I monumenti e le opere d'arte della città di Benevento/Dei Longobardi in Benevento e del chiostro e della chiesa di S. Sofia/Della chiesa e del chiostro di S. Sofia come vedonsi al presente

3. Della chiesa e del chiostro di S. Sofia come vedonsi al presente

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3. Della chiesa e del chiostro di S. Sofia come vedonsi al presente
Dei Longobardi in Benevento e del chiostro e della chiesa di S. Sofia - Fondazione di S. Sofia. Sue vicissitudini attraverso i secoli Della chiesa Cattedrale di Benevento
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3. della chiesa e del chiostro di s. sofia
come vedonsi al presente


La Chiesa

La Chiesa attuale di S. Sofia come abbiamo veduto, non ha le dimensioni dell’antica, edificata da Arechi; ma stimo, però, ne abbia conservata la forma circolare, desumendosi dalle parole citate della Cronaca Cassinese che Arechi collocò le ceneri di molti santi sotto varii altari in circuitu maioris altaris. Questa espressione in circuitu contrasta affatto con l’affermazione, non basata su alcun documento, di qualche scrittore, come il Borgia1, ripetuta poi da Salazaro2 che il nostro tempio fosse stato costruito [p. 369 modifica]ad imitazione dell’omonimo di Costantinopoli. Il Gregorovius3, afferma pure che «Il nome dato da Arechi al Monastero lascia pensare a relazioni ed intelligenze bizantine, e la stessa costruzione della cupola (?) sembra accennare a Bisanzio». E sebbene il De Vita4 asserisca che la forma circolare presente l’abbia assunta dopo la ruina, con la moderna costruzione, vi sono ancora diversi altri fatti che mi riconfermano nella sudetta mia ipotesi.

I Longobardi quì, come nel resto d’Italia, sebbene si fossero giovati dell’Architettura, a preferenza delle altre arti5, non costruirono con uno stile loro proprio, che fosse il prodotto del loro paese d’origine o della loro civiltà o del loro gusto artistico, ma si servirono dell’architettura che trovarono, come osservò giustamente il Cav. Giulio Cordero dei Conti di S. Quintino nella sua celebrata monografia, che ha per titolo «Dell’Italiana Architettura durante la dominazione Longobarda6.

Ora in quel tempo che fu costruito il tempio di S. Sofia, due stili dispuntavansi il campo, il nascente Lombardo e il Bizantino (sebbene vi abbia chi stimi nato il lombardo dall’accoppiamento del Romano col Bizantino7) quello più nel settentrione, questo più nel mezzogiorno e nel centro a cagione del più frequente contatto e commercio con l’Oriente. In ambedue gli stili sembra sia stata prediletta la forma poligonale: hanno pianta poligonale Santa Fosca di Torcello8, l’antica cattedrale di Brescia9, una chiesa a Hierapolis10, S. Angelo a Perugia11, S. Vitale di [p. 370 modifica]Ravenna12, queste ultime segnatamente, che qualcuno13 vorrebbe attribuire ai Goti. Nell’Oriente le forme circolare e poligonale furono predilette dagli architetti14. Probabilmente quelli che fornirono i disegni di S. Sofia ad Arechi erano Architetti Orientali, o che aveano appresa l’arte colà.

Sino a non molto tempo addietro dinanzi l’attuale Chiesa di S. Sofia esisteva un atrio, murato intorno intorno, la cui pianta avea la forma e le dimensioni dell’attuale tempio15. De Vita16 asserisce che quest’atrio faceva parte dell’antico tempio. Io sono dello stesso parere, per quel girar di tondo del muro anteriore, e per la esatta corrispondenza di forma e di dimensioni con l’area dell’attuale Chiesa.

Dopo i tremuoti, non potendo, per mancanza di mezzi pecuniarii, ricostruir tutta la Chiesa, si volle conservarne la metà dell’area antica sotto forma di atrio, circuendola con un muro sulle fondazioni del tempio antico. A quest’atrio si saliva per una porta, costruita dall’Abate Commendatario Cardinale Giuliano della Rovere, nel 1495, come dall’arme di lui e da una iscrizione che stavano sull’architrave della porta stessa. L’iscrizione è la seguente: Iulianus Episcopus Ostiensis Cardinalis S. Petri ad Vincula MCCCCLXXXXV17. Questa notizia è preziosa perchè ci documenta che, se al 1495 esisteva l’atrio, la Chiesa già non era più quella, nè così vasta come l’antica.

Lo stesso De Nicastro, in un altro manoscritto, sulle famiglie nobili di Benevento18, ci ha lasciato memoria che G. B. Roscio nel 1643 «ornò di pitture i portici ossia atrio avanti la Chiesa di Santa Sofia, come dimostrano le sue armi».

Dal citato istromento del dì 8 Febbraio 1708 della consegna [p. 371 modifica]fatta dall’Arcivescovo Orsini alla Congregazione dei Canonici Regolari del SS. Salvatore della Chiesa e del Monastero di S. Sofia, si rileva che «nell’anno 1696 il prelodato Orsini fece cominciare a riparare la stessa Chiesa ed a ridurla alla dovuta simmetria, col far buttare a terra parte di essa, come superflua ed Fig. 4. irregolare»; e che, sopravvenuto l’altro tremuoto del 14 Marzo 1702, la stessa Chiesa restò lesionata, e la si dovette risarcire. In tale istromento è riferito pure avere Orsini, con suo proprio danaro, eretto dai fondamenti l’atrio. Questo, però, deve essere un errore, imperocchè abbiamo visto che l’atrio già esisteva al 1495, e ne parla Giordano de Nicastro nel citato manoscritto in epoca anteriore ai tremuoti del 1688 e del 1702, cioè nel 1683. Si volle forse intendere tutt’altro, e intanto si scambiarono le parti: invece di dire che Orsini fece erigere dai fondamenti il campanile e perfezionare l’atrio, si disse il contrario. Di fatti, poco prima, nello stesso istromento, riferendosi al tremuoto dei 1688, si afferma che era stato cominciato il campanile, che era rovinato dai fondamenti, come innanzi è detto ivi pure. Dunque, se prima del tremuoto del 1702 il campanile era stato appena cominciato, è chiaro che dopo questo tremuoto fosse stato innalzato per intero dai fondamenti.

L’interno dell’attuale Chiesa di S. Sofia ha molta simiglianza [p. 372 modifica]con quello di S. Tommaso di Bergamo19 dell’epoca longobarda. Le sei colonne centrali dell’esagono, quattro di granito bigio e due di bardiglio, si appartengono all’antica Chiesa20. Come pure sono antiche le due colonne di granito bigio che reggono il grande arco sulla facciata esterna. Tanto i capitelli di queste due ultime colonne che quelli delle prime sono bizantini della prima maniera21, cioè di ordine corintio o composito, di stile alquanto rozzo, simili ai capitelli delle gallerie di S. Lorenzo a Roma. Dal quale fatto e da altri che svolgerò nel discorrere del Chiostro, io argomento che per la primitiva costruzione del tempio Arechi siasi servito dei materiali di antiche fabbriche, come si praticava già in quel tempo, secondo il parere dello stesso Cordero da S. Quintino22.

La porta attuale di entrata al tempio (fig. 4 e 5) con l’ovolo ornato di palmette, che tutta l’incornicia nel giro esterno, e con la lunetta semicircolare, è di spiccato stile lombardo. Essa però non è completa, e manca del protiron, il quale, come di consueto, dovea esser decorato lateralmente dalle due colonne sorrette da leoni. Nel bassorilievo della lunetta sono scolpite le seguenti figure: nel centro il Redentore seduto in trono, alla destra di Lui Maria, alla sinistra S. Mercurio in atto di presentargli il fedele Arechi, incoronato e genuflesso. Il fondo del bassorilievo è formato di musaico dorato. Sebbene il Gregorovius23 asserisca che questa porta sia di epoca posteriore24, a me sembra che la lunetta si sia appartenuta al primitivo tempio longobardo, essendo il suo stile proprio di quel tempo. Stefano Borgia25 opina allo stesso modo «non solo per la maniera del disegno, e per non esservi nella rappresentanza cosa che repugni ai riti di [p. 373 modifica]quel secolo, ma anche per l’immagine che vi si osserva dello stesso Principe in atto di raccomandarsi al suo gran protettore S. Mercurio, come si vede in altre antiche memorie, nelle quali gli autori delle medesime si fecero scolpire o dipingere in positura supplichevole, ecc....». Il De Vita26 è pure di parere che la porta con la lunetta sia avanzo dello antico tempio.



Fig. 5.

Nel canto sinistro di chi guarda vedesi nella lunetta uno stemma in musaico, evidentemente di epoca assai posteriore. È uno scudo a mezzo ovale portante nel suo campo una scacchiera di cani-correnti di marmo bianco e di lapislazzoli, e una banda di marmo rosso in diagonale dal basso di destra all’alto di sinistra. Stefano Borgia suppone che quest’arme si appartenga alla famiglia beneventana Grimaldo, estinta, riscontrandosi, dice egli, l’eguale nel libro manoscritto delle famiglie nobili di Benevento del celebre Mario della Vipera del 1632. Egli aggiunge che Falcone, riferendosi all’anno 1137, nomina un certo Abate Malfrido de Grimaldo, senza spiegare di quale Monastero sia stato Abate. Ora, [p. 374 modifica]dice egli, se si potesse documentare che in quell’anno il Malfrido sia stato Abate di S. Sofia, non vi cadrebbe più dubbio che quell’arme si sia appertenuta a lui. Questa indagine il Borgia avrebbe potuto eseguire facilmente, poichè egli si sarebbe potuto giovare delle relazioni col Vaticano per far delle ricerche in quell’Archivio, ove, come dissi27, furono trasportati tutti i documenti di S. Sofia.

Ma, intanto, quell’arme è di fatti della famiglia Patrizia Beneventana de Grimaldo28, della quale è memoria pure nell’antichissimo libro dei morti della Chiesa e Monastero di S. Lupo, ove a carta 14, sotto il dì 26 Marzo del 1198 si legge: Obiit Bartholomeus Filius Nicolai de Grimaldo in loco sacro29. Devesi supporre che, se non quel Malfrido de Grimoaldo, di cui ci parla Falcone, altri della di lui famiglia abbia fatti dei restauri al monumento, per cui vi abbia fatto incastonare il proprio stemma.

Al qual proposito, non ho saputo spiegarmi la contradizione di Pugliese30, il quale, mentre asserisce che il bassorilievo sulla porta sia un avanzo della Chiesa di Arechi, nega poi che sia dell’ottavo secolo (laddove dell’ottavo secolo proprio fu l’opera di questo Principe), adducendo che le più ovvie ragioni di estetica escludono che l’arma vi possa essere stata messa in tempi posteriori, perchè essa occupa uno spazio corrispondente all’altro riempito dalla figura in ginocchio. Io non so se Pugliese abbia visto con i propri occhi, proprio qui sul monumento, l’arma di cui trattasi; ma credo di no, perchè, altrimenti, avrebbe notato chiaramente che essa vi sia stata incastonata posteriormente, tagliando un lembo della rozza cornice che circonda la lunetta.

Chiostro

Vasari e tutta la schiera degli artisti del rinascimento chiamarono barbarici gli stili architettonici che si svolsero per opera del cristianesimo, perchè non vi scorsero il rigido imperio della [p. 375 modifica]

Tav. L.



Chiostro di S. Sofia in Benevento veduto dall’interno del portico.



[p. 377 modifica]squadra e delle seste. Ma giustamente osserva Boito31 che «L’Architettura cristiana è la vera architettura di una religione che rivelò all’uomo nuovi diritti e nuovi doveri, svincolandolo dall’allettamento dei sensi: non ha niente di bugiardo, niente di artificiale». Ed io mi permetto aggiungere che nell’Architettura Fig. 6. cristiana che precedette la fredda e compassata del rinascimento, cioè in quella che fu ispirata dal cristianesimo, si riscontri sempre il predominio del sentimento puro della fede sulle regole. La qual cosa spiega perchè i religiosi e i monaci in quei tempi erigessero le chiese e i cenobii.

Un pedissequo severo delle seste non entri nel chiostro di S. Sofia, perchè egli non vi proverebbe quell’entusiasmo e quel gentile sentimento di amorevolezza di chi ha l’animo aperto a tutte le forme dell’arte. Il vaghissimo nostro chiostro alletta, seduce con le sue svelte arcate quadrifore dagli archi moreschi poggianti su svelte colonnine dai varioscolpiti capitelli. Il suo organismo che a prima giunta apparrebbe simile a quello di tanti altri chiostri, in fatti se ne discosta moltissimo, da doverlo ritenere unico nel suo genere. Di vero, per quanto io mi sappia, nessuno dei chiostri conosciuti ha [p. 378 modifica]l’arco a ferro di cavallo. E maggior pregio ha il nostro chiostro, quello di essere antico assai più di molti altri, sebbene non possa dirsi addirittura essere l’attuale proprio quello eretto da Arechi.

Il porticato del chiostro avrebbe la pianta quadrata, se a destra, di contro all’ingresso, i due lati non si ripiegassero in dentro a formare un angolo rientrante (Tav. L). Questa rientranza fu consigliata dal bisogno di lasciar libera la larghezza dell’ambulacro, per il tondo della Chiesa che investe una parte dell’area del Chiostro.

Le arcate in giro, meno una sola che è trifora, a sinistra dell’angolo rientrante sudetto, formano delle luci quadrifore (Tav. LI), sorrette da tre colonnine di diversi marmi, di diverse fogge e dimensioni: ve ne sono di marmo bianco, di calcare comune, di granito, di alabastro, ecc.; ve ne sono di cilindriche affatto, di rastremate, con o senza entasi, di ofitiche (fig. 6); ve ne sono che hanno una propria base di stile lombardo (Tav. L e LII), ma pur varie, altre che hanno per base un capitello bizantino a rovescio (fig. 7 e 8, 6 e 10). I capitelli poi si distinguono in varii gruppi che analizzeremo tra breve.

Gli archetti delle quadrifore, costruiti con cunei di tufo trachitico giallo e con mattoni, ed ora ricoperti d’intonaco, hanno la forma a ferro di cavallo (Tav. L e LII). Sopra di ogni quadrifora gira un arco scemo circolare che si appoggia a due pilastri (Tav. L, LI e LII). Contro di questi, al presente, si addossano altrettanti barbacani (Tav. LI), la cui costruzione, consigliata da ragioni statiche, non si sa proprio a quale epoca rimonti, ma sempre molto posteriore a quella del chiostro. Le colonnine attualmente si elevano sopra di uno stilobate unico per ciascuna quadrifora, ma un tempo ognuna di esse ne aveva uno proprio. Il chiostro, nel tutto assieme, anche così come è ora, è di vaghissimo aspetto.

A quale epoca rimonta il suo organismo attuale? A quale epoca rimontano le varie membra di cui si compone? Queste sono due quistioni delicatissime e degne di grande ponderazione.

Intorno a uno dei capitelli della prima quadrifora, a sinistra, del lato del chiostro di fronte all’entrata esiste la seguente iscrizione:


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PERPETVIS ANNIS STAT QVARTI FAMA IOHANNIS
PER QVEM PASTOREM DOMUS HVNC HABET ISTA DECOREM.


Il de Nicastro32 non indugia ad affermare che la costruzione del chiostro attuale debbasi attribuire a questo Giovanni IV; il quale, secondo lui, non sarebbe stato altri che Giovanni il Grammatico, eletto Abate di S. Sofia nell’anno 1119. Stefano Borgia33, pur ritenendolo Fig. 7. autore del chiostro, non sa precisamente quando sia vissuto questo Giovanni IV; ma dal metro Leonio dei due versi lo suppone non anteriore al secolo XII.

Il De Vita34 non sa dire in qual tempo sia stato Abate questo Giovanni IV, che vuole assai posteriore al Grammatico. Però sembra che anche egli si accomodi a ritenerlo autore del chiostro35. Isernia36 addirittura salta per sopra alla quistione, asserendo che la iscrizione sia piuttosto oscura nel concetto. Finalmente il Salazaro (il quale mostra evidentemente di non essere stato mai a Benevento, perchè chiama loggiato questo portico, e lo descrive come costituito di colonne infra loro raddoppiate sulle quali s’innalzano archi acuti!)37 afferma che il chiostro sia opera dell’XI secolo, e manifesta il parere che questo Giovanni IV, quì ricordato, sia Giovanni Rotondo di Benevento, Abate di Montecassino nel 1011. Ma egli [p. 380 modifica]s’inganna, perchè Leone Ostiense ci fa sapere che questo Giovanni Rotondo, inviso ai Monaci di Montecassino, per essersi fatto nominare giovanissimo di loro Abate, alla morte dello zio Giovanni, altro Abate di detto Monastero, fu sostituito colà da Atenolfo, figlio di Pandolfo, Principe di Benenevento, e fu mandato, come Abate in Benevento sì, ma al Monastero di S. Modesto. Se dunque egli non fu Abate di S. Sofia, come potè fare i restauri di questo chiostro?

È curioso che nessuno dei citati scrittori siasi presa la cura di analizzare lo spirito della riferita iscrizione e di esaminare le varie parti del chiostro. In quella si afferma che perenne resterà la fama di Giovanni IV, al cui pastore questo cenobio deve il presente decoro. Senza tema di cadere in vane interpretazioni, quì evidentemente deve intendersi che il benemerito Giovanni IV sia stato il restauratore, non il costruttore del chiostro attuale; altrimenti il dettato della iscrizione sarebbe stato ben differente. E che sia così è dimostrato poi luminosamente dal considerare che lo stile e la tecnica dei capitelli del quarto lato del chiostro, ove trovasi la iscrizione sudetta, e di qualcuno degli altri lati, sono differenti assai (la tecnica principalmente) dallo stile e dalla tecnica della maggior parte, notandosi una maggiore rozzezza nel disegno e nella scultura. Essi, senza dubbio, si appartengono ad epoca molto posteriore.

Io non dissimulo che la quistione sia molto grave; e sventuratamente a scioglierla non ci si offre alcun dato storico preciso. Per la qual cosa converrà procedere cautamente per via di analisi e di critica.

Abbiamo già veduto in parte che gli elementi che compongono il nostro chiostro sieno disparatissimi tra loro: le colonne, le basi e i capitelli son di varie forme e stili; solamente regna unità di concetto nella loro disposizione a formare le luci quadrifore eguali, ad archetti moreschi a ferro di cavallo. È certo che, se gli elementi delle quadrifore son di stili e di epoche differenti, la costruzione di esse debba essere di data posteriore.

Esaminiamo ora partitamente le basi, le colonne, i capitelli, gli abachi e le cornici d’imposta dei pilastri, cominciando dalle prime.

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Tav. LI.



Chiostro di S. Sofia in Benevento veduto nella corte scoverta.



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Tav. LII.



Quadrifora del chiostro di S. Sofia in Benevento veduta dall’interno,
e particolari delle basi e delle cornici.


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Basi — Sono tutte disparate: predominano quelle ad imitazione della base attica (Tav. L), molto usate nelle antiche Chiese di Roma, e, con varia licenza nelle proporzioni delle modanature, nei primi secoli del cristianesimo38, nel Duomo di Parenzo, in S. Vitale e in S. Apollinare in Classe di Ravenna. Esse si appartengono quindi al primo e al secondo periodo dell’arte cristiana; e soltanto molto più tardi furono adottate dallo stile lombardo. Le Fig. 8. nostre indubitatamente sono bizantine. Ve ne ha di quelle eziandio attiche nelle modanature, ma provviste di foglia di angolo o protezionale (Tav. LII). Questa particolarità da taluni, come il Sacken39, è ritenuta il carattere distintivo dello stile romanico o romanzo che più propriamente in Italia è inteso per il lombardo40, sebbene si possa, secondo me, obbiettare che vi sieno non poche differenze, come potrei dimostrare con materiali raccolti anche qui in Benevento dello stile romanzo, molto differenti da quelli del vero lombardo. Il romanico fu lo stile architettonico dal 1000 circa al 1250. Il Selvatico41, che scorge in embrione quel rinforzo nelle basi dell’atrio di S. Ambrogio a Milano, asserisce vi comparisse forse per la prima volta e diventasse da poi un ornamento costante in tutte le basi usate dal X al XIV secolo. L’atrio di S. Ambrogio sorse poco dopo la metà del [p. 384 modifica]secolo IX42. Il Cattaneo43, discorrendo del fonte battesimale del Duomo di Cividale nel Friuli, opera dell’VIII secolo, e propriamente eseguita durante il dominio del re Liutprando, asserisce che «una delle basi delle colonne presenta quattro foglie agli angoli del plinto, locchè accusa un restauro forse del XIII secolo». Il Selvatico44 ritiene che questo battistero sia il caposaldo o il prototipo dell’arte longobarda, non potendosi dubitare affatto della sua epoca. Ora come spiegasi la esistenza della nostra base attica con le foglie d’angolo nel chiostro di S. Sofia? La si può supporre non anteriore al 1000? Secondo il Cattaneo la si dovrebbe riferire, per analogia, al XIII secolo.

Io penso che essa sia antica quasi quanto le altre semplici, e che per la scarsezza degli esempii simiglianti e per la difficoltà di studii più completi gli autori sopra indicati abbiano emesse affermazioni un po’ azzardate, con tutto che il Selvatico abbia fatto rimprovero al Cordero di S. Quintino di non aver studiato lo stile dei Longobardi in quelle terre nelle quali costoro esercitavano più diretta signoria col mezzo dei loro Duchi45. Ora in Benevento non mai venne alcun di loro, meno il Cattaneo46, ma troppo fugacemente, come vedremo.

Poi vi son due basi formate da due antichissimi capitelli bizantini (fig. 6 e 10, 7 e 8). Il primo è un capitello a cubo, ornato nelle quattro facce di un vaghissimo doppio ramo d’acanto con elegante ligatura nel mezzo e agli angoli. È più vago ed elegante dei capitelli congeneri di Parenzo e di Ravenna, perchè in esso si scorge una tecnica assai superiore. Il secondo è un capitello piramidato, ornato di viticci con grappoli d’uva e di uccelli che vi beccano. Il quale ornato, come si vede, racchiude un simbolo spiccatamente cristiano-bizantino. Indubitatamente questi due capitelli bizantini, messi di poi a far da basi, sono per lo meno coevi degli accennati di Parenzo e di Ravenna.

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Colonne — Disparatissime son pure le colonne, essendovene, come dissi, di varii marmi, di varie dimensioni e di varia struttura. Fra tutte è degna di esser notata una gemina colonna ofitica (fig. 6), simile a quelle di una delle porte del Duomo di Trento, che il Selvatico47 afferma sieno di stile lombardo. Il Duomo di Trento è opera del principio del XIII secolo, ma la nostra colonna è assai più antica.



Fig. 9.


Capitelli — Oltre ai due descritti capitelli bizantini, che ora fanno da basi, vi sono altri tipi affatto differenti, ciascuno reggente un abaco a forma di doppia mensola (Tav. L), per sostegno degli archetti, lungo quanto lo spessore del muro soprastante. I capitelli possonsi dividere in cinque categorie: capitelli corintii romani della decadenza o del primissimo albore del cristianesimo (fig. 6 sin.); capitelli cristiani primitivi, detti anche bizantini della prima maniera (fig. 9 e Tav. L) nei quali l’artista, seguendo le tradizioni romane, qualche volta anche greche, col decorarli della foglia di acanto ingegnossi di imitare i capitelli corintii e compositi; capitelli barbari a semplice ornato (Tav. LIII); capitelli bestiarii (fig. 7 e 11), con intreccio di strane figure, per lo più di animali immaginarii, di chimere, di draghi; capitelli dell’ultima [p. 386 modifica]epoca dell’Abate Giovanni IV in tutto il lato che guarda mezzodì, e qualcuno anche negli altri lati; i quali ultimi sono imitazioni dei preesistenti.

Egli è evidente che i capitelli delle due prime categorie sieno stati presi da monumenti preesistenti, essendo di epoca anteriore alla dominazione longobarda. Di quelli della terza categoria non ve ne ha che un solo (Tav. LIII) osservato dal Cattaneo48; il quale lo attribuisce ad artisti greci dell’VIII secolo, operanti però in Italia. Egli dice: «Non volli omettere di visitare anche Benevento, che fu celebre capitale di un ducato longobardo; ma le mie ricerche non vi fruttarono che la conoscenza di un capitelletto oggidì impiegato nel pittoresco chiostro di S. Sofia. Tiene un po’ dell’elegante bizzarria di quei di Capua, nel tempo stesso che ricorda in certi motivi i suoi fratelli dell’Alta Italia». È il vero caso di dire in cauda venenum. Perchè appare che egli, dominato dal preconcetto di studiare un tipo, sia venuto qui provvisto della lanterna di Diogene per ricercare un elemento decorativo affatto simile ai suoi, studiati nel Veneto e nella Lombardia. Egli, che molto rimprovera ai più classici autori della storia dell’arte di essersi lasciati trascinare a falsi giudizii, pare vi sia caduto egli stesso, per il preconcetto di trovar da noi, quì nel mezzogiorno, gli identici elementi architettonici dell’Alta Italia. Sebbene ei non lo manifesti apertamente, pur tuttavia sembra argomentarsi dal suo dire che altra roba non abbia trovato in S. Sofia anteriore al mille, mentre che egli tratta dell’Architettura in Italia dal VI secolo al 1000 appunto. In altri termini per lui tutta l’arte del dominio longobardo in Benevento sarebbe rappresentata da quest’unico capitelletto. È vero che egli afferma di esaurire con questo la serie dei lavori greci del secolo VIII49, ma avrebbe pure potuto manifestare qualche giudizio su gli altri elementi che compongono il nostro chiostro, se non in quel posto, in altro della sua opera. Qualche capitello bestiario, ad esempio, e qualche abaco si appartengono indubitatamente al periodo longobardo anteriore al mille.

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Tav. LIII.



Capitello barbaro dell’VIII secolo nel chiostro di S. Sofia

in Benevento.



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Dei capitelli bestiarii alcuni sono più antichi, altri meno; e questi ultimi appaiono copiati sui primi, la tecnica dei quali è meno rozza.

Selvatico50 asserisce che queste bizzarre sculture su i capitelli, sugli stipiti e sugli archivolti delle Chiese cristiane furono largamente adottate dal decimo al decimoterzo secolo. S. Bernardo,Fig. 10. il quale morì nel 1153, condannò aspramente questo genere strano di sculture che formava, nei chiostri segnatamente, la delizia dei monaci: «In claustris (egli dice) coram legentibus Fratribus quid facit illa ridicula monstruositas, mira quaedam deformis formositas, ac famosa deformitas? Quid ibi immundae Simiae? Quid feri Leones? Quid monstruosi Centauri? Quid semihomines? Quid maculosae Tigrides? Quid milites pugnantes? Quid venatores tubicinantes? Videas sub uno Capite multa Corpora, et rursus in uno Corpore Capita multa: Cernitur hinc in quadrupede cauda serpentis, illinc in Pisce cauda quadrupedis: Ibi bestia praefert Equum, Capram trahens retro dimidiam; hic cornutum animal Equum gestat posterius. Tam multa denique, tamque mira diversarum formarum ubique varietas apparet, ut magis legere libeat in marmoribus, quam in Codicibus, totumque diem occupare singula ista mirando, quam in lege Dei meditando. Proh Deo! Si non pudet ineptiarum, cur vel non piget expensarum?51.

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Ma quest’aspra censura di S. Bernardo non corresse il mal verso dei Monaci, che in siffatto genere di lavoro pare siensi dilettati pur troppo, se, come abbiamo visto, l’Abate Giovanni IV di S. Sofia stimò cosa decorosa siffatta specie di sculture.

D’Agincourt52 par che assegni al VI secolo l’inizio di questo carattere decorativo, che, secondo lui, si rese universale nel VII e nell’VIII secolo.

Abachi — Come dissi, questi hanno forma di doppia mensola, abbracciante tutta la grossezza dei peducci degli archetti moreschi, cioè tutta la grossezza del muro sovrastante. Simili abachi si introdussero assai prima del 1000, trovandosene antico esempio negli avanzi del palazzo di Teodorico a Ravenna53, esempio che il Selvatico ritiene sia il primo in Italia, e abbia avuto poi gran voga per tutto ove fu adottata l’architettura bizantina fra noi. In quel palazzo gli abachi son retti pure da colonnine che separano le quadrifore. Gli abachi del nostro chiostro di S. Sofia sono variamente scolpiti al modo dei capitelli bestiarii con soggetti più o meno strani e fantastici: alle volte vi son chimere e draghi, altre volte vi sono semplici ornati, più o meno rozzi; e in alcuni vi son raffigurate le varie stagioni. Duolmi non poter dare di essi più compiuti disegni.

Ma, come i capitelli bestiarii, non tutti gli abachi sono della stessa epoca. Questi abachi in Benevento non sono particolari solo al chiostro di S. Sofia: se ne trovano a ogni piè sospinto in tutti gli scavi e in molte antiche muraglie. A me è occorso di trovarne sovente; ne conservo un esemplare in cui, oltre a varie altre figure, in una faccia vi è scolpito il maiale stolato dei sacrifizii a Cerere, quello stesso maiale stolato che vedesi scolpito con buona arte romana su una lastra di marmo incastonata sulla faccia orientale del campanile del nostro Duomo, e che, con poco felice pensiero, dovè suggerire la prima idea dell’arme di questa città. Donde emerge che quel partito organico costruttivo dovea essere comune a molti monumenti longobardi andati distrutti.

Quadrifore — Abbiamo visto che negli avanzi del palazzo di [p. 391 modifica]Teodorico a Ravenna evvi esempio di quadrifore; laonde devesi argomentare che esse, insieme alle bifore, alle trifore, ecc. sieno state adottate da epoca molto remota, e sieno una importazione orientale. Per tale ragione io penso che anche l’antico chiostro del tempo di Arechi abbia avuto presso a poco lo stesso organismo.

Fig. 11. Archetti moreschi — Secondo Hope54, «l’arco a ferro di cavallo fu di moda a Costantinopoli e nel resto dell’impero greco; di quivi passò poscia di mano in mano nelle città d’Italia collegate con questo impero o per rapporto di commercio o per dipendenza diretta». Come meglio vedremo in seguito, in questo stesso capo e nel corso di quest’opera, la influenza orientale per via dell’adriatico potè molto sul mezzogiorno d’Italia. Se gli archetti moreschi del nostro chiostro sieno dell’epoca del nominato Abate Giovanni IV o anteriori io non posso precisare; posso soltanto credere che sieno più probabilmente posteriori ad Arechi, se non proprio al mille; dopo la quale epoca l’arco a ferro di cavallo fu più sovente usato in Italia.

Riepilogo

Altri forse avrebbe desiderato da me un lavoro completo sull’arte al tempo dei Longobardi in Benevento, pel lungo dominio che vi tennero di circa sei secoli; ma il non trovarsi da noi un monumento quasi intero, e scarsi essendo gli elementi che quei monumenti componevano, non era possibile accingersi a sì arduo [p. 392 modifica]cimento. I tremuoti, come dissi, e l’opera dell’uomo (di accordo perfettamente con Pugliese55) fecero a gara per distruggere ogni traccia dell’arte al tempo dei Longobardi. Di avanzi di monumenti Longobardi, come vedremo, fu composta in parte la facciata attuale della nostra Cattedrale; altri avanzi si trovano dispersi, e si raccolgono tuttodì. Ma la maggior parte servì ai fornaciai. Forse in seguito, quando altri elementi saranno raccolti, potrà dirsi qualche cosa di più concreto intorno a siffatto difficile argomento, il quale ha affaticato la mente di molti cultori della storia dell’arte.

Quello che a me sembra indiscutibile, e cercherò sempre più di provare con elementi di fatto, si è che quì da noi all’epoca longobarda l’intonazione artistica ci veniva d’oriente; e che, per conseguenza, lo stile architettonico dell’alta e media Italia non esercitò presso noi quasi nessuna influenza. Lo stesso capitello quì rinvenuto dal Cattaneo56 nel chiostro di S. Sofia è ritenuto da lui opera di artisti greci dell’VIII secolo.

Se vedemmo che politicamente i Duchi ed i Principi longobardi di Benevento si mantennero quasi affatto indipendenti dal regno longobardo57, e se, come è di parere anche Muratori58 la influenza greca potè molto su di essi, dobbiamo sempre più convenire che in Benevento spirò l’alito greco. Senza pretensione di azzardare giudizii, oso dire che quì in Benevento e nelle Puglie, anche nei momenti meno prosperi dell’arte, l’alito greco non ne fe’ mai perdere le tradizioni, siccome accadde nel Veneto e nella Lombardia, ove essa divenne ancor più barbara che da noi.

  1. Op. cit. tom. I pag. 239.
  2. Demetrio Salazaro, Studii sui monumenti dell’Italia meridionale dal IV al XIII secolo, Napoli MDCCCLXXI pag. 69.
  3. Nelle Puglie, op. cit. pag. 88.
  4. Alter antiquitatum etc. pag. 99.
  5. D’Agincourt, Storia dell’Arte, Trad. Italiana, Prato, MDCCCXXVI vol. I pag. 177.
  6. Giunta V al vol. 4 di Vitruvio, edizione citata, pag. 144 del vol. 4.
  7. Le arti del disegno in Italia, parte 3. pag. 27 e 28 (Parravicini, seguito del Selvatico).
  8. Hubsch, Monumenti dell’Architettura Cristiana da Costantino a Carlomagno, ediz. francese di A. Moret, Parigi 1866, Tav. XXXVIII, fig. 22 e Tav. XXXIX fig. 13.
  9. Idem Tav. XXXVI fig. 1 a 5.
  10. Idem Tav. XXXV fig. 9 e 10.
  11. Idem Tav. XLII fig. 4 a 7.
  12. Idem Tav. XXI fig. 1 a 3, Tav. XXII fig. 1 a 17.
  13. Le Arti del disegno in Italia, Parravicini, seguito del Selvatico.
  14. Hubsch, op. cit. pag. 78.
  15. Vedi la pianta topografica di Benevento dell’architetto M. Saverio Cassella.
  16. Alter antiq. etc. pag. 99.
  17. Vedi, Manos. citato di De Nicastro sulle antiche Chiese di Benevento, ove si parla di S. Sofia.
  18. Vol. I. nella Biblioteca Arcivescovile di Benevento, dove si parla della famiglia Roscio.
  19. D’Agincourt, op. cit. vol. 2. pag. 131, tav. XXIV, fig. 16; e Hubsch, op. cit. tav. LIV fig. 6.
  20. Vedi Istromento sopra citato di consegna ai tempi dell’Arciv. Orsini.
  21. Secondo la definizione del Cattaneo, L’Architettura in Italia dal secolo VI al mille circa, Venezia, Ongania MDCCCLXXXIX, pag. 40 e 41, fig. 10.
  22. Vedi luogo ultimo citato, giunta V alla traduzione del Vitruvio.
  23. Nelle Puglie, op. cit. pag. 88.
  24. Egli battezza pure il S. Mercurio per S. Maurizio.
  25. Op. cit. tomo I. pag. 263.
  26. Alter antiq. etc. pag. 99.
  27. Vedi pag. 366 di quest’opera.
  28. Vedi, Manos. Bibliot. di Benevento: Mario della Vipera, Breve descrizione delle famiglie Nobili di Benevento.
  29. Idem Idem Idem.
  30. Op. cit. pag. 33. in nota.
  31. Architettura del Medio Evo in Italia, Milano, Hoepli, 1880, pag. XV.
  32. Manoscritto citato sulle Chiese di Benevento.
  33. Op. cit. tom. I. pag. 266.
  34. Alter antiq. etc. pag. 102.
  35. Idem, Idem, pag. 102.
  36. Op. cit vol. 2. pag. 155.
  37. Op. cit. pag. 69, vedi testo e nota.
  38. Hubsch, op. cit. pag. 48.
  39. E. von Sacken, Stili di architettura, versione di R. Brayda, Torino, Loescher, 1879, pag. 130.
  40. Sacken istesso, aggiunte del traduttore Brayda, pag. 122. E Raff. Cattaneo, L’architettura in Italia dal secolo VI al 1000 circa, Venezia, Ongania, 1889, pag. 190.
  41. Op. cit. pag. 251.
  42. Cattaneo, op. cit. pag. 191.
  43. Op. cit. pag. 85.
  44. Op. cit. pag. 147 e seg. del vol. II.°
  45. Idem op. cit. pag. 147 del vol. II.
  46. Op. cit. pag. 138.
  47. Op. cit tom. II. pag. 285.
  48. Op. cit. pag. 138.
  49. Luogo ultimo citato.
  50. Op. sud. cit. pag. 239 della parte II.
  51. In Apolog. ad Ab. Guil. S. Theodori, cap. XII. Vedi anche: De Vita, op. cit. pag. 102. Selvatico, op. cit. pag. 239, parte II
  52. Storia dell’Arte vol. 2. pag. 132.
  53. Selvatico, Le arti del disegno, ecc. parte II. pag. 50.
  54. Storia dell’architettura ediz. cit. pag. 100.
  55. Op. cit. pag. 34 in nota.
  56. Vedi pag. 386 di quest’opera.
  57. Stefano Borgia, op. cit. parte I, pag. 96, in nota.
  58. Antichità Italiche, tomo I. pag. 234.