I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/I pirati del Riff

I pirati del Riff

../Il re di Tikuno ../Un'avventura nel Gange IncludiIntestazione 10 marzo 2018 75% Da definire

Il re di Tikuno Un'avventura nel Gange

I PIRATI DEL RIFF


Si crede che la pirateria sia ormai completamente cessata negli antichi Stati barbareschi bagnati dalle acque dell'azzurro Mediterraneo, ma ciò non è veramente esatto.

È bensì vero che al giorno di oggi a Tripoli, a Tunisi, nell'Algeria e nel Marocco non si armano più quelle formidabili galere che, dal 1400 al 1800, fecero tremare tutti gli stati cristiani del Mediterraneo, con le loro audaci e fulminee corse, saccheggiando le piccole città costiere e portando via un gran numero di persone destinate alla più crudele schiavitù.

Le marine della Spagna, della Francia, dell'Italia e dell'Austria sono diventate ormai così potenti da mettere facilmente a posto, e, senza troppa fatica, gli antichi pirati barbareschi; tuttavia di quando in quando quegli audaci predoni del mare tentano qualche impresa a danno dei poveri bastimenti a vela, che vengono sorpresi da qualche calma presso quelle pericolose coste.

È il Riff che mette anche oggidì una certa angoscia negli animi de' marinai del Mediterraneo. Quando i venti spingono verso quelle spiagge i navigli è necessario aprire ben bene gli occhi e tenere le armi pronte se ve ne sono a bordo.

Quella località si trova fra i confini del Marocco e dell'Algeria ed è costituita da alcune catene di montagne che scendono gradatamente verso il mare, montagne più aspre di quelle dell'Atlante, con picchi quasi inaccessibili, burroni profondissimi e selve intricatissime dove è facile a smarrirsi.

Gli uomini che le abitano sono i più bellicosi ed i più indomiti che esistano nel Marocco.

Tutti alti, ben fatti, robustissimi, con capelli biondi ed occhi azzurri, la pelle quasi bianca; non hanno insomma quasi nulla di comune con gli altri mori del Marocco e dell'Algeria, che hanno invece capelli corti, ricciuti e neri, occhi che sembrano carbonchi e la tinta assai bruna, anzi talvolta quasi fuligginosa.

Sempre in lotta contro i soldati marocchini, sempre col fucile in mano, pronti a difendere valorosamente le loro montagne, non sono mai stati soggiogati e se ne ridono tanto del Sultano quanto delle Nazioni europee.

Si occupano dell'allevamento del bestiame; ma preferiscono fare i briganti e soprattutto i pirati, e guai a quella disgraziata nave che i venti contrari o le correnti spingono sulle loro selvagge coste!

Scendono dalle montagne come uno stormo di uccelli di rapina e, siccome tengono le barche nascoste entro i loro profondi golfi, muovono audacemente all'assalto del veliero e guai chi resiste! Legano i marinai alle ancore e li colano a fondo, vivi, lasciandoli divorare dai pescicani che non mancano, disgraziatamente, nelle loro acque.

Ciò premesso vi narrerò ora la storia avvenuta ad una nave maltese, che io ho appresa dalla bocca d'un marinaio che si trovava imbarcato su quel malaugurato veliero e che vide la morte molto da presso ed i rifani molto più da vicino.

Quella nave si chiamava la Calipso e faceva i viaggi da Malta a Lisbona, la capitale del Portogallo, dove andava usualmente ad imbarcare quell'eccellente vino chiamato Porto, che piace tanto agl'inglesi, forse anzi più della birra doppia di New-Castle.

Era un bel brick, di circa settecento tonnellate, montato da un capitano abilissimo e anche molto audace e da quattordici marinai, fra i quali alcuni erano genovesi.

Aveva già fatto più di quattordici viaggi senza che alcunché di straordinario fosse accaduto a quei bravi figli del mare, quando al quindicesimo la Calipso fu sorpresa, presso le coste marocchine, da una di quelle tempeste che fanno drizzare i capelli anche ai più vecchi lupi di mare abituati da lunga pezza alle libecciate furiose e alle sciroccate irresistibili del Mediterraneo.

Nonostante tutte le manovre tentate dall'equipaggio, il brick fu trascinato, o meglio spinto, verso le coste del Riff e alla mezzanotte, dopo dieci ore di lotta, dava dentro ad un banco di sabbia e con tale violenza da togliere ogni speranza di poterlo rimettere in acqua.

Il colpo era stato poi così violento che l'intera alberatura cadde sul ponte con immenso fracasso e fu un vero miracolo se non storpiò od uccise quei disgraziati marinai.

Tutta la notte le onde assalirono con furore il legno, tentando di demolirlo e di spazzar via l'equipaggio; ma poco dopo il sorgere del sole, essendo il vento quasi improvvisamente cessato, successe una calma relativa.

Il capitano, dopo d'aver fatto una visita minuziosa e d'aver constatato che lo scafo era in ottimo stato e che pel momento nessun pericolo li minacciava, diede il permesso ai suoi marinai di prendere qualche ora di riposo, non potendosi più reggere in piedi dopo una notte così terribile e dopo tante fatiche.

Si era ritirato nella sua cabina per dormire un po', quando l'uomo di guardia, lasciato sul cassero, scese precipitosamente nel quadro di poppa, gridando:

– In piedi, signore! I marocchini vengono!

– I rifani forse? – chiese il capitano sgomentato, balzando giù dal lettuccio.

– Non so veramente chi siano, – rispose il marinaio, – degli europei no di certo, perché hanno mantelloni bianchi e anche fucili dalla canna lunghissima.

Il capitano, che sapeva dove la nave era naufragata e che conosceva l'audacia dei rifani, salì subito in coperta e vide quattro grosse scialuppe montate ognuna da una ventina d'uomini, dirigersi a forza di remi verso il banco.

Gli bastò una sola occhiata per sapere con quali persone aveva da fare. Si trattava appunto di quei terribili predatori della costa marocchina, non meno pericolosi di quelli delle isole malesi.

– Sono rifani – disse il capitano, che era diventato pallidissimo. – Quei bricconi vengono per saccheggiare la nostra nave e farci prigionieri. Chiama tutti gli uomini in coperta.

I marinai, avvertiti del pericolo che li minacciava, si erano affrettati a salire sul ponte e, lì per lì, tennero consiglio sul da farsi. I più giovani propendevano per la lotta; i più vecchi per la resa, tanto più che a bordo del brick non vi erano che tre carabine e qualche rivoltella, mentre gli assalitori potevano disporre di ottanta fucili e di altrettante pistole.

– Ragazzi miei, rassegniamoci al nostro destino – disse il capitano. – Se tentiamo di opporre resistenza quelle canaglie ci ammazzeranno tutti e senza troppa fatica. D'altronde vedremo quali pretese avranno.

Le quattro barche, che avevano un buon numero di remiganti, in capo ad un quarto d'ora, giunsero presso la nave ed il capo dei pirati, un vecchio di alta statura, con una lunga barba bianca ed un enorme turbante in testa, si mise a gridare con tono minaccioso, mentre i suoi uomini armavano i loro lunghi fucili a pietra focaia:

– Chi è di voi il capitano? Rispondete o cominciamo subito il fuoco!

Il capitano, che conosceva molto bene la lingua araba, si curvò sulla murata del cassero, dicendo:

– Sono io. Che cosa vuoi tu, vecchio tabib?

– Che vi arrendiate senza opporre resistenza – rispose il capo.

– Ma noi non siamo tuoi nemici. Siamo poveri marinai che la tempesta ha spinti su questo banco di sabbia e che non abbiamo mai fatto male alle genti del Riff.

– Siete cristiani e per noi, maomettani, basta per considerarvi nostri avversari – disse il vecchio, levandosi dalla larga fascia una scimitarra lucentissima ed una pistola.

– Vuoi la nostra nave? Prendila pure con tutto quello che contiene, purché tu ci lasci andare liberi a Tangeri.

Il capo scoppiò in una risata e riprese:

– Mi credi uno stupido, cristiano? È voi che voglio perché valete un bel numero di zecchini che il vostro governo pagherà se vi vorrà liberi. Basta! Arrendetevi e non opponete resistenza, se vi preme salvare le vostre teste.

Tentare di respingere quegli audaci bricconi, che sembravano risoluti a coprire il ponte della nave con una tempesta di proiettili, sarebbe stata follia, sicché il capitano comandò:

– Ragazzi, abbassate la scala e facciamo buon viso alla mala fortuna. Spero che il nostro governo non ci lascerà assassinare e che nel caso ci vendicherà. L'Inghilterra protegge i suoi sudditi.

L'ordine fu subito eseguito ed i rifani salirono sulla nave, tenendo sempre un dito sul grilletto dei loro fucili per paura di qualche tradimento.

Appena furono sulla tolda, legarono i marinai e li condussero sul cassero, minacciando di fucilarli all'istante se avessero fatto il menomo atto di ribellione, poi il capo disse al capitano:

– Ora lasciaci saccheggiare la nave. Tutto quello che contiene è di nostra proprietà!

– Tu sei un ladro – gli gridò il capitano, furibondo.

– È buona presa – rispose il rifano, ridendo. – Noi siamo amici del mare e preghiamo perché spinga sulle nostre coste le navi.

– Il mio governo più tardi ti punirà di questo atto di pirateria.

– Si provi a mandare i suoi soldati sulle nostre montagne, se l'osa!

– Infine, che cosa pretendi pel nostro riscatto?

– Centomila pesetas.

– Nessuno ti pagherà una simile somma – disse il capitano.

Il rifano sogghignò come una jena dell'Atlante, poi soggiunse:

– Vedremo che cosa penserà il vostro console di Tangeri quando gli manderò un paio d'orecchi e poi qualche testa di suddito inglese.

– Tu sei un miserabile!

Il capo alzò le spalle e gli volse il dorso, scendendo sulla tolda.

Il saccheggio della nave era cominciato da parte dei pirati del Riff. Altre cinque grosse barche avevano portato a bordo del brick una cinquantina di montanari e tutti andavano a gara nel fracassare le casse dell'equipaggio e nel calare la mobilia nel quadro di carico della stiva e quanto altro si trovava sulla disgraziata nave.

I marinai, frementi di rabbia, ma impotenti, si sfogavano con varie imprecazioni che non facevano alcun effetto sui predoni, i quali continuavano indisturbati il saccheggio.

Verso il tramonto imbarcarono i prigionieri e, con le minacce e le pistole in pugno, li obbligarono a stendersi sui banchi ed a rimanere immobili.

Un'ora dopo li sbarcavano sulla spiaggia e messili in catena li trassero sui monti, facendoli avanzare sotto foreste foltissime, che pareva non dovessero avere più fine.

Tutta la notte i disgraziati furono obbligati a marciare, nonostante le loro proteste, e all'alba giungevano in un villaggio formato da una cinquantina di tende molto ampie, circondate da alte palizzate, e difese da enormi blocchi di pietra, accumulati con una certa arte.

Furono introdotti in una cinta assai robusta e per colazione fu dato loro un po' di miglio cotto e alcune brocche d'acqua, che non furono sufficienti a sfamarli e nemmeno a dissetarli.

Dieci uomini armati di fucili si collocarono all'esterno, pronti ad impedire qualsiasi tentativo di fuga.

Erano trascorsi tre giorni molto angosciosi pei disgraziati prigionieri, quando la mattina del quarto videro entrare nella cinta il capo con due occhi che avevano lampi minacciosi e la fronte aggrottata.

– Cani di cristiani, – disse, mettendo le mani sulle sue pistole che portava alla cintura, – il vostro console non ha ancora risposto ed è necessario che io mandi a quel birbante un paio d'orecchi.

– Sei tu un birbante – rispose arditamente il capitano, che non ne poteva più della tracotanza sfacciata di quel ladrone. – Il nostro console non è un mascalzone pari tuo e rispetta le persone sventurate, siano mussulmani o cristiani o buddisti.

– Egli non ha ancora risposto alla mia lettera e quello che è peggio non mi ha mandato le centomila pesetas che io gli avevo fatto chiedere pel vostro riscatto.

– Ti ha trattato come meriti – risposero i marinai in coro.

– Ma io manderò a lui prima le vostre orecchie e poi le vostre teste, se si ostina a rimanere muto – rispose il capo inferocito. – Noi siamo del Riff e facciamo tremare anche il Sultano del Marocco. Se per domani mattina i denari non saranno qui, per la barba di Maometto, vi taglio gli orecchi!

I marinai, spaventati da quella minaccia, non osarono d'irritarlo di più, temendo che quel birbante mettesse in esecuzione la minaccia.

– A domani – disse il capo con voce furente. – Manderò al vostro console una mezza dozzina di orecchi.

Il capitano, che conosceva molto bene quei banditi e che sapeva di quanto erano capaci, appena il terribile vecchio fu uscito, chiamò intorno a sé i suoi disgraziati compagni e, dopo essersi assicurato che nessuno poteva udirlo, disse:

– Ragazzi, qui si tratta di tentare un colpo di testa. Se il console non ha ancora risposto, vuol dire che non desidera occuparsi di noi o che fa delle pratiche verso il governo marocchino per allestire una spedizione armata. In tutti e due i casi io ho la convinzione che questi ladroni non ci lasceranno addosso la pelle, se noi non pensiamo a metterla in salvo.

– Che cosa dobbiamo fare, capitano? – disse il mastro dell'equipaggio.

– Noi siamo pronti e decisi a tutto – disse un marinaio. – Non abbiamo alcun desiderio di lasciare qui le nostre teste e nemmeno le nostre orecchie.

– Vi propongo di fuggire – rispose il capitano. – Noi siamo abbastanza abili per superare questa cinta e poi ho già osservato che i nostri guardiani, nella notte, s'addormentano attorno ai fuochi. Aiutiamoci e tentiamo la sorte.

– Approvato, capitano – risposero in coro i marinai.

Calata la sera finsero di addormentarsi sui loro letti di foglie secche e attesero pazientemente il momento di andarsene.

Il capitano, che ronzava silenziosamente dietro le palizzate, vide i guardiani accendere i fuochi, cenare allegramente e dopo poche chiacchiere coricarsi attorno ai falò, avvolti nei loro mantelloni, essendo le notti piuttosto fredde su quelle alte montagne.

Intorno alla mezzanotte, vedendoli addormentati e udendoli russare, chiamò i suoi marinai, dicendo loro sottovoce:

– Ragazzi, è il momento di agire. Non fate rumore perché ci vanno di mezzo le nostre teste.

– Siamo preparati a tutto – risposero in coro quei poveri diavoli.

I più robusti si collocarono dietro la palizzata ed i più agili salirono sulle loro spalle per raggiungere l'orlo superiore della cinta, ed il più lesto si mise a cavalcioni per aiutare i compagni.

Aveva allungato le braccia per tirare su il più vicino, quando si sentì improvvisamente afferrare per una gamba e precipitare dall'altra parte della palizzata, mentre una vociaccia rauca urlava a squarciagola:

– All'armi! I prigionieri fuggono!

In un baleno i rifani, che sonnecchiavano attorno ai fuochi, furono in piedi, gridando, bestemmiando e sparando all'impazzata colpi di fucile, a rischio d'ammazzarsi reciprocamente.

I marinai s'erano affrettati a balzare a terra per non venire sorpresi gli uni sopra gli altri, mentre il loro disgraziato compagno, ancora intontito dal capitombolo, veniva trascinato presso i fuochi da due guardiani colossali, che agitavano sopra di lui larghe scimitarre come se volessero decapitarlo.

Il capo, svegliato da quel baccano, era uscito precipitosamente dalla sua tenda, seguìto da alcuni dei suoi guerrieri.

Informato di quanto era avvenuto, entrò nella cinta e, dopo di aver constatato che i prigionieri erano ancora là, coricati sui loro letti di foglie, s'accostò al marinaio che era stato tirato a terra, tenendo in pugno un coltellaccio.

– Ora farai i conti con me – gli disse, guardandolo ferocemente. – Tu non mi negherai di aver tentato di fuggire.

Il povero diavolo, che non si era ancora rimesso dalla caduta, cercò di balbettare qualche scusa, di negare di aver avuto l'intenzione di lasciare quel luogo, affermando, anzi, che vi si trovava benissimo.

Il capo rispose con un sogghigno da jena, poi, mentre i due giganteschi guardiani tenevano fermo il disgraziato, impedendogli di fare qualsiasi movimento, col coltellaccio gli spiccò netto l'orecchio destro.

– Ciò servirà di lezione agli altri, – disse poi, – e anche al vostro console, a cui invierò subito questo sanguinoso trofeo per deciderlo a pagare più presto il riscatto.

Fece medicare alla meglio il mutilato, che urlava per lo spasimo, poi lo ricacciò nella cinta, raccomandando ai guardiani di raddoppiare la vigilanza.

Non vi descriverò l'orrore provato dai prigionieri nel rivedere il loro compagno conciato in quel modo. Per un momento ebbero l'idea di gettarsi contro le palizzate, di superarle e d'impugnare una lotta suprema con quei crudeli montanari. Fortunatamente prevalsero i consigli del capitano e la loro rabbia si sfogò con una tempesta d'imprecazioni all'indirizzo del capo.

Fu così evitato un massacro, poiché i rifani non li avrebbero di certo risparmiati e senza correre pericolo alcuno, non possedendo i prigionieri nemmeno un coltello, mentre loro erano tutti formidabilmente armati.

Due giorni dopo si presentava al villaggio un parlamentario inviato dal Sultano del Marocco e dal console inglese di Tangeri, portando seco le centomila pesetas richieste per il riscatto dei marinai, il quale fece porre immediatamente in libertà gli ostaggi.

Il capo, dobbiamo dirlo a suo onore, dopo d'aver contato attentamente le pesetas, fece aprire la porta della palizzata e uscire i prigionieri, anzi offrì loro una succolenta colazione e spinse la sua cortesia fino a regalare al marinaio privato dell'orecchio un magnifico yatagan.

Verso il mezzodì i prigionieri lasciavano il villaggio rifano, tutti contenti di quella felice soluzione, eccettuato il mutilato, che non finiva più di lamentarsi della perdita del suo orecchio.

Il parlamentario, che era un ufficiale dell'esercito marocchino, li fece scendere attraverso quelle profonde vallate, poi, raggiunto un alto poggio, da cui si dominavano una diecina di villaggi, comandò l'alt.

– Signore, – disse poi rivolgendosi verso il capitano, – il vostro governo oltre aver reclamato dal Sultano le centomila pesetas pel vostro riscatto, come ne aveva il diritto, essendo i rifani marocchini, ci ha imposto anche la punizione di quei ladroni. Ora vedrete un bellissimo spettacolo.

Si levò la tromba che aveva a tracolla e mandò tre squilli poderosi, che si propagarono attraverso le montagne e alle vallate.

Poco dopo i marinai videro tre forti colonne di soldati marocchini sbucare dai profondi burroni e rimontare rapidamente le valli che conducevano ai villaggi dei rifani.

Poco dopo si udirono violentissime scariche di moschetteria e anche colpi di cannone.

I marocchini assalivano vigorosamente i montanari, scacciandoli dalle loro posizioni, bruciando le tende ed impadronendosi del bestiame, per rifarsi ad usura delle centomila pesetas pagate.

La battaglia durò fino a sera e terminò con la fuga dei rifani, pienamente sconfitti.

Due giorni appresso i marinai, entrando in Tangeri, videro appese alle porte della città più di duecento teste e fra quelle riconobbero facilmente anche quella del crudele capo.

Eppure credete che quella dura lezione sia bastata? Mai più! Quando una nave va ad arenarsi su quelle coste, i rifani non esitano a saccheggiarla ed a far prigionieri i disgraziati marinai che la montano.