I pescatori di trepang/20. I boschi della Papuasia
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CAPO II.
I boschi della Papuasia
e la Nuova Guinea è la patria prediletta dei più splendenti uccelli della creazione, è pure la patria dei serpenti e soprattutto dei pitoni, che sono i più grandi ed i più formidabili rettili delle boscaglie.
Non hanno altri che li sorpassino in lunghezza, tranne i boa dell’America tropicale, e raggiungono i cinque, i sei e perfino i sette metri, ordinariamente però non oltrepassano i tre e mezzo.
Si trovano in quasi tutte le isole della Malesia, in India dove sono numerosi, ed in Africa, ma in Europa mancano. Si trovano però allo stato fossile, specialmente nei terreni terziari e ciò dimostra che un tempo non erano rari nemmeno nei nostri paesi.
Questi rettili non sono velenosi, mancando delle glandole che si trovano in quasi tutti gli altri, ma perciò non sono meno temibili, anzi sono più feroci e più pericolosi, perchè osano assalire non solo l’uomo, ma perfino i grossi animali e anche le tigri. L’inglese Hadington ne vide uno sulle rive del Gange, sorprendere una di quelle terribili fiere, stringerla fra le potenti spire e soffocarla, malgrado i colpi d’artiglio che lo squarciavano.
La loro forza muscolare è così potente, che stritolano fra le loro viscose anella dei buoi, spezzando a loro le robuste ossa e la loro vitalità è così potente che talvolta, anche dopo uccisi, per parecchie ore trattengono la preda.
Schouten, nel suo viaggio in India, narra a questo proposito il seguente fatto.
Durante la raccolta del riso, alcuni contadini del Malabar avevano lasciato nella loro capanna un ragazzo, il quale, essendo malaticcio, non poteva seguirli nei campi.
Essendo il ragazzo uscito, era stato sorpreso da un pitone gigante, mentre erasi addormentato all’ombra di una palma. Tornati i contadini, udirono dei gemiti soffocati, ma sulle prime non vi fecero caso; continuando però, uscirono dalla casa e videro il mostruoso serpente che stava ingoiando la preda ancora vivente. Il padre del ragazzo, fattosi animo, afferrò una scure e tagliò a metà il serpente, ma questo, sebbene mozzo, continuò a ritenere il ragazzo il quale non fu estratto dalle spire che dopo parecchie ore ed affatto privo di vita.
Questi serpenti vivono per lo più nelle foreste calde e umide e là attendono la preda, o sospesi a qualche grosso albero mercè la loro coda prensile o appiattati in mezzo ai cespugli. Preferiscono celarsi presso i fiumi, per sorprendere gli animali che vanno a dissetarsi.
Quantunque non siano molto grossi, pure sono capaci d’inghiottire delle prede che pesano venti volte più di loro e che sono dieci o quindici volte più voluminose, essendo straordinaria la dilatabilità delle loro mascelle. Assorbono, per così dire, la preda tutta d’un pezzo, non avendo unghie per lacerarla, impiegando però molto tempo, delle giornate intere e qualche volta perfino una settimana.
Il pitone che aveva sorpreso il giovane pescatore era uno dei più giganteschi, poichè misurava almeno sei metri. L’orribile rettile, che forse dormiva in mezzo a quel fitto cespuglio, accortosi della vicinanza della preda, era strisciato fuori senza produrre alcun rumore, e con una mossa fulminea l’aveva avvinto fra le formidabili spire. Il disgraziato chinese, quasi soffocato da quelle anella che cercavano di stritolarlo, pallido come un cadavere, cogli occhi schizzanti dalle orbite, agitava disperatamente le braccia rimaste libere, tentando di respingere la testa del serpente, il quale faceva vibrare su di lui la lunga lingua biforcata.
Cornelio, Hans e lo stesso Wan-Horn, paralizzati dal terrore, erano rimasti come inchiodati al suolo, ma il capitano si era slanciato innanzi impugnando una scure. Egli sapeva che un momento di ritardo poteva essere fatale pel povero chinese, le cui ossa già scricchiolavano sotto la potente stretta.
L’arma piombò con forza irresistibile sulle scaglie del mostro, troncando nettamente il corpo a due metri dalla coda. Colpito a morte, svolse rapidamente le anella lasciando cadere il chinese e quantunque così mutilato e sanguinante, si volse contro quel nuovo nemico emettendo sibili di rabbia.
Wan-Stael però non era uomo da spaventarsi. Retrocesse rapidamente per non venire investito, poi la sua scure piombò per la seconda volta sul serpe, il quale cadde sull’erba col cranio fracassato, contorcendosi disperatamente.
— Mio povero ragazzo! esclamò il brav’uomo, precipitandosi verso il chinese. Ti ha spezzato le costole?
— No, signore rispose il pescatore, con voce rotta. Mi ha mezzo soffocato, ma mercè il vostro pronto intervento, mi ha risparmiate le ossa.
— Non ti eri accorto del suo assalto? Non lo avevi veduto?
— No, signore. Volgevo le spalle al cespuglio e tutto d’un colpo mi sono trovato fra le spire del serpente. Ah! Che paura, capitano!
— Lo credo, mio povero giovanotto. Fortunatamente sono giunto a tempo per spacciarlo.
— Ah zio! esclamò Cornelio. Non ho mai provato un terrore simile; mi sono sentito mancare le forze.
— Lo credo; questi serpenti fanno più paura delle tigri. Coricati e riposa, Lu-Hang e noi mettiamoci al lavoro, prima che giunga notte.
Wan-Horn, che si era riavuto dallo spavento, si mise animosamente all’opera. Afferrò il grosso randello preparato dal capitano, somigliante ad una mazza, e si mise a pestare la midolla rosea del sagu, che si trovava nel pezzo di tronco ancora piantato in terra.
— Perchè la pesti qui dentro, invece di estrarla? chiese Cornelio, che seguiva attentamente quell’operazione.
— Perchè è trattenuta da una vera rete di fibre, rispose il marinaio. Se non si spezzano, non si potrebbe estrarla. Ecco, guardate!
Il capitano, che si era rimboccate le maniche, cacciò le braccia nel tronco ed estrasse un cumulo di farina la quale era mescolata a delle sottili fibre bianchissime, ma molto resistenti.
— Mangeremo anche quelle fibre? chiese Cornelio.
— No, rispose il capitano. Guasterebbero il pane, poichè sono legnose.
— Bisogna levarle?
— Sì, e per far ciò fabbricheremo uno staccio con delle fibre di cocco, onde perdere meno tempo.
Il capitano vuotò quella specie di mortaio costituito dal tronco inferiore dell’albero, saldato solidamente in terra dalle poderose radici e ammucchiò la farina sulle grandi foglie della pianta.
Prese poi uno dei pezzi del tronco, tagliati prima da Wan-Horn, lo sovrappose al mortaio e maneggiando robustamente la mazza, fece cadere la farina, pestandola per bene.
La manovra fu ripetuta anche per gli altri pezzi, ottenendo in poche ore un ammasso enorme di farina, dal peso di circa quattrocento chilogrammi.
Era però da depurare, contenendo ancora le fibre, ma essendo calata la notte, quella seconda operazione fu rimandata a domani.
Alcuni chilogrammi di quella fecola nutriente furono però sbarazzati di quelle radici, impastati con un po’ d’acqua e ridotti in focacce, le quali furono messe a cucinare sui carboni.
Tutti fecero molto onore a quel pane gustoso, servito caldo e alla testuggine arrostita. Dopo cena Wan-Horn piantò in terra alcuni rami d’albero che coprì, superiormente, colle immense foglie d’un banano, formando una specie di tettoia che doveva difenderli dall’umidità della notte e per renderla più sicura, la circondò coi cilindri formati dai pezzi del tronco di sagu, i quali potevano difenderli dalle freccie dei selvaggi.
Cornelio montò il primo quarto di guardia imboscandosi in mezzo ad un cespuglio e gli altri s’addormentarono.
Quelle precauzioni furono inutili, perchè la notte passò tranquilla. Nè uomini, nè belve si fecero vedere nei dintorni, e il silenzio più perfetto regnò nelle vicine foreste.
L’indomani, all’alba, erano tutti al lavoro per preparare le loro provviste di pane. Wan-Horn aveva costruito una specie di staccio con delle fibre di noce di cocco e sbarazzava rapidamente la farina dalle radici.
Il capitano e Hans versavano l’acqua nello staccio per far passare la fecola e Cornelio ed il chinese la impastavano, formavano dei pani del peso di due chilogrammi che poi esponevano al sole per seccarsi.
Avrebbe potuto ridurla anche in granelli per fare delle minestre eccellenti, ma sarebbe stato necessario un recipiente di ferro e non possedendolo furono costretti a rinunciarvi. Per ottenere il sagu granulato, come si smercia in Europa, si lascia cadere la farina in una grande caldaia posta sul fuoco, prima però che sia secca. Si lascia torrefare leggermente, mescolandola continuamente, poi si leva e s’impacchetta nelle scatole. I granellini così ottenuti acquistano un sapore più gradevole e assumono una tinta più rossastra.
A mezzodì, già duecento pani stavano seccando al sole. Essendo sufficienti, non potendo i naufraghi caricarsi d’un peso enorme, abbandonarono la rimanente farina agli uccelli.
Alla sera quei pani, che si erano perfettamente asciugati, furono avvolti in foglie di banano onde si conservassero meglio ed ammucchiati sotto la tettoia.
— Ne avremo per un mese disse il capitano. Domani potremo rimetterci in viaggio, senza tema di dover soffrire la fame.
— Ma ci manca la carne, disse Hans.
— Ce la procureremo lungo il viaggio, ghiottone. Gli uccelli non mancano in questa foresta e nemmeno gli animali.
— Sarà invece cosa prudente portare con noi una provvista d’acqua, disse Wan-Horn. Non troveremo sempre dei fiumi o degli stagni per dissetarci.
— Ma noi non possediamo alcuna bottiglia disse Cornelio. Dove vuoi metterla?
— Nemmeno i papuasi posseggono bottiglie, disse il capitano, pure hanno dei recipienti e nei loro canotti l’acqua dolce non manca mai.
— Cosa hanno adunque?
— Ora lo vedrai.
Raccolse la scure, s’avvicinò ad un gruppo di bambù grossi come una coscia d’uomo e ne abbattè uno, tagliandolo a pezzi.
— Ecco il recipiente disse, raccogliendone uno. Come sai, i bambù sono vuoti fra un nodo e l’altro; questo ha un nodo sopra ed uno sotto.
— Ti comprendo: fai un buco nel nodo superiore, vi introduci l’acqua ed ecco ottenuto una botticella.
— È proprio così, Cornelio. Come vedi, qualche volta i selvaggi possono insegnare anche a noi. Orsù, corichiamoci e domani ci metteremo in cammino per giungere alla Durga.
Stavano per sdraiarsi sotto la tettoia, quando con loro grande sorpresa udirono i latrati d’un cane, che venivano dalla parte del bosco.
— I papuasi? chiese Cornelio, balzando in piedi.
— È impossibile! esclamò il capitano, afferrando il fucile e slanciandosi all’aperto.
Horn ed i tre giovanotti, assai inquieti, erano pure usciti portando con loro i fucili. I latrati continuarono, ad intervalli regolari, ma senza avvicinarsi.
— È impossibile che vi siano dai papuasi, ripetè il capitano, che non staccava gli sguardi dal bosco.
— Per quale motivo? chiese Cornelio.
— Perchè non hanno mai avuto cani, anzi non li conoscono.
— Pure sono latrati di cane, zio.
— Che ci sia qualche cacciatore europeo? chiese Wan-Horn.
— Qui, in mezzo a queste foreste, così lontane dai porti frequentati dalle navi?
— Qualche esploratore, signor Stael.
— Hum! Non ci credo, Wan-Horn.
— Ma come volete che vi sia un cane senza padrone?
— Sarà un cane, Horn?
— E cosa volete che sia? Questi sono abbaiamenti.
— Ma se fosse uno di quegli animali, a quest’ora sarebbe qui, mentre mi pare nè che s’avvicini, nè che s’allontani.
— È vero, capitano.
— Tenete pronte le armi e andiamo a spiegare questo mistero.
Tenendosi riparati dietro i cespugli, per non ricevere improvvisamente una volata di freccie avvelenate, raggiunsero il bosco che cominciava a diventare oscuro, essendo il sole prossimo al tramonto. La loro sorpresa raggiunse il colmo, udendo i latrati venire dall’alto.
— Tò!... esclamò Cornelio. Che abbiano legato un cane fra i rami degli alberi? Cosa ne dici, zio?
Il capitano, invece di rispondere, scoppiò in una fragorosa risata.
— Ridi?... esclamarono Hans e Cornelio.
— Vi è da slogarsi le mascelle, ragazzi miei diss’egli. Volete vedere il preteso cane? Guardate fra i rami di quel durion.
Tutti alzarono gli occhi e scorsero, appollaiato su di un grosso ramo, un uccello nero, grande come un corvo, il quale emetteva a regolari intervalli dei latrati così perfetti, che parevano uscissero dalla gola d’un cane.
— Bizzarro paese!... esclamò Cornelio. Si sono mai veduti in altri luoghi degli uccelli che latrano?...1
— Fortunatamente sono innocui, disse il capitano. Andiamo a dormire, amici.
Anche quella seconda notte, passata in quella piccola radura, trascorse tranquilla. Vi fu solamente un falso allarme durante il quarto di guardia del marinaio, essendosi uditi dei rumori nel vicino bosco, ma li attribuirono a degli animali pascolanti fra i cespugli.
Alle sei del mattino i naufraghi erano in piedi, pronti a mettersi coraggiosamente in marcia verso l’ovest. Ripartirono le loro provviste di sagu proporzionatamente alle forze d’ognuno, riempirono d’acqua i loro bariletti di bambù e dato un addio alla loro capannuccia, si cacciarono sotto a folti boschi, decisi a raggiungere la Durga.
La marcia non era facile in mezzo a quelle piante che impedivano ai raggi del sole di penetrare, tanto erano così fitte. I tek, i sagu, i mangostani, i cedri, i bambù, le arenghe saccarifere, i betel, i rotang, si succedevano gli uni agli altri intrecciando i loro rami e le loro radici, mentre le piante arrampicanti e le liane formavano delle reti impenetrabili, correndo da un tronco all’altro, salendo, discendendo, serpeggiando per terra.
Non mancavano gli alberi da frutta, i quali crescevano senza coltura alcuna. Si vedevano numerosi mangostani carichi di quelle frutta deliziose che ormai i naufraghi avevano assaggiate e che hanno il vantaggio, come quelle dei banani, di essere sanissime e di non produrre alcun disturbo anche se prese in grande quantità; giganteschi durion i cui rami si piegavano sotto il peso delle loro grosse frutta che sono pericolosissime se cadono sul capo a qualcuno, essendo irte di acute spine, e grosse come la testa di un uomo; i buà nanghe od artocarpi integrifoglia, altissimi, con grossi rami e che danno le frutta più colossali, poichè occorrono due uomini per portarle, ma assai nutrienti e che maturano tutto l’anno e dei manghi, ma di qualità scadente e poco fruttiferi, crescendo allo stato selvaggio.
Dopo cinque ore di marcia continua, i naufraghi giungevano in mezzo ad un grande gruppo d’alberi, i quali tramandavano un odore speciale e assai acuto.
— Non senti questo profumo delicato, zio? chiese Cornelio.
— Sì, disse il capitano, che s’era arrestato.
— Sono quegli alberi che lo esalano?
— Sì, Cornelio, e aggiungerò che qui vi sarebbe la fortuna d’un uomo, che avesse meno fretta di noi.
— Perchè, zio?
— Perchè questi alberi sono noci moscate. Guardali, Cornelio: meritano di essere veduti.
Note
- ↑ Questi uccelli sono comuni anche nell’isola di Nuova Brettagna che si trova all’est della Nuova Guinea.