – La ferita che le ho fatto deve impedirle di dormire.

– Allora mio figlio è perduto! – gemette l'olandese.

– Non precipitate i giudizi, padrone – rispose il malese. – Cerchiamo di farla scendere. Se vi riusciremo, vostro figlio non correrà pericolo alcuno. Non muovetevi e lasciate fare a me, padrone.

Il malese si accovacciò in mezzo ai banani; strappò una foglia e postala fra le labbra mandò alcuni suoni gutturali.

Pochi momenti dopo, si vide una grande ombra apparire sull'orlo della piattaforma e curvarsi: era l'urang-outan che esplorava la foresta.

Messo in sospetto da quei suoni, si era prontamente alzato per conoscerne la causa.

Il malese, invece di arrestarsi, aveva continuato mentre l'olandese, impaziente, aveva armato il fucile.

Per alcuni minuti la gigantesca scimmia stette in ascolto, poi, con una mossa rapidissima, balzò sulla biforcazione dei rami e cominciò a scendere lungo il tronco.

Non veniva giù a precipizio. Ogni due o tre metri s'arrestava e guardava giù per cercare di scoprire il misterioso autore di quella strana musica.

– Attento, padrone – disse il malese, staccando per un momento la foglia dalle labbra. – L'urang-outan viene.

– L'aspetto – rispose l'olandese, il cui cuore batteva forte.

– Non mancate al colpo.

– Mirerò attentamente.

L'enorme scimmia era giunta a metà altezza e si era nuovamente fermata come se fosse stata presa da qualche sospetto.

Era il momento opportuno per freddarla con una palla nel cuore.

Wan Oken aveva alzato il fucile e la prendeva di mira, cercando d'imporre la calma alla tremenda agitazione dei suoi nervi.

– Muori! – gridò finalmente, premendo il grilletto.

S'udì uno sparo e poi un urlo terribile. La scimmia era caduta su di un ramo che si protendeva a metà altezza del durion, poi subito si era raddrizzata, risalendo velocemente l'albero.

Il malese, gettata la foglia, aveva pure fatto fuoco, con precipitazione.

Troppo tardi! L'urang-outan aveva già raggiunto il suo nido.

– Uccidi il mio povero Alberto! – gridò il povero padre.

– Silenzio, padrone – disse il malese.

Sull'albero si era udito un grido acuto, un grido di fanciullo, poi il malese ed il colono avevano veduto la scimmia slanciarsi, con un salto immenso, fra i rami d'un albero vicino.

Fra le braccia villose stringeva il povero Alberto, ancor vivo però.

– Figlio mio! – urlò l'olandese.

– Padre – rispose il fanciullo con voce fioca.

La gigantesca scimmia si era messa a fuggire, passando da un albero all'altro con una agilità sorprendente.

Si spingeva fra i rami, servendosi della mano rimasta libera e dei piedi, i quali, come già si sa, sono forniti di dita lunghissime, e si slanciava senza mai mancare al colpo.

Certe volte spiccava dei salti di parecchi metri per raggiungere qualche grosso albero che si trovava troppo lontano.

L'olandese, disperato, piangente, ed il suo compagno facevano sforzi prodigiosi per seguire l'urang-outan nella sua marcia aerea.

Non osavano più far fuoco per paura di colpire il piccino. E poi, anche colpendo la gigantesca scimmia questa sarebbe caduta ed il povero Alberto insieme.

– Ove vuole andare? – si chiedeva il povero padre.

– Non perdiamola di vista padrone – rispondeva il malese. – In qualche luogo si fermerà. Essendo ferita le forze le verranno meno e sarà costretta a sostare.

E continuava a correre scivolando in mezzo alle radici che serpeggiavano al suolo, cacciandosi in mezzo ai festoni delle liane, aprendosi faticosamente il passo fra i cespugli e girando attorno ai macchioni.

Tutti quegli ostacoli impedivano loro di procedere rapidamente, però anche l'urang-outan pareva stanco.

Si fermava di frequente, saltava con minor agilità e mandava urla di rabbia, destando l'eco della foresta.

L'olandese ed il malese correvano da una mezz'ora, quando si trovarono improvvisamente dinanzi ad un corso d'acqua che pareva molto profondo e dove si vedevano nuotare certa specie di coccodrilli, chiamati dai malesi gaviali, orribili bestie fomite di mascelle lunghissime e armate di denti lunghissimi.

L'urang-outan con un ultimo slancio si era aggrappato ai rami d'un mango colossale, il quale cresceva proprio sulla riva del fiume.

– Che si arresti? – chiese wan Oken, preparando il fucile.

– Non lo so – disse il malese. – Lo vedo misurare la distanza.

I rami del mango si curvavano sul fiume, quasi toccandosi con quelli d'un enorme pombo che cresceva sulla riva opposta.

L'urang-outan si era fermato, non osando forse spiccare il salto.

In quel momento i suoi sguardi avevano scoperto i due cacciatori, seminascosti fra le larghe foglie d'un banano.

Mandò un urlo acuto, si batté furiosamente il largo petto, che risuonò come un tamburo, con un salto immenso andò a cadere fra i rami del pombo.

Fu veduto scendere velocemente lungo il tronco, poi scomparire in mezzo alla foresta.

Per alcuni istanti l'olandese e Kalina udirono dei rami spezzarsi e delle foglie sussurrare, poi più nulla.

Wan Oken aveva mandato un grido disperato.

– Oh mio povero Alberto! È perduto!

Il malese non aveva nemmeno cercato di consolare il padrone, però non pareva che avesse perduto la sua fiducia nell'esito finale di quella caccia.

Per qualche minuto si aggirò sulle rive del fiume, guardando i feroci gaviali che giocherellavano fra le piante acquatiche, sferzandosi reciprocamente colle code, poi si avvicinò ad una macchia di bambù grossissimi e staccatasi dalla cintura la scure, cominciò a batterli.

– Cosa vuoi fare, Kalina? – chiese l'olandese.

– Voglio attraversare il fiume, padrone – rispose il malese.

– A quale scopo? Mio figlio è oramai perduto.

– Io non l'ho ancora veduto morto.

– Speri ancora!

– Sempre, padrone.

Aveva abbattuti dodici o quindici bambù, scelti fra i più grossi ed i più lunghi e alcune bracciate di liane molto resistenti, che potevano surrogare le corde.

Unì i diversi fusti, li legò per bene in maniera da ottenere una specie di zattera, poi spinse il galleggiante nel fiume, dicendo:

– Venite padrone; i gaviali non oseranno assalirci.

L'olandese, quantunque oramai avesse perduta ogni fiducia anche nel compagno, prese posto nella zattera.

La traversata del fiume fu compita felicemente. Due gaviali si erano accostati per vedere di che cosa si trattava o forse colla speranza di fare un boccone del malese o del colono, e, accolti a colpi di scure, si erano subito allontanati, nascondendosi fra le piante acquatiche.

Sbarcati sulla riva opposta, fra un vero caos di piante d'ogni specie, di liane, di cespugli e di radici, il malese cominciò a osservare il terreno, allargando sempre più le sue ricerche.

Dopo un quarto d'ora ritornò verso il colono, il quale, affranto dal dolore e dalla fatica, erasi seduto su di una radice e gli disse:

– Venite, padrone, ho ritrovato la traccia. L'urang-outan perde ancora sangue.

Lo condusse in mezzo ad una macchia di cocchi e gli mostrò delle gocce di sangue ancora umide, nonostante il caldo intenso che regnava nella foresta.

– Che l'urang-outan sia vicino? – chiese wan Oken a cui la speranza ritornava.

– Zitto, padrone! – mormorò il malese.

In mezzo ad un folto di banani e di liane si era udito un lieve rumore. Poteva essere stato causato da qualche tapiro o da qualche babirussa, e poteva anche essere stato l'urang-outan.

– Che sia nascosto là in mezzo? – chiese l'olandese.

– Lo sospetto padrone – rispose Kalina. – Forse la perdita di sangue lo ha talmente indebolito da non potergli permettere d'arrampicarsi.

– Ed il mio Alberto?

– Sarà coll'urang-outan.

Si gettarono a terra e s'avanzarono verso i banani. L'oscurità in quel luogo era profonda, perché gli alberi, molto fitti, impedivano alla luce lunare di giungere fino al suolo.

Il malese, però, procedeva diritto, tenendo il fucile puntato, immaginandosi d'aver da fare colla terribile scimmia.

Ad un tratto vide aprirsi due rami e apparire bruscamente l'urang-outan.

Aveva il pelame irto, gli occhi accesi che brillavano come carboni e mostrava i suoi lunghi denti, duri come l'acciaio.

– Padrone! – gridò il malese, alzandosi di colpo e puntando il moschetto.

L'urang-outan vedendo la canna del fucile minacciarlo, l'addentò ferocemente e proprio in quel momento Kalina aveva fatto partire il colpo. La gigantesca scimmia era caduta col muso orrendamente sfracellato, senza nemmeno mandare un grido. A quello sparo una voce infantile aveva gridato:

– Padre!

Il colono, pazzo di gioia, si era slanciato fra i banani.

Sopra un mucchio di foglie giaceva il piccolo Alberto, colle vesti a brandelli, il viso tumefatto, le mani insanguinate, ma vivo ancora.

– Padroncino – disse Kalina, sollevandolo da terra e porgendolo al padre.

– Ringraziate il vostro Dio d'avervi conservata la vita. Anch'io vi aveva creduto morto.

Il piccolo Alberto non aveva riportato che delle contusioni e delle lacerazioni di poca entità, nondimeno lo spavento provato era stato tale che subito dopo d'aver abbracciato il padre, era stato assalito dal delirio.

Quindici giorni dopo lasciava il letto, completamente ristabilito, per ammirare un dono fattogli dal bravo Kalina.

Quel regalo era la pelle dell'urang-outan, trasformata in uno splendido tappeto, unico certamente nel suo genere.