I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Il Re dei Re

Il Re dei Re

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Il piccolo guerriero del Transwaal L'eroe di Karthum (racconto storico)

IL RE DEI RE


Teodoro, l'imperatore dell'Abissinia, che si faceva pomposamente chiamare il Re dei Re e che si credeva, nella sua profonda ignoranza, il più possente Monarca della terra, aveva deciso di romperla con tutte le nazioni d'Europa che avevano mandato nei suoi Stati dei laboriosi trafficanti per avviare commerci con quella barbara nazione, e anche parecchi missionari, incaricati di far conoscere a quei popoli la vera religione cristiana.

All'annunzio che re Teodoro voleva sfidare tutte le potenze europee e sterminare tutti gli stranieri che avevano posto residenza nel suo Impero, come potete immaginarvi, un profondo terrore si era impadronito di tutti quei disgraziati, che si credevano già nelle mani dei sanguinari e ferocissimi carnefici del temuto Imperatore.

Già conoscevano per esperienza la crudeltà di re Teodoro. Quel barbaro sanguinario, che si ubriacava da mane a sera e che si divertiva a massacrare i suoi sudditi, aveva trasformato il suo regno quasi in un cimitero.

Per capricci o per semplici sospetti creati dalla sua fantasia esaltata, aveva fatto mutilare più di cinquantamila persone, facendo troncare loro, secondo l'uso del paese, le mani e le gambe e cicatrizzare le orrende ferite nell'olio bollente, e privare del naso altrettante, perché avevano osato fiutare tabacco contro la sua proibizione.

I villaggi arsi insieme coi loro abitanti, erano poi stati tanti e tanti, che intiere province non avevano più una sola capanna e nessuna famiglia.

Gli europei, atterriti, si erano dati a fuga precipitosa, sperando di giungere sulle rive del mare, dove alcune navi inglesi erano state già mandate per raccoglierli. Uno solo, però, s'era rifiutato di seguirli, preferendo sfidare l'ira del terribile Imperatore.

Era quello un giovane abate napoletano, Gennaro Argelli, il quale, invaso da santo zelo, si era recato in Abissinia a predicare la religione cristiana cattolica, facendo in breve tempo numerosi proseliti.

Di famiglia ricca, aveva fatto innalzare a sue spese un bel villaggio, formato da una ventina di comode e solide capanne, dove aveva raccolto più di cinquanta fanciulli orfani, i cui genitori erano stati fatti massacrare dal sanguinario Imperatore, in uno dei suoi frequenti accessi di follia.

Il giovane abate, a malgrado l'ordine ricevuto dal vescovo cattolico di Axum di mettersi subito in salvo e di riparare sulle spiagge del Mar Rosso o a Massaua, che allora era possesso egiziano, aveva semplicemente risposto:

– Non abbandono i miei figli alla rabbia dell'Imperatore. O li salverò tutti o morrò con loro!

Ed era rimasto coi suoi cinquanta fanciulli, che lo amavano più che se fosse un padre, fermamente deciso a salvarli ed a proteggerli con tutte le sue forze, per niente atterrito dalla tempesta sterminatrice che ruggiva su tutta l'Abissinia.

Teodoro, apprendendo dai suoi cortigiani che quel giovane abate non aveva voluto approfittare delle ventiquattr'ore concesse a tutti gli stranieri per raggiungere le frontiere del suo Impero, dapprima era rimasto sorpreso e anche impressionato dall'eroismo dell'abate. Un tempo l'Imperatore era stato un valorosissimo guerriero ed aveva ancora dell'ammirazione per gli audaci; ma poi l'ira che turbava senza posa il suo animo perverso, era scoppiata.

Nel rifiuto dell'abate credeva di vedere una sfida alla sua sconfinata potenza, e diede subito l'ordine di tradurgli dinanzi, vivo o morto, l'audace che osava disobbedirgli.

Un degiasmac,1 noto per la sua crudeltà, partì alla volta del villaggio, accompagnato da una diecina di guerrieri bene armati, forza più che bastante per arrestare quel poveretto, il quale, d'altronde, non poteva opporre la minima resistenza, non essendovi dieci ragazzi che avessero raggiunto una certa età da poterlo difendere.

Il degiasmac, giunto sul far del giorno al villaggio, chiamò l'abate e per prima cosa gli fece col lembo della tonaca un nodo, ciò che voleva significare che da quel momento era prigioniero dell'Imperatore.

Il napoletano, quantunque si aspettasse quella visita, impallidì e gettò un lungo sguardo di disperazione sui suoi fanciulli, che se ne stavano impauriti e silenziosi a breve distanza.

– L'Imperatore e Re dei Re ti aspetta – disse il degiasmac. – Seguimi senza opporre resistenza, avendo io l'ordine espresso di condurti dinanzi a lui, o vivo o morto.

– Ti seguo – rispose l'abate con rassegnazione. – Io, però, devo affidare a qualcuno questi fanciulli, che appartengono alla tua razza e non già alla mia e che pure amo come fossero miei figli. Senza di me che cosa accadrebbe di loro? Chi li curerebbe e li fornirebbe di nutrimento?

– Ciò non mi riguarda – rispose brutalmente l'abissino. – Ne sono morti tanti, e cinquanta più e cinquanta meno, non sarà lo spopolamento del regno.

– Lascia almeno qui un paio delle tue guardie, onde s'occupino di questi miseri e guardino i magazzini delle provviste.

– Te lo concedo – rispose il degiasmac, premuroso di finirla. – Se le mie guardie mangeranno e vuoteranno quanto hai di meglio, peggio per te.

Invitò a salire il missionario su un mulo e lo fece partire immediatamente, respingendo a frustate i fanciulli che avevano circondato don Gennaro, gridando e singhiozzando.

Dopo quattr'ore di marcia faticosissima tra aspri sentieri, su cui solo i muletti abissini potevano inerpicarsi, il drappello entrava in Magdala, la residenza di re Teodoro.

Era un vero nido d'aquila, dove il possente Monarca si riteneva sicuro contro tutti. Sorgeva sulla cima d'una montagna difesa da orrendi precipizi, entro i quali il barbaro aveva fatto più volte precipitare centinaia e centinaia di prigionieri e di ribelli che avevano cercato di scuotere, a più riprese, quel giogo sanguinario. Re Teodoro aspettava il missionario nel cortile del suo palazzo, seduto su un ampio cuscino di seta rossa e circondato dai suoi sei leoni ammaestrati, che l'obbedivano come cagnolini.

Quella giornata, per un caso eccezionale, non era ubriaco e pareva di buon umore.

Gennaro Argelli, un po' pallido, ma pure tranquillo e risoluto entrò nel cortile, deciso a perorare la causa dei suoi orfani. Aveva già veduto altre volte il Monarca, il quale, anzi, non gli s'era dimostrato nemico.

Aveva però appena messo i piedi nello spazioso cortile, tutto cinto da immense capanne, quando vide venirsi innanzi uno dei sei leoni del re, il più enorme e anche il più affezionato al padrone.

L'abate s'era fermato un po' spaventato, credendo in buona fede che la sua ultima ora fosse suonata.

Aveva udito raccontare che Teodoro aveva fatto sbranare più volte i suoi nemici e non dubitava che il tiranno lo avesse chiamato per fargli subire egual sorte.

Il leone, giunto dinanzi all'abate, aprì la sua enorme bocca, mandando fuori un rauco ruggito, che fece tremare tutte le tettoie e rabbrividire i cortigiani del re, poi si alzò sulle zampe di dietro e appoggiò quelle anteriori sulle spalle del giovane missionario, sbadigliandogli in faccia.

Gennaro Argelli, impietrito dal terrore, non osava più fiatare. In cuor suo pregava perché la morte fosse almeno rapida.

Un profondo silenzio regnava fra i cortigiani e le guardie, tutti ignorando le intenzioni del crudele tiranno.

Ad un tratto, questi mandò un leggero fischio. Il leone era subito ricaduto a terra, frustandosi mollemente i fianchi con la coda, ed era tornato presso il Re dei Re, adagiandosi ai suoi piedi.

Il missionario, che aveva sopportato quella tremenda prova senza mandare un grido, vedendo la via sgombra, s'avanzò verso Teodoro e gli si fermò a tre passi di distanza, come esigeva l'etichetta di corte, facendo un profondo inchino e dicendo con voce ferma:

– Salve al Re dei Re!

Il tiranno si degnò di rispondere con un sorriso ed un leggero cenno del capo, poi, alzandosi bruscamente, gli chiese:

– Perché, frangi2 non sei partito al pari degli altri ed hai osato disobbedirmi? Sai che io ero stanco di voi, tonache nere, e che già avevo decretato la vostra morte?

– Io non ho avuto alcuna intenzione di disobbedire al Re dei Re, – rispose il giovane missionario, – e sarei partito assieme agli altri, se avessi trovato qualcuno che s'incaricasse dei miei cinquanta orfani. Se io li avessi abbandonati, che cosa sarebbe accaduto di loro, che sono ancora così piccini e che non hanno più parenti?

– Gli orfani che tu hai raccolti sono figli di traditori che io ho puniti con la morte, e vorrei vedere morti anche loro. Sono piccole vipere che un giorno diverranno serpi, e che trameranno contro di me al pari dei loro genitori.

– T'inganni, Re dei Re: essi sono dei piccoli innocenti, che non hanno colpa veruna dei delitti veri o supposti commessi dai loro genitori – rispose il bravo missionario con voce ferma e che suonava come un rimprovero contro il crudele Monarca.

– Sono miei sudditi e sta a me giudicarli e non a te, frangi, – disse il re con ira mal repressa, – e non intendo che tu ti prenda cura di loro. Ringrazia Iddio che mi hai trovato in un momento di buon umore diversamente ti avrei fatto morire sotto il bastone, come un cane di schiavo. Non intendo con ciò lasciarti andare libero. Ritornerai al tuo villaggio e là aspetterai i miei ordini.

– Io sono un europeo e sono sotto la protezione delle nazioni civili. Pensaci, Re dei Re, e non esporti ai pericoli d'una invasione.

– Io me ne rido delle potenze d'Europa! – rispose Teodoro. – Sono troppo lontane per venire fino a Magdala.

E, facendo un gesto imperioso, lo congedò.

Il missionario uscì dal cortile del palazzo reale, non osando affrontare di più la collera di quel Monarca, che si arrogava il diritto di vita e di morte su tutti i sudditi, e anche sugli stranieri residenti nel suo regno.

Fu fatto risalire sul muletto, quantunque la notte fosse già calata, e otto guerrieri col degiasmac gli si misero alle calcagna per tema che prendesse la via che conduceva al Mar Rosso, anziché quella del villaggio.

Il povero abate non era però tranquillo e non si fidava punto della magnanimità del Monarca, che aveva già alcune settimane prima fatto uccidere alcuni missionari inglesi a colpi di bastone sul ventre ed un gran numero di sacerdoti abissini.

Marciavano da un paio di ore, scendendo gli scoscesi sentieri dall'altopiano di Talanta, quando un lontano bagliore lo colpì.

Pareva che un villaggio ardesse nella tenebrosa pianura.

– Che cos'è che brucia? – chiese al degiasmac, che gli cavalcava a fianco.

– Che ne so io! – rispose l'abissino con un crudele sorriso. – Lo sapremo quando saremo giunti nella pianura. E poi è una cosa così comune l'incendio d'un villaggio!

Continuarono il cammino, e di passo in passo che s'avanzavano, le inquietitudini di padre Gennaro aumentavano sempre e si facevano atroci, perché gli pareva che quelle lingue di fuoco s'alzassero precisamente là dove si trovava il villaggio che ospitava i suoi miseri orfanelli.

Interrogò novamente il degiasmac, e questi non rispondeva che con una alzata di spalle.

A mezzanotte il drappello giungeva al villaggio. Un grido d'orrore sfuggì dalle labbra del povero missionario.

Tutte le capanne e le tettoie erano ridotte in cenere ed i piccoli abitanti erano scomparsi.

– Ecco che cosa ti serbava il Re dei Re – disse il degiasmac, sghignazzando. – Così un'altra volta imparerai a disobbedirlo.

– I miei fanciulli! Rendetemi almeno quei piccoli innocenti! – gridò l'abate, singhiozzando.

– Vatteli a cercare, se ve ne sarà ancora qualcuno vivo!

– Infami! Siete peggiori delle tigri!

Il degiasmac scrollò le spalle e se andò, dicendo:

– Ti avverto che se esci dal territorio della tua missione, i guerrieri, incaricati di sorvegliarti, hanno l'ordine di far fuoco su di te. Addio, frangi, e sta' sano.

Il missionario, schiacciato dal dolore, si era lasciato cadere al suolo, presso un avanzo di capanne, piangendo lungamente, mentre gli abissini si allontanavano, ridendo e schiamazzando.

Tutta la notte il disgraziato abate pianse e pregò, e quando l'alba sorse, egli si trovava al medesimo posto.

Con uno sforzo supremo s'alzò per visitare le rovine della missione, sperando di trovare fra le ceneri gli avanzi dei suoi adorati fanciulli, giacché le crudeli parole del degiasmac non gli avevano lasciato più alcun dubbio sulla sventurata fine di quei piccoli innocenti!

Del villaggio, un giorno così fiorente, non rimanevano che pochi avanzi di case, sfuggite chi sa come alle fiamme.

Delle immense tettoie che servivano di magazzini e che erano piene di duràh3 non vi era più nulla. Dovevano essere state prima saccheggiate per ordine dell'Imperatore e poi distrutte completamente per nascondere quel furto codardo, indegno d'un così potente e ricco Monarca.

Aveva frugato fra le ceneri a più riprese senza nulla trovare che potesse confermargli la strage di quei cinquanta fanciulli, quando scoperse, rannicchiato sotto il tetto semiconsunto d'una capanna, un ragazzino di dodici anni, che passava per uno dei più furbi e dei più intelligenti della sua scuola.

– Fazi! – esclamò con gioia il povero abate. – Come sei sfuggito all'incendio?

– Padre! – gridò il piccolo abissino, saltando in piedi con un'agilità da gazzella. – Ero certo che tu saresti tornato e non ho voluto abbandonare il villaggio.

– E gli altri? Dove sono? – chiese Gennaro Argelli con angoscia. – Tutti bruciati?

– No, padre – rispose il fanciullo. – I due soldati, lasciati dal degiasmac e che avevano ricevuto l'ordine di bruciare il villaggio e uccidere tutti noi, impietositi dai lamenti, li hanno fatti fuggire e ricoverare in un altro villaggio. Sono tutti al sicuro.

Il missionario benedì in cuor suo quei due soldati che avevano osato, al pari di lui, disobbedire al crudele Monarca, a rischio di perder la testa o per lo meno le mani ed i piedi.

– Vi sono ancora dei cuori magnanimi in questo disgraziato paese! – mormorò. – Mi ricorderò un giorno di quei due bravi.

– Padre, – disse il fanciullo, – andiamo a quel villaggio dove i tuoi figli ti aspettano. Qui non c'è più nulla da mangiare, né una casa ove ricoverarci.

– M'è proibito di lasciare questo luogo senza ordine dell'Imperatore – rispose il missionario, con un sospiro. – Se lo tentassi, sarebbe la morte per me e anche per te, e forse anche quella dei tuoi compagni. Obbediamo e rassegniamoci. Dio provvederà a noi di che vivere.

Aiutato dal fanciullo, che era svelto e anche abbastanza robusto, cogli avanzi delle capanne improvvisò un meschino abituro; poi, frugando qua e là, riuscirono a raccogliere un po' di duràh, sfuggita ai saccheggiatori e che poteva bastare loro, con grande economia, per qualche settimana.

Sui confini della missione, una ventina di guerrieri vegliavano attentamente, onde il missionario non lasciasse la sua residenza; ma quei crudeli, temendo anche le vendette del Monarca, si guardavano bene dal provvederlo di viveri.

La settimana passò senza che ricevessero alcun ordine da parte di Teodoro e la magra provvista fu esaurita.

Il piccolo Fazi non si perdette d'animo. Ogni notte quel furbetto, approfittando delle tenebre e della poca sorveglianza degli abissini, varcava il confine della missione e si recava nei villaggi vicini a chiedere un po' di duràh e delle focacce pel missionario, e non tornava mai con le mani vuote.

I contadini, che avevano imparato ad apprezzare l'opera caritatevole di quel bravo missionario, non si facevano pregare per fornire al piccolo Fazi qualche cosa, quantunque la carestia travagliasse il paese.

E con le provviste recava anche di frequente delle preziose notizie.

Il missionario aveva così appreso che l'Inghilterra, stanca delle crudeltà di Teodoro, gli aveva mosso guerra e che un grosso corpo di truppe anglo-indiane, sotto il comando del generale sir Roberto Napier, era sbarcato a Zeila e che muoveva, a grandi marce, verso Magdala per liberare parecchi sudditi inglesi, che erano ricaduti nelle mani degli abissini prima che avessero potuto salvarsi sulle rive del Mar Rosso.

Erano già trascorse quattro settimane, quando una notte Fazi recò la notizia che le avanguardie inglesi erano state vedute nella pianura e che re Teodoro, abbandonato da quasi tutti i suoi partigiani, si era rinchiuso in Magdala per tentare l'ultima resistenza.

Il domani il degiasmac compariva alla missione, accompagnato da un piccolo gruppo di cavalieri laceri e coperti di ferite e di polvere.

Frangi – disse l'abissino, mostrandosi all'abate. – L'Imperatore desidera vederti.

– Che cosa vuole da me? – chiese il missionario.

– Affidarti una missione importante, – rispose il degiasmac, – gl'inglesi sono già qui e se non riusciamo a schiacciarli nelle gole di Talanta, l'Imperatore è perduto.

– Io non posso arrestare i decreti di Dio.

– Monta questo mulo e vieni, se non vuoi che io ti accarezzi le spalle con la mia lancia. L'Imperatore non aspetta i comodi degli altri.

Costrinse l'abate a salire su un muletto ed il drappello partì, dirigendosi verso l'altopiano.

Mentre salivano gli aspri sentieri della montagna, il missionario poté scorgere nella sottostante pianura parecchi accampamenti, disposti in modo da circondare interamente il gruppo montuoso del Talanta.

Erano i campi delle truppe anglo-indiane, le quali, dopo una lunga e difficilissima marcia, erano riuscite a penetrare fino nel cuore dell'Abissinia, respingendo ovunque vittoriosamente le orde del Re dei Re.

Quando il missionario e la scorta giunsero a Magdala, una viva confusione regnava nella rocca. Si vedeva che tutti i soldati del Monarca erano sgomentati per la vicinanza dei nemici che avevano creduto incapaci di giungere a così grande distanza dalle rive del Mar Rosso e di poter schiacciare facilmente nelle gole profonde delle montagne abissine.

Si preparavano però alla resistenza e si vedevano collocare sulle mura le poche artiglierie possedute dal re: alcune vecchie bocche da fuoco che non potevano gareggiare con quelle moderne e di lunga portata degli inglesi.

Re Teodoro aspettava l'abate in una delle sue vaste tettoie, che servivano ad un tempo da sala da pranzo, da consiglio e da scuderie pei suoi cavalli di battaglia.

Era eccitatissimo e passeggiava gesticolando come un pazzo, pronunziando orribili minacce contro gli europei.

– Giacché non sei ancora morto, – disse al missionario, – ti voglio incaricare d'una missione per sir Napier, il comandante delle truppe anglo-indiane.

– Che cosa devo fare, Re dei Re? – chiese don Gennaro.

– Tu, come abate, devi avere qualche influenza sul generalissimo, che è cristiano come te, e non dubito che verrai ascoltato.

– Non sono che un povero missionario.

– Ti recherai dal generalissimo e gli dirai che non tenti di assalire Magdala se non vuole correre incontro a certa rovina, ché qui noi siamo più numerosi di quello che crede e risoluti a resistere fino all'ultimo. Se tu riesci a dissuaderlo dall'assalirmi ed a spaventarlo, ti prometto di rifarti a mie spese il villaggio e di restituirti tutti i beni che ti ho confiscati.

Il missionario scosse il capo.

– Io non posso assumermi una simile responsabilità – disse con voce ferma. – Tutto quello che posso fare è di consigliarlo a essere clemente verso i vinti.

– Tu andrai! – urlò Teodoro con furore. – E mi giurerai sulla croce e su Dio che poi tornerai qui, qualunque possa essere l'esito della tua missione.

Si levò dalla cintura una pistola e la puntò sulla fronte del missionario.

– Giura sulla croce che tornerai, o faccio fuoco!

– Lo giuro! – rispose l'abate.

– Ora va'.

Un altro mulo, riccamente bardato, aspettava il missionario con un'altra scorta di cavalieri, i quali portavano sulle lance degli stracci bianchi per avvertire le avanguardie inglesi che si recavano ai loro campi come parlamentari e non già come nemici.

A mezzodì padre Gennaro veniva condotto nella tenda di sir Roberto Napier, il generalissimo dell'esercito anglo-indiano.

Fu vivissima la sorpresa dell'inglese, il quale aveva creduto che il missionario fosse stato già da lungo tempo ucciso, come avevano già supposto gli altri abati, che erano riusciti a sottrarsi in tempo alle furie del crudele Monarca.

Il missionario gli espose lo scopo della sua visita impostagli da Teodoro; ma si guardò bene dal dire quanto gli era stato suggerito, anzi gli disse francamente che Magdala era quasi sfornita di truppe, che gli abissini erano scoraggiati e che se voleva salvare i prigionieri europei, che erano stati catturati prima di giungere sulle rive del Mar Rosso, doveva affrettare l'assalto della rocca.

Quando però sir Roberto Napier fu informato che doveva tornare, avendolo solennemente giurato sulla croce, tentò ogni mezzo per distorglielo.

– Se voi tornate, quel crudele vi ucciderà, abate – gli disse. – Infrangete il giuramento e rimanete nel mio campo.

– Un missionario non può mancare ad una siffatta promessa, generale – rispose l'eroico abate. – Qualunque cosa accada, io tornerò.

Furono vani tutti gli sforzi del generale. Mezz'ora dopo Gennaro Argelli riprendeva la strada dei monti, con la scorta abissina.

Sir Roberto Napier però, profondamente colpito dall'eroismo del giovane abate, si era giurato di salvarlo a qualunque costo.

La scorta abissina era appena scomparsa, che faceva suonare a raccolta e disponeva le sue truppe per l'assalto della rocca.

I reggimenti anglo-indiani lasciarono i loro accampamenti e si spinsero audacemente su per gli scabri sentieri, mentre le loro artiglierie, già collocate in ottime posizioni, aprivano un fuoco violentissimo contro le mura per aprire delle brecce.

Alle cinque i primi reggimenti giungevano sotto le mura, dopo d'aver respinto alcune cariche della cavalleria abissina, e si slanciavano all'attacco della rocca, nonostante il fuoco dei falconetti nemici.

Una vasta breccia era stata aperta nelle muraglie dai colpi ben aggiustati dell'artiglieria e alle sei le colonne anglo-indiane facevano irruzione in Magdala dopo d'aver disperso i difensori.

Erano appena entrati, quando udirono da tutti le parti gridare:

– Il re è morto!

Era vero. Teodoro, vedendo apparire i primi inglesi e non volendo cadere vivo nelle mani dei nemici, si era scaricato in bocca un colpo di pistola ed era caduto al suolo fulminato.

Il tiranno, che aveva insanguinato l'Abissinia per tanti anni, si era fatto giustizia da se stesso.

Sir Napier fece subito cercare l'abate, che fu trovato ancor vivo, nel cortile del palazzo reale, vivo per puro miracolo, perché Teodoro, prima di morire, aveva dato ordine che lo gettassero in pasto ai leoni.

Solo il fulmineo assalto degl'inglesi lo aveva salvato, impedendo ai sicari di Teodoro di gettarlo alle fiere.

Padre Gennaro poté ritrovare i suoi fanciulli, aiutato dagl'inglesi, e rifondare il suo villaggio, che diventò poi uno dei più ammirati dell'Abissinia e che per molti anni prosperò fino a che il successore di Teodoro, re Giovanni, decretò l'espulsione di tutti i missionari europei dai suoi Stati.

Tuttavia in Abissinia si ricorda ancora, con profonda venerazione, l'eroico abate, che fu chiamato il padre delle vittime di Teodoro.


Note

  1. Lo stesso che colonnello.
  2. Europeo.
  3. Specie di frumento.