I giuochi della vita/I giuochi della vita

I giuochi della vita

../La morte scherza ../Padre Topes IncludiIntestazione 8 agosto 2018 75% Da definire

La morte scherza Padre Topes
[p. 145 modifica]

I GIUOCHI DELLA VITA.

[p. 147 modifica] Goulliau e sua moglie scendevano per Via Nazionale. Era ai primi di novembre, ma faceva già freddo e l'aria stagnava umida e nebbiosa sotto il cielo coperto.

A quell'ora, fra le otto e le nove, Via Nazionale perdevasi quasi deserta, fra due sfondi fumosi, sotto la luce violacea, ora viva ora smorta, delle lampade elettriche; molti negozi erano già chiusi, i marciapiedi parevano più larghi del solito; i tram scendevano a precipizio, mugolando, tra un fantastico splendore di scintille violette che apparivano e sparivano sui binari umidi. Nel deserto lontano di piazza Termini il getto della fontana slanciavasi tra la nebbia come un enorme stelo di cristallo color lilla.

I Goulliau camminavano in fretta per riscaldarsi; la moglie dava il braccio al [p. 148 modifica] egli stringeva nella sua la mano sottile di lei. Erano entrambi vestiti benino, ma con abiti ancora estivi: Goulliau aveva un’aria d’artista, i capelli lunghi ed il cappello a cencio: la moglie era alquanto più alta di lui, con un piccolo viso nerastro circondato da un grande arruffìo di capelli nerissimi sbuffanti sotto la paglietta nera guarnita di una piuma d’avoltoio.

Il giovine raccontava un sogno fatto la notte prima:

— Mi pareva che l’editore avesse risposto: accettava La Primavera e ci dava mille lire, ma voleva la proprietà assoluta, e voleva pubblicare il volume col tuo solo nome di signorina, perchè altrimenti, diceva, il romanzo sarebbe parso una traduzione.

— È un sogno o te lo sei immaginato tu? — domandò Carina con voce distratta.

— E me lo sia immaginato io! Tu non credi neppure ai sogni!

— Ci sono dei sogni così curiosi! — diss’ella animandosi; — anch’io ne ho fatti tanti, tanti che ora non ci credo più. Non importa: stasera sono di malumore, non badarci. Dopo tutto, di fame non morremo.

Tacque un momento, poi riprese: [p. 149 modifica]

— Ciò che mi avvilisce è il freddo: quando ho i piedi freddi non ragiono più: mi avvilisco come quando penso a ciò che tu sei.

— Che cosa sono io? — chiese il giovine ridendo.

— Un manutengolo vile.

Egli era impiegato nel Lotto, e per Carina, nemica di tutte le istituzioni, il Lotto era naturalmente un continuo ladrocinio.

— Benissimo, grazie, — disse il giovine inchinandosi. — E tu che mi hai sposato cosa sei?

— Manutengola anch'io, — ella rispose scherzando.

— Tu non avevi bisogno di ciò; e tuo padre....

— Basta! — diss'ella con voce quasi selvaggia.

Tacquero; e l'ora dei crudeli scherzi pareva passata, quando la giovine coppia raggiunse nel marciapiede, prima di arrivare al bazar Roma, due donne impellicciate, una delle quali lasciava strascicar la coda del vestito con un'aria ridicola da gran dama.

— Per acquetare i miei nervi ho bisogno di mettere il piede su quella coda, — disse piano Carina. — Infatti mise il piede sulla gonna dell'elegante signora e passò oltre trascinandosi dietro il marito esterrefatto. [p. 150 modifica]

La gran dama di “princisbecco„ imprecò in romanesco, ma i Goulliau eran già lontani, confusi tra i curiosi che guardavano le vetrine del bazar; e Carina rideva come una ragazzina.

— Chi le aveva detto di lasciar strascicare la coda? — diceva; — peggio per lei.

— Sei pur cattiva, però. E se lo facessero a te?

— Io non sono una bestia e perciò non posso aver la coda, — ella rispose. E riprese l’argomento di prima: — Son cattiva perchè fa freddo. Perchè deve far freddo? Perchè siamo poveri? Perchè mio padre ha sposato quella donnaccia e mi nega il sussidio mensile? Perchè non trovo un editore mentre tante stupide donne, tanti scimmiotti, tante cretine lo trovano?

— Il tuo torto è di crederti superiore a tutti, — disse Goulliau, dandosi un’aria paterna. — Ci son pure delle donne che hanno meritato il posto ove si trovano, perchè hanno lottato ed hanno avuto pazienza e costanza e non si sono credute qualche cosa finchè il pubblico non lo ha loro detto. Tu invece non vuoi lottare, e ti battezzi già da te per un fenomeno d’ingegno e ti credi una vittima perchè cinque o sei editori hanno respinto il tuo manoscritto. [p. 151 modifica] Vedi, io credo che se tu fossi più umile saresti più fortunata.

Per tutta risposta la moglie rise ancora, beffarda, ma Goulliau non si offese. E non si offese perchè non si sentiva veramente convinto degli argomenti che adoprava per confortare la moglie.

— Un altro tuo torto, — riprese tuttavia, — è quello di voler mandare il manoscritto soltanto ai grandi editori: un modesto editore potrebbe....

Carina sbuffò, sospirò, scosse il marito.

— Non ne posso più! — disse. — Fammi il piacere di finirla o ti cavo gli occhi.

— Grazie. Sei ben gentile!

Non parlarono più.

Intanto erano giunti vicino al teatro Nazionale e si fermarono un momento davanti alla vetrina Mantegazza, guardando i libri nuovi.

Entrambi pensavano sempre alla stessa cosa, ma non osavano più parlarne.

Una luce cruda, che rendeva azzurrognolo il viso dei passanti, inondava la vastità delle vie ora pullulanti di carrozze e di folla: i marciapiedi viscidi splendevano al riflesso dei caratteri elettrici che sulla facciata del Nazionale stampavano con lettere di fuoco il titolo [p. 152 modifica] della commedia che si rappresentava quella sera. La gente affluiva al teatro: una botte si fermò presso i Goulliau, e ne scesero due donne, una grossa, dipinta, col gran cappello piumato, e l’altra a testa nuda, bionda, sottile, poveramente vestita. La prima si avviò al teatro, la seconda si fermò presso Carina, guardando automaticamente la vetrina del libraio: aveva gli occhi cerchiati, fissi, verdognoli, in un viso immobile di cera. Vedendosi osservata da Carina si volse, si animò, guardò la giovine coppia con invidia selvaggia, poi andò via.

— C’è della gente più infelice di noi, — pensò Carina, ma non si confortò.

Passarono oltre. Dall’arco della Pilotta veniva fuori una carriola carica di lamine di ferro che producevano uno scroscio metallico assordante; seguiva un carretto tirato da un asino e i Goulliau passarono di corsa tra i due veicoli, l’ultimo dei quali fu sul punto di investirli.

— Ci mancherebbe altro che di essere investiti da un asino! — disse Carina. — Poco male da un automobile, ma da un asino!

— E meno pericoloso: ti servirebbe di rèclame. [p. 153 modifica]

— Giammai! Giammai! Giammai! — diss’ella scuotendo il capo. — Una volta Candido e Pangloss, o come si chiamava, volevano suicidarsi, ma avevano la rogna, e non si uccisero per paura che il giornale locale scrivesse che s’ erano suicidati perchè avevano quella brutta malattia.

— Che c’entra? — chiese il giovine.

— Ecco, — spiegò Carina, — preferisco che il giornale non faccia il mio nome anzichè dica che sono stata investita da un asino: ma dimmi un po’, fin dove arriviamo?

— Fin dove vuoi. Entriamo al caffè? Permetti che ti offra qualcosa? — chiese Goulliau galantemente.

— Grazie, signore, non prendo niente! — ella rispose sullo stesso tono.

Tutte le sere avveniva quella piccola scena: Goulliau offriva a Carina di condurla al caffè, ella rifiutava; pareva uno scherzo, ma quello scherzo riusciva loro amaro, perchè entrambi sapevano che oramai non potevano più permettersi il lusso di andare al caffè.

Arrivati in piazza Venezia si fermarono ancora all’angolo del Corso e videro un collega di Goulliau fermo in ammirazione davanti alle vetrine del pizzicagnolo Dagnino. [p. 154 modifica]

— Calzi! — chiamò il giovine.

L’altro si volse: era un individuo d’età incerta, avvolto in un mantello turchino, di quelli che si usavano quindici anni fa; un tipo d’ebreo biondo con un piccolo cappello duro posato un po’ indietro e un po’ a sghembo sui capelli rossastri divisi da una larga scriminatura. Sull’occhio destro teneva il monocolo, che lo costringeva ad un continuo sogghigno.

— Come va? — chiese, volgendosi verso Goulliau.

Egli non guardava mai in viso Carina, sebbene fossero amici da molto tempo, e mai le rivolgeva per primo la parola.

— Che cosa fai? — chiese Goulliau. — Che cosa scopri di nuovo?

— Sai, — rispose l’altro con grande serietà e importanza, — da questo pizzicagnolo ho scoperto una bellissima cosa: il salame di Viadana!

— Davvero?! — disse Goulliau, fingendo una grande sorpresa. — Ed altro, cosa?

Intanto guardava anch’egli nella vetrina, ma la moglie lo tirò per il braccio.

— Andiamo, — disse, — perchè guardate queste porcherie?... Venga con noi, signor Calzi, altrimenti vada a farsi benedire.... [p. 155 modifica]

Il Calzi si mise a fianco di Goulliau che gli disse:

— Dall’altra parte! Sei poco galante, caro mio. Tu non farai mai carriera.

Il Calzi passò vicino a Carina.

Anche il Corso era quasi deserto, vuoto, col lastrico fangoso e sporco: sembrava un immenso andito, sotto la lontana vôlta del cielo nero, con le lampade immobili, pallide e giallognole fra la nebbia.

— Come vanno i suoi matrimoni? — chiese Carina.

Il Calzi, che si fermava davanti a tutte le vetrine, il cui riflesso faceva scintillare il suo monocolo, cominciò a ridere di soddisfazione e di piacere per la domanda della giovine signora.

— Benissimo! Benissimo! Solo che.... che c’è troppo da scegliere; ci vogliono più francobolli che altro. Ma perchè lei non s’è messa la mantella che aveva l’altra sera? Non ha freddo così?

— E pare che non mi guardi! — disse Carina. — Dunque, dunque, cosa si conclude?

— Niente ancora. Pazienza e sangue fresco, diceva l’apostolo santa Barbara. È un giuoco [p. 156 modifica] che mi diverte assai, tanto più che spero di trovare una carta buona.

— Ma quella vedova? non avevate poi combinato? — domandò Goulliau, sporgendosi in avanti.

— Ma che vedova! niente affatto, non era una vedova.

— Che cosa diavolo era dunque?

— Qualche cosa di simile! — disse Carina ridendo. — I soldi c’erano però, signor Calzi? Sì? E allora cosa vuole? Se ci sono i soldi, coraggio e sangue fresco, non badi ad altro.

— Ma non c’erano neppure i soldi, cara lei. Ora senti che mi capita oggi. Senti, senti! — disse Calzi, rivolgendo quel senti senti più a sè che agli altri.

Si tolse il monocolo e cominciò ad alitarlo e pulirlo. Intanto raccontava:

— Ieri mi arriva una lettera: è la ventottesima, credo: te la farò vedere: "Caro signore, ho letto il suo avviso sulla Tribuna: credo che io possa convenirle, ecc., ecc. Quarant’anni, piacente, trentamila contanti, ecc., ecc. Per combinar meglio, se ella crede, venga domani alle dieci davanti al giardinetto Carlo Alberto: sarò vestita così, ecc., ecc. Lei tenga [p. 157 modifica] una margherita all’occhiello„. Vattelapesca ora le margherite! Basta....

— Poteva metterla di carta.

— Basta. Vado, c’incontriamo: un rinoceronte, ma piacente davvero. Più cinquanta anni che quaranta, basta, questo non importa. Mi fa vedere i suoi documenti, tutto in regola; accenno ai miei debiti: essa intende di pagarli; intanto camminiamo, e senza avvedercene, quasi, arriviamo davanti a Buton. Automaticamente, per abitudine, io mi fermo a guardare: anch’essa si ferma: allora io la invito ad entrare e bere un bicchierino di curaçao. A proposito, sai cosa ho scoperto? Il liquore di ginepro, autentico, fabbricato dai frati della gran Certosa.

— Ma davvero? — lo canzonò ancora Goulliau, al quale il Calzi si rivolgeva sempre. — Dove? dove?

— Continui la storia, signor Calzi! — supplicò Carina.

Ma pareva che all’altro premesse più il ginepro, perchè propose con insistenza di tornare indietro per indicare ai Goulliau il bar dove si trovava il liquore.

— Front’indietro! — disse tosto il giovine, sempre canzonando. [p. 158 modifica]

— Io non vengo! — rispose Carina.

— Signora Caterina! Ed io non racconto oltre.

Allora tornarono indietro, tanto più che la nebbia addensavasi, umida e fredda; risalirono piazza Venezia ed entrarono nel bar. Il Calzi proseguiva il racconto:

— Dunque il rinoceronte accetta! Accidenti, uno, due, tre bicchierini, l’ultimo dei quali lo vuol pagar lei. Poi mi fa una proposta: “Andiamo fuori porta a far colazione; paghiamo metà per uno„. — Andiamo: va benissimo.

— Ha fatto pagare tutto a te?

— No, abbiamo pagato a metà, ma s’è presa una sbornia terribile: ho dovuto farla mettere a letto, e l’ho lasciata lì: che Dio ti benedica e Maria Santissima. Tre bicchierini di ginepro! — gridò il Calzi, entrando nel bar.

Un uomo con due cagnolini, uno più minuscolo dell’altro, stava fermo davanti al banco. Carina si chinò per guardare le microscopiche bestiuole e domandò se erano madre e figlio.

— Quello là è il nonno! — disse l’uomo dispettosamente, quasi offeso

— Cosa mangiano?

— Trenta centesimi di biscotti al giorno e un po’ di latte. [p. 159 modifica]

Carina si sollevò sospirando.

— Ti piacerebbe averlo? — chiese Goulliau rivolgendosi alla moglie come ad una bambina. — L’anno venturo l’avrai: allora saremo ricchi.

— Già! Già! — disse brutalmente il Calzi. — L’avrete più grosso di questo. Senti, senti! Senti il ginepro, senti che aroma, senti che delicatezza! Sono veri o finti quei cagnolini? Signora Caterina, non si lecca le labbra?

— Sembra acquavite — disse Carina.

— Già, già, acquavite! — esclamò offeso il Calzi. Uscirono assieme, ma egli rientrò un momento nel bar, poi raggiunse i Goulliau e li accompagnò fino a casa. Risalirono via Nazionale, via Quattro Fontane, via Venti Settembre, ove i Goulliau abitavano all’ ultimo piano di un immenso palazzo. Nella via deserta i quadruplici fanali parevano mostruosi fiori gialli velati di nebbia: nell’angolo della fontana verso il palazzo Barberini una gobbetta bionda rannicchiata su una sedia vegliava il suo piccolo banco di fiammiferi e di giornali. Una tristezza infinita gravava sul quadrivio fangoso, insolitamente deserto, chiuso dagli sfondi nebbiosi; e la gobbetta pareva il genio deforme e melanconico della notte fredda [p. 160 modifica] illuminata dai grandi fiori strani dei fanali gialli. Carina osservò ogni cosa e si sentì stringere il cuore da una tristezza profonda. Il chiacchierìo del signor Calzi le urtò i nervi come lo stridere di un ferro arrugginito, tanto che sentì il bisogno di dire qualche insolenza

— Signor Teodoro, — chiese, — perchè non si suicida, lei? Che fa nella vita?

L’uomo la guardò stupito; poi guardò Goulliau e vedendolo ridere si mise un dito sulla fronte e scosse più volte il capo.

Entrarono nell’atrio principesco del palazzone ove i Goulliau abitavano: una fontana mormorava in fondo al cortile, una grande lampada splendeva fra le colonne di marmo dell’ingresso maestoso. Ogni volta che Calzi attraversava quell’atrio sentiva una specie di reverenza, quasi attraversasse un tempio, e si fermava a guardare i gradini marmorei del res — de — chaussèe, e una nicchia ove biancheggiava una statua di pessimo gusto.

Anche questa volta si fermò, e Goulliau con lui: Carina andò avanti per vedere se presso il portiere c’era qualche lettera per lei.

— Chi ci sta qui? — chiese Teodoro Calzi con sempre nuova meraviglia. — Accidenti, [p. 161 modifica] questi signori, si mettono le statue anche nelle scale!

— Se vedessi l’ingresso! — disse Goulliau. — L’altro ieri stava aperto perchè c’era ricevimento: tutto di velluto, con alberi veri.

— Accidenti, chi ci sta?

— Una signora tedesca con la parrucca Guarda! — esclamò Goulliau, come colpito da un’idea luminosa. — Ti converrebbe benissimo, quella.

— Senti! senti! — disse l’altro, con un modesto riso di soddisfazione; ma tosto cambiò discorso.

— Peccato che non ci siano negozi in via Venti Settembre, — disse, — a me non piace per ciò.

— Che vuoi? oltre il re ci stiamo noi signori e non vogliamo essere disturbati.... — rispose Goulliau, ma lo scherzo gli morì sulle labbra vedendo ritornar Carina, con un plico in mano.

— Il tuo sogno, eccolo! — ella disse con voce amara e dispettosa, quasi incolpando il marito perchè il romanzo veniva ancora respinto. E s’avviò per la seconda scala dagli alti gradini nudi: il marito la seguì, e Calzi, sebbene non invitato a salire, preso dalla viva [p. 162 modifica] curiosità di sapere che cosa conteneva il plico, raggiunse i Goulliau.

— Non l’hanno neppure letto, neppure letto! — diceva Carina, salendo rapidamente le scale, nel cui vuoto gelido la sua voce risuonava ansante e amara.

— Cosa non hanno letto? — si domandava Calzi; e pensò una gherminella per far parlare Goulliau, ma non in presenza di quell’indiavolata della signora Caterina. Si fermò al primo pianerottolo e cominciò a gridare:

— Amico, spero bene non mi farai salire fino alla cupola per dirti buona notte.

Goulliau si fermò, mentre Carina continuava a salire.

— Buona notte, dunque, — disse Calzi, raggiungendo il giovine che aveva preso un’aria funebre.

— Non vieni su?

— A far che?

— Ti darò un bicchier di vino.

Calzi meditò alquanto.

— Che vino è?

— Toscano.

— Sai dove c’è del buon toscano? — Ne tal posto: proprio stupendo.

Goulliau s’irritò un po’, questa volta, e fu [p. 163 modifica] per risponder male; ma al contrario di sua moglie egli sapeva dominare i proprii nervi, e ripetè l’invito che il Calzi accettò senza farsi pregare oltre.

Carina era già molto su, e Goulliau saliva lentamente, come stanco e distratto, fermandosi ogni tanto.

— Quanti gradini avete? Trecentomila? — disse Calzi. — Ogni volta faccio una sudatina che è un piacere.

Vedendo che l’altro non gli badava lo raggiunse e lo prese per il braccio.

— Pazienza e sangue fresco! — riprese; poi abbassò la voce: — cos’è quell’affare che ha ricevuto tua moglie?

— Un manoscritto, — rispose Goulliau suggestionato. — Il manoscritto di un bellissimo romanzo che essa ha scritto. Ella però si ostina a mandarlo ai grandi editori, che naturalmente lo respingono.

— Senti! senti! Tua moglie una scrittrice! Questa è nuova, diceva l’apostolo Santa Barbara.

— Non ha pubblicato mai niente, però, — disse Goulliau. — E il suo torto è di volersi far conoscere tutto ad un tratto.

— Senti! senti! — ripeteva a sè stesso [p. 164 modifica] Teodoro Calzi, pieno di meraviglia. — Come è lungo? Molto?

— No, è piuttosto breve; quasi una novella, ma originalissimo. Ho letto pochi romanzi così perfetti, — rispose Goulliau.

— Io lo venderei, — disse Teodoro, fattosi pensieroso. — Un avviso sulla Tribuna. C’è sempre della gente che ha soldi da buttare. Giacchè l’editore non si trova!

— Calzi! — disse inorridito Goulliau, pensando a Carina. — Se ella ti sentisse!

— Ella è un altro paio di calzoni! — esclamò Teodoro non senza un certo disprezzo. — Le donne non ragionano mai. Accidenti, centosessantotto gradini! la torre del mio paese ne ha la metà.

Eran giunti.

— Che puzza! — disse Calzi entrando nella piccola anticamera buia: — non aprite mai le finestre, voi? eppure qui dell’aria ce n’è.

— Ma che puzza d’Egitto! — esclamò Goulliau, cominciando ad irritarsi davvero. — Dov’è la puzza? Sono i fiori che Carina ha portato da Ponte Nomentano.

— Fiori o non fiori, — riprese l’altro alzando la voce, — qui c’è un odore orribile, e se non apri la finestra io non entro. [p. 165 modifica]

Goulliau dovette aprire la finestra della stanza da pranzo, che fungeva anche da salotto, mentre Carina rifugiavasi in camera da letto per sfuggire alla tentazione di scaraventare contro Teodoro il plico che teneva in mano.

*

— Sei già a letto? Dormi? — chiese Goulliau entrando in camera circa mezz’ora dopo.

Carina, nascosta fin sul capo sotto la coperta rossa, mise fuori un dito e accennò di no.

— E i piedi come vanno?

— Bollenti.

— Che tipo quel Calzi! — disse il giovine, mentre si spogliava. — Non se n’è andato finchè non è riuscito a farmi dire ciò che conteneva il plico da te ricevuto.

— Potevi farne a meno! — gridò Carina mettendo il capo fuori e arrossendo di stizza.

— Calma, calma! — disse Goulliau, lasciando cadere una dopo l’altra le sue scarpe colorate, — egli conosce tanta gente, egli può parlare con qualcuno: conosce tipografi, giornalisti, deputati: tu sai che egli è una specie d’uomo d’affari. [p. 166 modifica]

— Io non ho bisogno di questa gente.

— Tu non hai bisogno di nessuno: e tutti però fanno a meno di te! — disse il marito, risentito.

Ella non rispose, colpita da quella triste verità. Goulliau prese in mano uno dei suoi stivali e automaticamente lo esaminò; e s’accorse che lo stivale, oltrechè essere più d’estate che d’inverno, andava consumandosi, senza rompersi, come un malato che si ostina a non volersi dare a letto. Che tristezza, che tristezza in quella povera scarpa colorata e consumata come una persona tisica! Goulliau la rimise sul tappeto, e nel curvarsi a far ciò fu preso da un impeto di ribellione contro sua moglie. Prima di sfogarsi, però, si tolse anche le calze, le buttò sul tappeto, poi parlò:

— Senti, certe volte io non arrivo a capirti: sei irragionevole come un cavallo maremmano. Cosa intendi di fare ora? Levatelo di testa, nè Treves, nè Roux, nè altro editore, neppure Salani, giacchè me lo fai dire, pubblicheranno mai il tuo romanzo. Sarà, è anzi un capolavoro, ma non lo pubblicheranno. Perchè ti ostini? Portalo ad un giornale: fallo conoscere, pubblicalo in un’appendice, ma pubblicalo: che cosa speri? Tu rassomigli a [p. 167 modifica] coloro che avendo un capitale e volendolo raddoppiare lo tengono infruttuoso piuttosto che darlo a miti interessi. Guarda altre scrittrici; han cominciato su giornaletti di provincia ed ora sono arrivate alle più grandi riviste europee.

Carina rideva, di nuovo nascosta sotto la coperta. Incoraggiato da quel riso, Goulliau staccò da un chiodo la camicia da notte, e disse:

— C’è il tal giornale che paga benissimo le appendici: e poi si obbliga di far pubblicare a volume il romanzo, riservandosi tutti i vantaggi di questa prima edizione. Perchè tu non potresti...

— È quella bestia del tuo degno collega che ti ha consigliato? — gridò Carina, mostrando di nuovo il viso infiammato sul candore del lenzuolo scosso. — Impiegati, impiegati! Voi non vedete al di là di due miserabili soldi!

— Ah, è vero! — continuò amaramente. — Io non ho più niente da portare sulla mensa quotidiana. Mio padre mi nega ciò che mi aveva promesso, per dar da mangiare ad una donnaccia; io non produco, è vero, io non produco niente. È giusto dunque che io venda [p. 168 modifica] il mio pensiero; è giusto dunque che io abbassi la mia arte al mestiere di una serva! È giusto dunque che io metta in una triviale appendice il sogno della mia anima, per convertire in pane i soldi che le serve, che i cocchieri, che i fantaccini, lettori dell’appendice, mi daranno per l’ora di gaudio che io ho loro venduto.... Vuol dire....

— Carina, tu ammattisci! — disse il marito coricandosi. — Càlmati; io non ho voluto dire.... Carina mia!...

Cercò di abbracciarla, ma ella lo respinse mettendogli le mani sul petto.

— Piuttosto, vedi, — disse, calmandosi, — vendo il romanzo a qualche persona cretina che lo pubblicherà col suo nome. Mi avvilirò io, ma non avvilirò l’opera mia.

Goulliau ricordò che Calzi aveva avuto la stessa idea, ma non disse niente per non irritare oltre sua moglie. Non manifestò neppure i suoi apprezzamenti su quell’idea che nel Calzi era il principio e in Carina la fine di un ragionamento, ma sentì un profondo disgusto della logica dell’amico e della moglie. Solo osservò:

— Ma la persona che acquista il romanzo può pubblicarlo egualmente in appendice o da un editore popolare. [p. 169 modifica]

— Sei bene ingenuo! Chi compra un libro non lo compra per rivenderlo, e come paga l’autore paga il grande editore che glielo pubblica, — rispose Carina, calmatasi interamente.

— E allora facciamo la pace! — disse il marito. — Oh, come hai i piedi freddi! Dicevi che erano bollenti!

— Sono bollenti perchè ho l’illusione che lo sieno. Chi può togliermi l’illusione? Vedi, mentre tu eri di là col tuo collega, io sognavo, mi formavo l’illusione di essere.... Ma perchè devo dirtelo? No, non te lo voglio dire: non lo meriti!

— Carina, — disse il giovine, con voce seria, — anch’io avevo l’illusione d’essere un uomo felice perchè lavoravo ed amavo, perchè andavo d’ accordo con mia moglie ed essa andava d’accordo con me; perchè eravamo poveri di denari ma ricchi di sogni, di amore, di buona volontà, ed anche di spirito; perchè infine possedevamo tutte le cose che i denari e la gloria non possono dare. Ora questa illusione mi pare che stia per svanire, perchè io conosco una persona che quando sta bene, quando non è perseguitata dalle piccole avversità della vita, dice delle grandi parolone, dice che è forte, che è altera di [p. 170 modifica] essere povera e di essere un genio sconosciuto, che è buona e generosa; e poi, al primo ostacolo che trova si impenna e diventa cattiva come il diavolo....

— Io dormo.... — disse Carina, che aveva chiuso gli occhi. — Il frate può rivolgersi al muro per continuare il suo sermone.

Ma Goulliau sentì che la voce di lei era mutata, e si volse, non per rivolgere il suo discorso al muro, ma per spegnere il lume. E poco dopo, nel buio della camera, rotto appena dal chiarore dei vetri senza cortine, che guardavano su uno sfondo di nuvole lontane, s’udì il suono d’un bacio.

*

Carina fu la prima a svegliarsi, e appena mise fuori della coperta la testina arruffata, si accorse che la giornata era bella e provò un impeto di gioia.

Attraverso i vetri appannati si sentiva il cielo purissimo: un grido liquido d’allodola veniva su, fra i canti di mille altri uccellini raccolti su gli alberi di villa Barberini, e dava a Carina l’idea di un lungo stelo d’acqua che si slancia fra i mille piccoli getti d’una fontana. [p. 171 modifica] Il rumore incessante delle carrozze arrivava come lo scroscio lontano di un torrente.

Al romorìo delle carrozze ed al canto degli uccelli fondevasi un timido lamento di violino, proveniente dalle due camere attigue, subaffittate ad un signore straniero.

Carina stette ad ascoltare: vedeva gli alberi gialli dei sottostanti giardini, quieti e roridi nel mattino autunnale, e le allodole e gli uccellini bagnati dalla rugiada delle foglie. L’allodola doveva aver freddo, forse anche fame, eppure il suo grido era allegro e infondeva letizia.

Ella ripensò al plico buttato sul tavolino, e rassomigliò il suo lavoro al canto degli uccelli. Era una storia lieta, tutta di felicità, fresca e soave come il titolo che l’adornava. Chi l’avrebbe letta avrebbe provato la sensazione di gioia che desta il canto degli uccelli; mentre, come gli uccelli al sopraggiungere dell’inverno, che l’aveva scritta soffrirebbe il freddo e, chissà, forse anche la fame.

Carina non si creava illusioni, sebbene affermasse il contrario. Lo stipendio di Goulliau non poteva bastare oltre: di giorno in giorno tutte le cose più necessarie alla vita diventavano più care; l’anno santo gettava su [p. 172 modifica] Roma una maledizione infernale. Piuttosto che andare ad abitare in un’altra casa, e per non perdere la luce ed il sole della camera da letto, ove Carina passava tutta la giornata, i Goulliau avevano subaffittato due camere del loro appartamentino; ma ciò non bastava, non bastava! Carina aveva licenziato la serva, e preso a mezzo servizio una vecchia cognata del portinaio; ma neppure questo bastava. Con tutto ciò Carina non si disperava; ma quando aveva freddo non riusciva a dominare i suoi nervi; e una tristezza accorata la assaliva, pensando che avrebbe dato alla vita la creatura il cui germe cominciava appena a fecondarsi in lei, prima di aver raggiunto i suoi sogni di benessere.

E quei sogni che prima l’abbandonavano di rado ora cominciavano a sembrarle vani; i suoi nervi si risentivan del freddo come le corde di uno strumento musicale, e la sua anima rifletteva le nuvole autunnali come l’acqua d’un fiume; ma poi bastava il riflesso del sole, un grido d’allodola, la vibrazione dell’aria mattutina, per accordare nuovamente lo strumento e dissipare ogni nuvola.

Quella mattina, quando il marito si svegliò. ella gli rivolse un discorsetto filosofico: [p. 173 modifica]

— Ascoltavo gli uccelli, — disse, — e pensavo che essi non hanno casa, nè pane, nè vestiti, eppure sono lieti, non solo, ma cercano, coscientemente o no, di rallegrare chi ascolta il loro grido. Perchè non potremmo essere anche noi simili agli uccelli?

— ....Perchè? — rispose il giovane. — Perchè non possiamo prendere ciò che troviamo, come gli uccelli....

— Perchè non sappiamo prenderlo, — disse Carina.

— È quanto ti dicevo ieri sera, dunque! — esclamò il marito.

— Non ricordo che tu mi abbi detto ciò, riprese lei. — Però ora ti farò vedere se anche io saprò o no prendere il mio bene dove lo trovo.

— Che farai?

— Andrò dal direttore di quel giornale per offrirgli La Primavera. Se non la vuol lui, la vendo al primo che capita.

Vedendo che ella ripeteva sul serio quest’ultima idea, Goulliau s’ oscurò in viso, e disse con voce dura:

— Io non permetterò mai ciò: comprendi? Mai

È quel che vedrem! — diss’ella cantando. [p. 174 modifica] Poi si alzò, si lavò, si pettinò, andò ad aprire la porta alla donna di servizio.

— Buon giorno, signora padrona! Che caldo oggi! — esclamò la donna, una vecchietta stretta nel busto, coi capelli d’un biondo vivo, pettinata all’Iris, e con una vecchia pelliccia di Mongolia che le dava un’aria da signora.

— Siete venuta tardi, — disse Carina: — accendete subito il fuoco.

— È lei che s’è alzata presto, — rispose la donnina, levandosi la mantella. — È già pettinata: uh, come è mal pettinata, coi suoi bei capelli! Se vedesse la signora del padrone di casa come si pettina bene!

Carina rientrò in camera e andò a scuotere il marito che leggeva.

— Suvvia, àlzati, àlzati, chè voglio aprir la finestra.

— Che hai stamattina, uccellino? — chiese Goulliau, scompigliandole i capelli. — Che cosa hai sognato?

— Lasciami, sono abbastanza spettinata. Lasciami, voglio aprir la finestra, voglio uscire; àlzati, lasciami, — diss’ella dibattendosi fra le braccia di Goulliau che le cingevano il collo. [p. 175 modifica]

— Hai il diavolo addosso, stamattina, — — diss’egli. — Dove vuoi andare a quest’ora?

Mentre egli finiva di vestirsi, Carina aprì la finestra e si affacciò; e sebbene abituata al sublime panorama che godeva quotidianamente dal suo alto davanzale, non potè reprimere un piccolo grido di ammirazione. Durante la notte aveva piovuto, ed ora tutta Roma, splendente fra tenui vapori azzurrognoli, pareva emergere dal mattino autunnale come una città magica tra i veli appena squarciati d’un incantesimo.

Nell’ampio semicerchio dell’orizzonte il cielo incurvavasi con tenere sfumature di viola; linee di campagna verdi come il musco, alberi vaporosi come nuvole, nuvole rosee profilate d’oro, colorivano le lontananze della visione meravigliosa. Sotto la finestra di Carina, nei giardini Barberini, l’autunno sorrideva con tutti i suoi fascini. Gli alberi di un giallo acceso, e taluni di un rosso rugginoso, scintillavano, ancora bagnati dalla pioggia, e sullo sfondo dei viali carnicini sembravano enormi mazzi di fiori. Sulle statue corrose saltellavano gli uccelli: non un soffio di vento. non persona viva animava la solitudine del luogo: striscie d’acqua stagnavano sui gradini [p. 176 modifica] del belvedere, qualche foglia gialla volteggiava per l’aria fresca, cadendo silenziosa sui viali chiari. Sembrava un giardino incantato e ignoto, raccolto nel seno della città; una perla giallognola nel cavo d’una conchiglia canora.

Quel giardino era la gioia e lo spasimo di Carina, che lo desiderava ardentemente e lo possedeva solo con lo sguardo. Tranne i giardinieri, ella non vedeva mai nessuno attraversare i viali gialli di sole o di luna, sempre pieni di sogni e di canti d’uccelli; e rassomigliava quel luogo ad un tesoro custodito da un drago maligno, che non lo godeva e proibiva agli altri di goderlo.

Oh, scendere laggiù, nel perlato mattino d’autunno, godere la fragranza delle foglie morenti, la visione aperta del cielo brillante attraverso gli alberi d’oro: abbracciare, nella gioia del puro mattino, le vecchie statue corrose dal tempo e dalla loro stessa inutilità, gridare con l’allodola, scuotere i rami stillanti acqua e foglie morte di noia; dar vita al luogo, prender vita dal luogo magnifico e vano!

Chi le impediva di far ciò?

Qual drago stupido custodiva i cancelli, e gliene proibiva l’ingresso?

Pensò ai giardinetti aperti al pubblico ove [p. 177 modifica] ella andava a prendere il sole con le vecchie povere, e per concatenazione d’ idee pensò al giardino Carlo Alberto che doveva attraversare quella mattina per recarsi dal direttore del giornale al quale voleva recare il suo manoscritto. E subito sentì un’onda di disgusto e di amarezza coprirle il cuore, ricordando che doveva convertire in pane il suo lavoro ideale. Si tolse dal davanzale e chiuse fragorosamente la finestra.

Goulliau aveva finito di vestirsi e spazzolava accuratamente il suo non nuovissimo cappello, dicendogli con rassegnazione melanconica:

— E ora andiamo in quella galera....

Carina guardò il cappello, sentì le parole che Goulliau rivolgeva al suo compagno di sventura, e dimenticò gli uccellini, la bella giornata, la visione meravigliosa di Roma, tutte le cose belle ed inutili che poco prima l’avevano rallegrata.

*

Uscito il marito, ella scrisse al padre una lettera piena di insolenze, poi prese il suo manoscritto, uscì e andò alla stazione ad [p. 178 modifica] impostare la lettera. Le vie erano fangose, ma il cielo era azzurro e l’aria tiepida; nell’orizzonte alcune nuvole brillavano come colline d’argento. Nella piazza della stazione, la folla aspettava un pellegrinaggio meridionale. Dagli alberi del giardino piovevano goccie e foglie d’oro pallido; i tram scivolevano rapidi tra la gente che indietreggiava come al passaggio di una grossa ma tranquilla bestia.

E Carina dimenticò le proprie cure per il piacere che sempre provava nell’osservare la vita multiforme della folla: piacere un po’ caustico, o almeno creduto tale dalla giovine signora, che spesso, quando si fermava fra un agglomeramento di gente stretta intorno ad un ciarlatano, ad una vetrina, ad un furbo monello che disegnava una figura sul marciapiede, scusava la sua curiosità col crederla puramente artistica.

Ella impostò la lettera, poi si avanzò fino alle uscite della stazione, davanti alle quali s’allungava l’ immobile fila delle monumentali vetture degli alberghi: qualche vetro luceva, un cocchiere, seduto più alto degli altri, dominava la folla con una figura imponente di diplomatico da palcoscenico.

All’arrivo dei pellegrini la gente s’accalcò in [p. 179 modifica]torno alle uscite; i soliti preti lunghi e grossi, con la barba non rasa da varii giorni, guidavano o spingevano torme di povere donne cariche di fagotti, stanche e piene di stupore. Un numero straordinario di venditori ambulanti prese d’assalto pellegrine e preti: uno specialmente, che pareva un signore, biondo ed elegante, agitava sul viso alle povere donne un fascio di coroncine dorate, gridando con voce monotona:

— Due soldi! Due soldi! Due soldi! I rosari dell’anno santo: due soldi, due soldi, due soldi!

Alcuni piccoli lustrascarpe, nascosti tra la folla, cominciarono a pulire rapidamente gli stivali delle pellegrine, mentre una nana, dal giacchettino violetto col suo bravo colletto di pelliccia, con le taschine piene di biglietti della fortuna, mormorava:

— Le guardie! Le guardie!

Due pellegrine, presso le quali Carina si fermò, guardarono la nana come un essere sovrannaturale; il piccolo essere s’ accorse della curiosità che destava, e ne profittò per vendere alle donne i biglietti della fortuna.

— Avanti! — disse un prete con voce rauca, spingendo le pellegrine. [p. 180 modifica] Venditori ambulanti e spacciatori di cartoline s’incrociavano e s’urtavano confidenzialmente: un tiepido odore di pasticcini errava nell’aria; mille voci vibravano tra il rumore diffuso e ronzante prodotto dalle vetture correnti, dai tram, dai suoni lontani.

Un grosso prete svenne tra la folla che gli si precipitò attorno; anche Carina si spinse in avanti, e fra cento teste curiose ella intravide la fronte calva del prete farsi rossa e poi pavonazza, udì uno scherzo triviale mormorato da un venditore di pasticcini, e sorrise. Ma subito provò disgusto del suo sorriso volgare e crudele, e si scostò dalla folla con un senso di vergogna e d’ira contro sè stessa che s’era mischiata alla massa incosciente.

Mentre attraversava la piazza, una bicicletta le passò rasente: ella riconobbe nel ciclista biondastro dal berretto a visiera, un cronista del giornale verso la redazione del quale si dirigeva, e arrossì.

— Eppure non sono timida! — disse a sè stessa. — Ho arrossito come se colui si fosse accorto ch’io vado ad elemosinare qualcosa.

E camminò. Le strade s’asciugavano [p. 181 modifica] rapidamente, i marciapiedi sembravano lavati: tutta via Nazionale, nel cui sfondo, sul cielo azzurro, salivano piccole nuvole d’un grigio dorato, era invasa da una viva luce azzurrognola, e le figure dei passanti si delineavano con nitidi contorni come in una luminosa fotografia.

Carina amava la grande e simpatica via con l’amore che si nutre per un paesaggio, per un motivo, per un’opera d’arte: talvolta, in certe ore della giornata, sotto certi effetti di luce, seguendo il largo ondeggiare della folla o perdendosi nei grandi marciapiedi vuoti, ella provava una specie d’incantesimo e non si accorgeva di camminare, o le pareva di attraversare un fiume, provando tutto il fascino che dà il riflesso dell’acqua corrente.

Anche quella mattina, nella luce azzurrognola che illuminava i marciapiedi chiari, ella provò quel vago senso di beatitudine e di astrazione, pur ricordando dove era diretta e sembrandole di andare a compiere il brutale sacrifizio di tutti i suoi ideali d’arte.

— Io non sono timida: avanti! — ripetè a sè stessa, penetrando nella redazione del giornale.

Nella scala incontrò una signora vestita di nero, e quest’incontro la incoraggiò. [p. 182 modifica]

Avanti. Un caldo soffocante gravava nell’aria della scala un po’ buia. Arrivata su, Carina si fermò ansante: il cuore le batteva forte.

Un ragazzo pallido, con gli occhi indifferenti e cerchiati d’uomo corrotto, le domandò cosa desiderava.

— Il direttore.

— Non è venuto.

Ella, ricordandosi che non era timida, prese un tono arrogante:

— Se mi ha detto di venire alle undici! Portategli la mia carta!

Il giovinetto prese la carta da visita, sparì, ritornò.

— Favorisca.

Carina si trovò in una grande sala dalle cui alte invetriate pioveva una luce grigia di crepuscolo: vecchi divani gialli ed un gran tavolo coperto di panno verde formavano tutto il mobilio.

Un operaio, seduto in un angolo, aspettava pazientemente e timidamente. Carina provò ancora una volta un sentimento di umiliazione, vedendo che l’ora passava, che nessuno veniva a chiamarla, che ella, col suo manoscritto fra le mani, doveva aspettare pazientemente e timidamente come l’operaio venuto [p. 183 modifica] forse per reclamare contro qualche notizia di cronaca; e ad un tratto si ribellò ed uscì nell’andito. Parecchi individui entravano e uscivano: per gli usci spalancati s’udivano voci e risate d’uomini: qualcuno parlava al telefono, un giovine con una tazza di caffè in mano apparve in fondo all’andito, e vedendo Carina le andò incontro.

— C’è il direttore? — ella chiese arrossendo.

— Favorisca, — disse il giovine.

La introdusse in un salotto quasi buio, e mentr’ella aspettava, egli entrò nella stanza attigua lasciando l’uscio socchiuso. E dovette dire che c’era una donna che voleva il direttore, perchè Carina udì una voce nasale pronunziare con ironica compassione:

— Povero direttore!

Un lampo d’ira passò negli occhi di Carina. Per chi la prendevano? O indovinavano il motivo della sua visita, o sapevano chi era e la spregiavano fino al punto di compassionare e deridere la persona che doveva ascoltarla? Si sentì vile e forte nello stesso tempo, e decise di andarsene; ma appena ella fu nell’andito il giovine mise fuori la testa dall’uscio e la chiamò:

— Signorina, favorisca. [p. 184 modifica] Ella tornò indietro, un po’ lusingata da quel “signorina„ e il giovine la condusse nel salotto del direttore.

Un signore grasso e pallido, con due lunghi baffi neri, scriveva seduto davanti a un tavolo di legno lucente, che al riflesso d’una grande vetrata pareva d’argento. Nei cinque minuti che Carina stette là, non vide altro che il riflesso del tavolo e i baffi del direttore, osservando che uno di questi era più lungo dell’altro.

— Va bene, — disse benevolmente il direttore, dopo che ella ebbe fatta l’offerta. — Ritorni ai primi di dicembre e le saprò dire qualche cosa.

Ella si ritrovò in via Nazionale senza accorgersi dove era passata: sentiva una grande tristezza, ma nello stesso tempo una viva soddisfazione per il sacrifizio che le pareva d’aver compiuto.

Risalì lentamente via Parma, poi la gradinata del giardino, e s’appoggiò alla balaustrata, osservando il travertino bucherellato del parapetto, pregno d’acqua come una spugna di pietra. Sui platani spogli, qualche foglia secca, color di ferro arrugginito, tremava e sembrava paurosa di staccarsi dal ramo che l’aveva [p. 185 modifica] vista nascere e morire. Carina guardò la pietra e la foglia: ah, sì, come corrodevasi il travertino, e come la foglia morta ostinavasi a rimanere sul ramo, così il suo forte e dolce sogno erasi corroso ed era morto, ma si ostinava a non dissolversi ancora.

Trovò a casa una sorpresa che sulle prime la divertì gradevolmente: il cagnolino grazioso e pulito che la sera prima aveva visto nel bar. La bestiolina, che pareva un canino di gesso ricoperto da una piccola pelliccia di Mongolia, aveva già preso possesso del salotto da pranzo e strappava coi dentini la frangia d’una poltrona. Vedendo Carina la guardò con uno sguardo quasi umano, coi minuscoli occhi neri lucenti, poi le gittò sul viso un guaito tanto piccolo quanto insolente.

Ella prese fra le mani la graziosa bestiolina, la sollevò in alto, se la mise sul collo, la portò in camera e la gettò sul letto. E mentre si toglieva il cappello e cercava un nastrino nel cassetto dell’armadio, rivolgeva un discorsetto al cagnolino, vezzeggiandolo infantilmente:

— E tuo nonno, dove l’hai lasciato, Cip, Cip? Dove sei venuto a stare, carino mio! Avrai freddo: ti metterò la pelliccia di Lucia. [p. 186 modifica] Aspetta. Sta fermo! Ecco: quanto sei bello, ora, col nastro rosso! Ah, ecco! — disse poi, dopo aver annodato il nastro intorno al collo del cagnolino. — Come riderà quel tipo di Goulliau! Aspetta, aspetta!

Udendo il marito salir le scale, corse, prese la pelliccia di Lucia e la gettò sul cagnolino che rimase tranquillamente nascosto.

— Cinino, — disse al marito appena egli entrò, — abbiamo già il bimbo!

Egli, ancora ansante per le scale fatte di corsa, andò a vedere cosa c’era sotto la pelliccia e cominciò a ridere.

— Quel matto di Calzi! Che tipo! È lui che l’ha mandato?

— Sì, — disse Carina, ridendo anche lei.

Ma il guaio venne dopo, quando il cagnolino rifiutò ogni cibo, compresa la carne che Carina si degnava porgergli già masticata.

— L’uomo che lo portò disse che mangia solo biscotti, — osservò Lucia.

— Ah, — disse Carina con amarezza, rivolta al cagnolino, — allora questo non è il tuo posto, bello mio!

Tuttavia gli fece comprare i biscotti, ma cambiò d’umore. E cominciò a prendersela col Calzi. [p. 187 modifica]

— Poteva farne a meno! Io glielo rimando, sai; che se ne faccia fare un arrosto!

Ma non lo rimandò. Era così grazioso e divertente! Invece di ingrossare diventava sempre più piccolo, e Carina passava ore ed ore a lavarlo, pettinarlo e annodargli il nastro intorno al collo.

Una sera, però, agli ultimi di novembre, ella si accorse che il mantenimento del cagnolino gravava sul bilancio domestico, e pensò con rancore: — La mia vita è così seria e meschina che non mi permette neppure un momento di trastullo e d’inutile divertimento.

E si sfogò con Teodoro Calzi che quella sera venne a suonare alla porta del freddo appartamentino.

— Dimmi, — chiese il Calzi appena entrato, rivolgendosi a Goulliau, — che cosa intendi di fare per Natale?

— Io? Niente. Eppoi mi pare che sia un po’ presto per pensarci.

— Senti, senti! — riprese l’altro, togliendosi e piegando accuratamente il mantello. — Io invece ho già provveduto, ho già visto, ho già stabilito. Hai veduto, in via Torino, nelle vetrine della Cooperativa Militare, c’è la pentola col zampone.... [p. 188 modifica]

— Signor Teodoro, — interruppe Carina, — noi per Natale arrostiremo il cagnolino che ella si è degnata donarmi senza che io ne la richiedessi.

— Senti! senti! — disse Calzi, senza offendersi. — Dov’è l’amico?

E volle vederlo, e osservò che era magro, e che senza dubbio la signora Caterina non gli dava da mangiare.

— Mangia mezzo etto di biscotti al giorno! — disse Goulliau.

— Sfido io se rimpicciolisce! Un etto ce ne vuole, un etto! Sai dove ci sono dei buoni biscotti?... Perchè non lo lascia qui, signora Caterina? Dove lo porta?

— Se lo tenga pure! — disse Carina. — Se lo porti via: noi siamo poveri e nonchè dar da mangiare ai cani non ne abbiamo neppure per noi.

Goulliau la guardò sdegnato, ma la sua stizza cadde davanti alla tristezza vera e profonda di sua moglie. Carina cominciava a soffrire per la sua gravidanza: era pallidissima. con gli occhi cerchiati e le labbra bianche e raggrinzite, con tutto il viso atteggiato a disgusto e sofferenza. Anche Teodoro la guardò alla sfuggita, e involontariamente strizzò un [p. 189 modifica] occhio, causa per cui gli cadde il monocolo. Tanto per cambiare parlò di un cognac veneto, e con gran mistero rivelò a Goulliau il miglior modo di distinguere il vero dal falso champagne.

— Quando tu vedi versare lo champagne, — disse a bassa voce, facendo atto di versare del vino, — tu guarda il filo liquido che dalla bottiglia scende nel calice: se questo filo scintilla come l’oro, il vino è genuino.

Carina, seduta col cagnolino in grembo, sollevò vivacemente il capo; ma Goulliau, pensando ch’ella volesse dire qualche altra insolenza, sviò subito il discorso.

— Come vanno i tuoi matrimonî?

— Accidempoli, lasciami in pace! — disse Teodoro, stringendosi la testa fra le mani, ma sorridendo con soddisfazione. — Roba da impazzire: combatto con più di settanta donne sulla quarantina, con dote più o meno in contanti. Non parliamone!

— Mi pare che ella si vanti un po’ troppo, — osservò Carina.

Allora Calzi trasse di tasca un fascio di lettere più o meno sgualcite, le sparse sul tavolo e battendovi la mano sopra, gridò:

— Ecco le prove! Legga. [p. 190 modifica]

Ma Carina non volle leggere, mentre Goulliau apriva qualche foglio e leggicchiava e scoppiava dal ridere.

— E lei vuole ammogliarsi! — disse Carina con disprezzo. — Ma sa coscenziosamente cosa è il matrimonio?

— Lo so benissimo: anzitutto pagamento dei debiti....

— Lei ha debiti e vuol creare una famiglia.... — riprese Carina, ma Teodoro la interruppe:

— Tutti hanno debiti: chi non ne ha?

— Noi, per esempio....

— Ah, voi! Perciò siete nello stato in cui siete! — sentenziò con gran saviezza Teodoro.

— In che stato siamo? — chiese minacciosa Carina.

— Accidempoli, nello stato di non poter mantenere un cagnolino!

— Sia pure, ma non siamo al punto di vendere la nostra persona e la nostra libertà, come lei!

— Carina, leggi questa, è proprio amena! — disse Goulliau, ridendo e porgendo una lettera alla moglie.

— Lasciami stare, non voglio sporcarmi le mani, — ella disse.

— E lei, — sentenziò Teodoro Calzi, [p. 191 modifica] levandosi il monocolo e sollevando le sopracciglia — lei venderà qualche cosa di più grande della libertà, se vorrà vivere; venderà l’ingegno; e se lo ha e non lo vende e preferisce piuttosto soffrir la miseria, che è peggiore della morte, lei è una sciocca.

— E lei è immorale, lei è una bestia ed io la caccio via da casa mia....

Goulliau si alzò, si avvicinò alla moglie e le passò una mano sui capelli, pregandola di andare a letto.

— Fa il piacere, va’, va’.

Ma ella non si mosse, mentre Teodoro raccoglieva e riponeva le sue lettere e si alzava fingendosi dignitosamente offeso.

— Io me ne vado, — disse mettendosi il mantello. — Ma creda pure, signora Caterina, lei ha torto. Cosa è la morale? Far del bene a noi stessi. Se tutti seguissero questa massima il mondo camminerebbe meglio. Se tutti nel mondo fossero come me....

— La vita sarebbe un lurido giuoco, — disse Carina.

— E non è un giuoco?

— Ma non ancora lurido. D’altronde, — riprese Carina mutando voce, — che gusto c’è a parlare con lei? Il mio stato, come ella [p. 192 modifica] diceva, deve essere ben misero se io sono costretta a parlare con lei.

Questo colpo, veramente, umiliò il Calzi, che lo parò più che mai trivialmente. Disse:

— Il suo stato è troppo interessante perchè io debba darle il dispiacere di risponderle come si merita. Vada, vada a letto, e buona notte. Tanti saluti alla serva. Vieni tu, Goulliau? Buona notte, signora Caterina.

— Vado un momentino, poi torno subito, — disse il giovane a Carina.

Ma dopo un minuto rientrò, lasciando la porta aperta, mentre Carina deponeva sulla poltrona il cagnolino addormentato.

— Senti, — le disse, — Calzi vuole il cagnolino: vuol fare una burla, suonare al rez-de-chaussèe e consegnarlo al domestico che aprirà.

— No! — gridò Carina. — Sei uno stupido; va via!

— Scusami, sai! — diss’egli, un po’ ironico. — Credevo che tu volessi fare un piccolo sacrifizio

Carina s’ irritò più per queste parole del marito che per il tagliente alterco avuto col Calzi: un’ombra livida le passò sul volto, una vertigine di rancore e di angoscia le offuscò la mente. [p. 193 modifica]

Spalancò la finestra della camera e guardò in giù. La notte era oscura e fredda: arrivava solo, fino ai giardini, un barlume di luce dai fanali gialli delle Quattro Fontane e dalle finestre illuminate del palazzo Barberini: le foglie stridevano al vento come piccole onde risuonanti in una fredda solitudine. Sotto il cielo fosco e uniforme, Roma illuminata delineavasi nettamente, giallognola sullo sfondo del tenebroso orizzonte.

Carina s’assicurò che nessuno poteva vederla, prese il cagnolino e lo buttò giù. Poi chiuse rabbrividendo la finestra e scoppiò nervosamente in pianto.

*

Sì, qualche volta ella aveva paura di diventare nevrastenica per il tormentoso lavorìo del suo cervello in rivolta. Non era già stato un segno di malattia il delitto contro l’innocente cagnolino che l’aveva divertita e le aveva fatto compagnia per tre settimane? E perchè poi aveva pianto, cosa che non le accadeva mai? Era ella anormale come i quattro quinti delle donne? Ah, no, no, ella non voleva essere anormale, ella voleva prendere la vita quale [p. 194 modifica] era, esser più forte della vita, vincere nel crudele giuoco della vita.

— Io voglio essere come un naufrago fermo su uno scoglio non lontano dalla spiaggia; — pensava. — Intorno il mare è in tempesta, le onde urlano; ma domani sarà sereno, ed il naufrago potrà guadagnare la riva fiorita.

Intanto l’inverno avanzava, eccezionalmente rigido per Roma, e Carina soffriva il freddo, quando una lenta febbriciattola non la tormentava.

Nei giorni di sole ella andava a sedersi nel giardinetto Carlo Alberto, osservando con tenerezza accorata i giochi dei bambini; ma spesso doveva restare a casa e soffrire il freddo umido dei giorni piovosi.

Suo padre aveva scritto a Goulliau esponendogli il suo tristissimo stato finanziario: “Anch’io, scriveva, mi trovavo solo e spogliato da mani mercenarie: ho sposato una donna povera che purtroppo non può offrirmi altro che affetto.„ Troppo poca cosa per vivere, l’affetto!

Sposando Carina, Goulliau non aveva preteso alcuna dote. Spontaneamente il suocero aveva stabilito un assegno mensile alla giovine e inesperta coppia: involontariamente [p. 195 modifica] lo toglieva, giusto ora che gli sposi ne avevano più bisogno. Che poteva farci? Anche egli s’era illuso: soffriva, ma per ora non poteva rimediare. In avvenire, sì; tanto più che aspettava la promozione.

Anche Goulliau aspettava la promozione; ma nel mentre c’era tempo sufficiente perchè Carina, bisognosa di cure, di buon nutrimento, di calore, di tranquillità, si consumasse e avvizzisse nel freddo e nella sofferenza, e il bimbo nascesse rachitico e non trovasse il nido caldo e fragrante che aveva diritto di trovare.

— Oh, piccole miserie della vita; oh, coincidenze dispettose del destino; mancanze umilianti di quel piccolo superfluo che talvolta è più necessario del necessario stesso; occulte anemie della vita, più tristi, più desolanti dell’aperta miseria esposta alla luce e spesso utilmente sfruttata! — così pensavano i Goulliau, che invano ora si astenevano persino di entrare al bar, invano percorrevano enormi distanze a piedi per non pagare due soldi di tram. Invano Carina aveva rinunziato alla serva, al sapone un po’ fino, ai guanti di pelle; invano aveva buttato via dalla finestra, come una carta inutile, il grazioso cagnolino; erano [p. 196 modifica] piccole cose il cui sacrifizio dava rancore, ma non rimediava niente.

Anche Goulliau faceva molti piccoli sacrifizii e soffriva e si umiliava più di sua moglie, perchè lavorava e sentiva la vita più di lei. Raramente andava al Costanzi, in loggione od in piedi, e provava una vertigine di ribellione e d’angoscia vedendo nei palchi le dame che non badavano allo spettacolo, mentre la sua Carina intelligente, che amava la musica, non poteva penetrare nel tempio dell’arte consolatrice. Poi anch’ egli dovette rinunziare al teatro; ma spesso assisteva con amaro piacere all’arrivo degli spettatori, guardando con rancore i grandi annunzî dell’atrio. Un palco, per una notte, ottanta lire! Ciò che egli guadagnava in quindici giorni di lavoro!

Una sera, poi, vide che gli inservienti del teatro cacciavano fuori dall’atrio coloro che non avevano biglietti: andò via prima che glielo dicessero, e sentì un impeto d’odio verso la società. Fuori, fuori! Fuori anche dall’atrio del grande teatro della vita, fuori, al freddo, al buio! [p. 197 modifica]

*

Verso la metà di dicembre Carina andò ancora nella redazione del giornale, ma le dissero che il direttore era assente da Roma. Tornò agli ultimi dell'anno, ma per tre volte la respinsero, dicendole che il direttore era troppo occupato: scrisse e non ricevette risposta. Ogni volta che saliva quella scala semibuia e calda provava un impeto di umiliazione: le pareva di andar a chieder l'elemosina, ma fra sè diceva, rivolgendosi all'essere ignoto che viveva in lei:

— Per te, per te!

Oramai non si trattava più d'arte, ma di vita: e Carina chiedeva al suo lavoro intellettuale non un vano giorno di fama, ma il corredino del nascituro, il compenso per la levatrice, tutte le cose volgari ma fatalmente necessarie all'avvenimento che doveva compiersi.

*

L'ultimo giorno dell'anno i Goulliau incontrarono Calzi al Pincio. La giornata era splendida ed una folla enorme pigiavasi intorno al [p. 198 modifica] palco della banda; le vetture non circolavano più, ferme una dietro l’altra, coi cristalli ed i fanaletti splendenti al riflesso del magnifico tramonto. Nei viali s’aggirava un numero straordinario di signorine eleganti, più o meno belle, quasi tutte con gli occhi vaganti dietro sogni e ricerche amorose.

I Goulliau e Calzi trovarono posto in una panchina vicina alla terrazza, e Teodoro cominciò a fare delle considerazioni filosofiche sulla folla che passava:

— Quanti odii e quanti amori, quanti vestiti e cappelli nuovi, quanta apparenza, quante perfidie e quanti sacrifizi, quante donne e quanti uomini, quante invidie e quante cambiali! E quanta canaglia!

— E noi siamo nel numero! — osservò Goulliau, tirandosi i pantaloni sui ginocchi.

— E va benissimo. Siamo nel numero. Sai cosa ho fatto oggi? Ho rifiutato.

— Un matrimonio?

— Senti, senti, accidenti come indovini! Sì, un matrimonio: trentasei anni, bellissima; pagamento immediato dei miei debiti, e trentamila in contanti. Inoltre, cugina d’un pizzicagnolo mantovano quasi milionario, e sua presunta erede. [p. 199 modifica] — E tu te la lasci scappare?

— Mi dispiace per il pizzicagnolo, che poteva servirmi. Ma ci son delle pecche, capisci? molte pecche nel passato.

— E la sua morale, signor Teodoro? — chiese Carina.

Egli parve solo allora accorgersi di lei.

— Oh, come va l'umore oggi, signora Caterina? Perchè guarda quel tiro a due con tanta melanconia? Lei s'inganna se crede che quelle scimmie sedute sui morbidi cuscini di quella carrozza sieno felici. Creda pure, sono più infelici di noi miseri pedoni.

— Vecchia storia, signor Teodoro! Noi pensiamo che i ricchi siano infelici per confortarci nella nostra miseria. Se non altro essi non sanno cosa sia il vile dolore del freddo.

— Oh, a proposito, cosa si fa domani?

— Mi pare che non sia niente a proposito, — disse Goulliau.

— Senti, senti! È a proposito perchè oggi non fa affatto freddo, e neppure domani ne farà: per conseguenza, se volete venire domani andiamo a Ponte Nomentano a far colazione sull'erba.

— No, — disse subito Carina, spaventandosi all'idea di dover spendere più dell'ordinario. [p. 200 modifica] — Perchè no?

— Perchè io non mi sento molto bene! — ella disse arrossendo; ma capì tosto che il Calzi aveva indovinato la ragione del rifiuto, perchè egli trasse di tasca un numero del Corriere della Sera e glielo porse, indicandole col dito un avviso.

Goulliau si sporse in avanti per leggere l'avviso assieme a Carina. La luce del tramonto arrossò il giornale spiegato: in quel momento la banda cominciava la romanza di Cavaradossi; e la folla taceva. Un brivido passava per l'aria luminosa: il sole rosso calava in un cielo violaceo solcato da striscie infocate che parevano ruscelli di sangue, e sotto i grandi alberi incendiati dal tramonto gli strumenti musicali brillavano e squillavano come trombe d'oro, spandendo un'onda di infinito dolore sulla folla frivola e incosciente. Un turbine passò nella mente di Carina. L'avviso diceva: "Romanziere, costrettovi da urgenti necessità, venderebbe lavoro suo interessantissimo, e mediante compenso, presterebbe opera sua per la revisione o correzione di altri lavori del genere. Scrivere, ecc." Dunque non era ella sola!

— Questo è un uomo! — disse Teodoro [p. 201 modifica] Calzi, levandosi il cappello. — Ed io lo saluto e lo ammiro.

Una vecchia signora vestita di chiaro, che passava pel viale, credette che Calzi guardasse lei e rispose al saluto. Bastò ciò perchè Carina ridesse e riprendesse animo.

— Se il romanzo è scritto come l’avviso, deve essere davvero interessante, — disse con ironia.

— Io venderei le mie vesti, il mio letto, tutto, tutto, persino le scarpe, prima di fare una simile cosa, — esclamò Goulliau.

— Ti faccio osservare — disse Teodoro Calzi, ripiegando il giornale — che lo scrittore in questione probabilmente non ha letto e tanto meno scarpe! E probabilmente vende l’opera sua per comprarsene un paio. E fa benissimo.

— E tu, allora, — scattò Goulliau — tu perchè non sposi quella là?

— Quello è un altro par di pantaloni: è prostituirsi.

— E questo cosa è? — chiese il giovane, battendo un dito sul giornale.

Il Calzi scosse la testa.

— No, — disse con voce dolente — voi non capite niente, ragazzi miei. Voi venderete il vostro letto, le vostre vesti, le vostre scarpe, [p. 202 modifica] e poi sarete costretti a fare ciò che potevate far subito, senza tanti crepacuori.

— Si può benissimo anche morire di fame — disse Carina. — È un modo di morire come tutti gli altri.

— Parole, signora Caterina, parole!

— Ma, — osservò Goulliau — ammesso il caso che uno voglia davvero vendere il suo ingegno, come questo scrittore, c’è poi l’imbecille che compra?

— Sì, son cose che accadono solo nelle novelle — disse Carina.

Calzi si tolse il monocolo e guardò Carina coi suoi piccoli occhi giallastri. Era forse la prima volta che la guardava direttamente negli occhi, e il suo viso, metà illuminato e arrossato dal tramonto e metà pallido e in ombra, destò un forte senso di disgusto nella giovine donna.

— Vuole che me ne occupi io? — egli chiese. — Se vuole non ha che a parlare.

I Goulliau sapevano che Calzi s’occupava un po’ di simili affari; per esempio, andava dagli strozzini in cerca di denari per certi colleghi, s’occupava di vendite e compre di mobili, cercava appartamenti e donne di servizio, metteva a posto qualche giovane senza impiego; [p. 203 modifica] quindi capirono subito che l’amico parlava sul serio.

— Fammi il piacere di parlare di cose più allegre, — impose Goulliau irritato.

Allora Calzi sollevò il viso, si rimise il monocolo, accavalcò le gambe e cominciò a cantarellare: ad un tratto si alzò, porse un dito che i Goulliau toccarono freddamente, e se ne andò.

Carina guardava la folla, e mentre osservava i vestiti delle donne, i bimbi, un cane elegante che un giovinotto dai baffi dritti e dal soprabito inverisimilmente largo conduceva attorno, le signore che posavano sulle carrozze ferme, gli uomini che le osservavano, pensava a qualche cosa di vago, di indistinto, ma molesto, ma doloroso, come la prima nebulosa idea d’un delitto. Poi guardava il lento e violaceo spegnersi del tramonto, e le pareva che qualche cosa si spegnesse così, melanconicamente, entro di lei.

Goulliau si alzò e le porse la mano. Ella prese la cara mano fedele, e così uniti come due bambini, s’avviarono, sommersi nel fiume della folla che se ne andava.

Al di là della rada siepe rossastra degli alberi spogli, sull’orizzonte violaceo, le lunghe [p. 204 modifica] nuvole d’oro, simili a barche luminose, se n’andavano anch’esse, dileguandosi in un mare di tristezza.

*

Anche il giornale respinse il manoscritto. La Primavera non era un romanzo adatto per appendice, e forse neppure per volume da pubblicarsi in Italia! Il pubblico italiano, leggendo un romanzo o assistendo ad un lavoro teatrale, ama ridere o commuoversi fortemente. Ora La Primavera era una storia di felicità, lo studio di un’anima tranquilla; faceva pensare ma non commoveva. No, l’autrice s’ingannava credendo che il pubblico, stanco di soffrire nella realtà, provasse refrigerio e riposo leggendo una storia serena. No, il “lettore„ è un grande egoista che come si conforta crudelmente nell’apprendere le disgrazie altrui, così chiede al libro, al teatro, alla cronaca, una storia di dolore od una farsa divertente. La felicità altrui lo annoia e lo irrita. Insomma è una deità crudele ed ha bisogno di vittime, vittima anch’essa di un feroce destino!

Queste tristi cose lesse Carina attraverso le [p. 205 modifica] righe freddamente cortesi della letterina che motivava il rifiuto del romanzo. Forse chi aveva scritto la lettera aveva voluto dire altra cosa, ma oramai Carina faceva parte del gran pubblico che soffre, e interpretava a modo suo il rifiuto del giornale.

Tutto questo non le impedì di provare un dolore umiliante nel vedersi respinta anche dal posto che un giorno ella aveva disprezzato.

*

Agli ultimi di gennaio i Goulliau avevano già qualche debito: fra gli altri uno verso la donna di servizio! Carina non dormiva pensandoci; le pareva vile, volgare e disonesto, e un giorno che Lucia insistè per essere soddisfatta, la padrona le diede, a insaputa di Goulliau, uno dei pochi anelli che possedeva.

“Darò le mie vesti, il mio letto, le mie scarpe.... — ricordava le parole dette a Teodoro Calzi — “tutto, fuorchè abbassarmi ad una volgarità„. Ed ecco che l'esodo era cominciato: tutto, tutto ella avrebbe dato, ma poi? Ma poi arrivava il giorno nel quale il fatto volgare doveva compiersi: il creditore batteva alla porta, entrava nella casa spoglia, urlava, insultava [p. 206 modifica] e nello stesso tempo diceva una verità crudele: — Ho diritto anch'io di vivere: pagate il mio pane, pagate la mia casa, lavorate anche voi!

Lavorare? Ma se anche lei aveva lavorato e nessuno voleva compensare il suo lavoro? Nessuno? No, c'era qualcuno che voleva pagarlo, quel lavoro: perchè non darglielo? Non era più disonesto defraudare il prossimo? Ella pensava così un pomeriggio di febbraio, appoggiata al parapetto della balaustrata del giardino Carlo Alberto. Come nel giorno in cui aveva portato il manoscritto alla redazione del giornale, ella guardava il parapetto bucherellato e gli alberi spogli che si allineavno sotto la balaustrata. Dietro di lei Carlo Alberto, grigio nell'aria un po' velata, sopra il giardino in quell'ora deserto e un po' triste, galoppava verso un ignoto destino; davanti a lei, sul marciapiede obliquo e solitario di via Parma, cadevano dagli alberi rossastri le ultime foglie morte, annerite dall'inverno.

Ed ecco che Carina paragonò non più il suo sogno, ma il suo orgoglio a quelle foglie ed a quella pietra, e pensò che il freddo e l'umidore della stagione e le malinconiche vicende del tempo potevano operare sull'uomo come su gli alberi e sulle pietre. [p. 207 modifica]

Fece un giro per il giardino deserto, poi uscì in via Venti Settembre. Un insolito andirivieni di vetture padronali animava la via; un drappello di bersaglieri scendeva quasi di corsa, simile ad uno stormo di grandi uccelli; passava, guidato da un soldato, un bellissimo cavallo le cui forme ondulanti sotto la coperta gialla davano l'idea d'un corpo di donna; una fila di chierici tedeschi rossi come enormi fiori di melograno animava lo sfondo giallognolo della piazza del Quirinale.

Carina ricordò sempre quell'ora, il contrasto dei bersaglieri nerastri coi preti rossi, il cavallo elegante e il roteare delle vetture verdognole. Era troppo presto per andare incontro a Goulliau, come ella soleva tutti i giorni: si fermò quindi sulla piazza, davanti all'orizzonte argenteo coperto da una nebbiolina lattea, dove la cupola azzurrognola e l'ultimo profilo di Roma, velati e lontani, si delineavano come un miraggio al confine di un deserto vaporoso.

Carina stava lì ferma, davanti alla balaustrata, quando sentì una scossa misteriosa entro di sè. Il suo bambino, la sua creatura, si muoveva! La giovine signora impallidì, sebbene aspettasse da varii giorni [p. 208 modifica] quell'avvenimento naturalissimo; e nello stesso istante provò una sensazione strana. Le parve che la creatura avesse fame e si fosse svegliata e mossa solo per ciò. Pensò subito che forse era una suggestione derivata dai melanconici pensieri di poco prima; ma poi ricordò che quel giorno ella aveva mangiato pochissimo e sentì come una corda slanciarsi entro il suo corpo, dalle viscere alla gola, e le parve di soffocare.

Allora scese la gradinata e s’avviò verso l’Intendenza, decisa di chiamare Teodoro Calzi.

Arrivata all’Intendenza vide molta gente nell’atrio: era il giorno dell’estrazione del lotto. Carina si mischiò alla folla, ma rimase nei corridoi per non esser veduta da Goulliau, che poteva affacciarsi alle finestre del suo ufficio, nelle quali apparivano visi attentissimi d’impiegati, assidui giocatori del lotto.

Molta gente ingombrava il cortile vasto quanto una piazza: dal cielo argenteo solcato di nuvole azzurrognole calava una luce chiara e diffusa che lumeggiava vivamente i gruppi delle persone attente all’estrazione: l’eucaliptus sporgente sul muro giallognolo a fianco dell’umido giardinetto in fondo al cortile, scuro e immobile nell’aria grigia, pareva pur esso attento alla scena. [p. 209 modifica]

Nella loggia dell’estrazione un usciere dai galloni d’oro sulle mostre rosse, finiva di gridare lentamente i numeri, mostrandoli da una parte e dall’altra, di qua e di là, alla folla attenta. Dalle sue mani il foglio su cui stavano impressi i numeri passava in quelle di un funzionario molto distinto, in cappello duro, che piegava con attenzione il foglietto e lo porgeva al direttore del Lotto, seduto nel centro della loggia. Carina osservò che il direttore, un signore serio, dalla barba accurata e dalle mani rosee, chiudeva i numeri nella palla, con una abilità disinvolta e piena di grazia. Pareva che quell’uomo serio e imponente non avesse mai fatto altro in vita sua, e mettesse tutto il suo impegno morale e la sua abilità fisica a compiere, come una missione straordinaria, quella semplice funzione delle dita, al cospetto di un popolo adorante la ruota entro cui la palla veniva gettata.

Vicino alla ruota che girava producendo un piccolo scroscio, un bimbo dal lungo grembiale bianco dominava col suo visetto pallido e scarno di vecchietto nano, il quadro delle figure serie allineate sulla loggia. E pareva che queste figure compiessero uno strano rito sopra un pubblico altare. Però Carina osservò [p. 210 modifica] che quasi tutte le persone riunite nel cortile e nei corridoi, per lo più vestite miseramente o con quella decenza melanconica che rasenta la miseria, prendevano un’aria beffarda, forse per nascondere un interno sentimento d’ansia. Molti fingevano d’esser entrati per curiosità; altri consultavano foglietti e numeri; vicino a Carina un vecchietto con un lungo soprabito a scacchi contava lentamente sulle dita, agitando le grosse labbra livide.

Figure della mala vita, dal berretto a visiera e il bavero del soprabito rialzato, apparivano e sparivano fra i gruppi del cortile, nell’atrio sempre più affollato, nei corridoi sozzi di sputi e appestati dal fumo dei sigari grossolani: e nella folla incolore spiccava la camicetta rossa d’una signora elegante, e si scorgeva un profilo di vecchio ebreo, una testa caratteristica emergente da un colletto di vecchio pelo giallo, e si notavano figure di bimbi incoscienti, e timide figure di donnicciuole borghesi dall’abito consunto che si tiravano indietro, appoggiandosi ai muri e guardando con vago timore la folla beffarda e la ruota dell’estrazione.

Nel mezzo del cortile, sul lastrico verdognolo d’umidità, due cestini d’arancie parevano bracieri colmi di fuoco; il venditore [p. 211 modifica] guardava l'estrazione e di tanto in tanto offriva con voce distratta la sua merce.

Il bimbo dal grembiale bianco venne bendato; la ruota girò più forte. Cominciò l'estrazione. Il bambino bendato, quel bimbo senza sangue e senza sorriso, che rappresentava benissimo una triste e anemica Fortuna senza malizia e senza grazia, accecata dal calcolo di uomini senza ideali, introdusse nella ruota la manina scarna ed estrasse con le ditina sottili una prima palla. L'usciere la prese, la mise su un piatto di reticella metallica, e la porse al controllore, che la passò al direttore. E le mani abili dell'uomo serio e imponente aprirono la palla con la stessa grazia severa con cui l'avevano chiusa. Il foglio scaturì; fu svolto, passò nelle mani dell'usciere dai galloni rossi, che gridò il numero, mostrando il foglio da una parte e dall'altra, di qua e di là, alla folla ansiosa. Subito dopo il numero apparve sull' inquadratura al di sopra della loggia. Un mormorìo salì dalla folla attentissima; i gruppi si strinsero, qualche voce gettò ai curiosi lo scherzo, l'osservazione, il paragone atteso; qualche risata vibrò. Per cinque volte si ripetè la stessa scena, lo stesso agitarsi, lo stesso mormorar della folla. Il [p. 212 modifica] vecchietto vicino a Carina guardava i numeri, consultava i foglietti che teneva in mano e scuoteva il capo, sporgeva le labbra livide, poi sbadigliava e sospirava nello stesso tempo. Carina lo guardò con tristezza; il vecchio le fece un cenno di saluto e sbadigliò con più insistenza, come i gatti quando hanno fame.

— Avete giocato molto? — chiese ella, — ma tosto si pentì d’aver rivolto la parola al vecchio. Che le importava? Non era anche lei venuta per giocare un giuoco immorale come quello del lotto? Anche lei era una vinta, una sfruttata. Perchè doveva interessarsi alle miserie altrui, quando ella stessa formava parte della folla miserabile?

Il vecchio, che aveva giocato un ambo — 1 e 17 — perchè il figlio s’era rotto la testa cadendo da una finestra, narrò che giocava sempre e non vinceva mai. Ebbene, a che servivano le disgrazie se non facevano vincere almeno un ambo?

Dopo questa considerazione profonda egli sbadigliò ancora, rivolse supplichevolmente a Carina gli occhi azzurri iniettati di sangue, e abbassò la voce:

— Signorina mia, non mangio da ieri; sono un povero vecchio, mi faccia la carità.... [p. 213 modifica] — Non ho niente, — diss’ella con voce aspra. Il vecchio trasalì e si allontanò.

La gente se ne andava: sulla loggia vuota imperavano i numeri neri; sul muro giallo del cortile l’eucaliptus immobile nell’aria queta si coloriva d’un color rosa melanconico; il cielo rasserenavasi. A poco a poco il grande cortile verdognolo rimase vuoto, e Carina si trovò sola nei corridoi, ove l’immondo passaggio della folla aveva lasciato la sua impronta di sputi, il fumo del tabacco ordinario, l’odore nauseante degli stracci e delle scarpe fracide.

Qualche persona s’affacciava ancora alla porta per osservare i numeri: due impiegati scesero di corsa le scale, saltarono la finestra del corridoio per uscir più presto nel cortile e guardarono i numeri; entrò una guardia municipale, guardò e bestemmiò; entrò un soldato, guardò e rise; entrò una donnina bionda, a capo scoperto, con una vecchia pelliccia di Mongolia, guardò i numeri, poi vide Carina dietro l’ invetriata e salutò. Era la vecchia elegante Lucia.

Carina le fece cenno d’entrare e la mandò su.

— Chiama un usciere e digli di avvertire il signor Calzi che c’è una signora che lo aspetta: bada che non ti veda il padrone. [p. 214 modifica]

Lucia sapeva qualche cosa delle avventure del signor Teodoro; credette che Carina volesse fare una burla, e salì.

— Viene, — disse con aria di mistero, ritornando nel corridoio.

— Puoi andare, — le disse la padrona — e la vecchia obbedì.

Per un minuto Carina, seduta vicino all’invetriata ove la luce cominciava a impallidire, guardò davanti a sè la fila degli appoggiatoi di legno degli sportelli, i cui sostegni sembravano grandi punti interrogativi, e si sentì battere angosciosamente il cuore: poi scoppiò a ridere vedendo la faccia mortificata del Calzi, che era sceso a precipizio e s’avanzava nel corridoio.

— Credeva fosse una pretendente? — disse Carina, ridendo. — Gliel’ho fatta!

Subito ritornò seria.

— Ha visto Goulliau?

— Nossignora.

— Che ore sono?

— Mancano venticinque minuti alle cinque, — rispose Calzi.

— Signor Teodoro, — disse Carina, alzandosi, — ho bisogno di lei.

— Senti, senti! Parrebbe vero. [p. 215 modifica]

— Faccia il piacere, non scherzi. Si ricorda ciò che mi disse al Pincio?

Egli finse di non ricordare: ella tornò a sedersi, e lo guardò fisso.

— Faccia il piacere, — ripetè, — non scherzi. Si ricorda benissimo. Avanti! Ho bisogno dell’opera sua, ma subito, prestissimo.

— Subito! subito! — diss’egli, battendo le mani. — In due e due quattro! Pazienza e sangue fresco, diceva l’apostolo Santa Barbara.

— Ma quanto tempo ci vorrà?

— E chi lo sa! — diss’egli facendosi pensieroso. — Bisognerà stampare l’avviso, aspettare, combinare.

— Stampare l’avviso! — esclamò ella, scoraggiata. — Ma allora potevo farlo anch’io! Poi vorrei che mio marito non s’accorgesse di niente fino a cose fatte: dopo, se griderà lo lascieremo gridare.

— Che brava moglie! — esclamò Calzi, battendo le mani.

Un passo risuonò per le scale.

— Silenzio! — disse Carina, spaventata, credendo fosse Goulliau.

Un impiegato scese, passò, salutò, andò via: attraverso l’invetriata sporca scorgevasi [p. 216 modifica] qualche persona entrare ed uscire dal cortile sempre più grigio.

— Facciamo l’avviso, — disse Carina. — Lei lo porta subito alla Tribuna, e non ci si pensa più.

Il signor Teodoro trasse il suo taccuino e si mise a scrivere col lapis.

— Scrittrice.... — cominciò Carina.

— Ma che scrittrice!... lasci fare a me, — diss’egli, masticando la punta del lapis.

Scrisse, cancellò, borbottò.

— Faccia presto! Faccia presto! — implorava Carina, guardando la porta verso le scale.

— Accidempoli, che fretta che.... che ha! Mi lasci fare, dunque!

Finalmente lesse l’avviso:

“Noto scrittore, costrettovi bisogno, venderebbe a persona cui piacesse pubblicarlo col proprio nome, romanzo originale italiano di indubitato successo. Scrivere Lapis, posta, Roma. Massima segretezza„.

— Una, due, tre, dieci, venti, venticinque parole. Vediamo un po’ se si può abbreviare. Togliamo massima segretezza. Sarà massima o minima.

— Lasci stare, — disse Carina, — va bene così. [p. 217 modifica]

E guardò entro la sua borsetta; ma Teodoro le disse:

— Non cerchi niente: vedremo poi.... Oh, — soggiunse, dopo un momento di silenzio, durante il quale cancellò altre parole dall’avviso, — e mi dica ora: quanto pretenderebbe lei?

— Non meno di tremila lire.

— Senti! senti! Lo stipendio d’un segretario! Quanto tempo ci ha messo a scrivere il libro?... un anno?

— Faccia il piacere! — ripetè Carina. — Non mi faccia arrabbiare, ora. Vada via, e mi chiami Goulliau.

*

Goulliau scese poco dopo, seguìto da Teodoro, e vedendo sua moglie pallida, quasi grigia in viso, ebbe una vaga intuizione della verità, ma non osò dir nulla.

— Che hai? — le chiese toccandole la punta delle dita. — Come sei fredda.

— Si è mosso! — diss’ella a bassa voce.