I Monumenti Italiani e la Guerra/I Monumenti Italiani e la Guerra

I Monumenti Italiani e la Guerra

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I MONUMENTI ITALIANI E LA GUERRA




L’ira degli eserciti d'Austria contro i monumenti e le opere d’arte italiane non è cominciata nel 1915 con questa guerra quando i cannoni della flotta imperiale hanno colpito San Ciriaco d’Ancona e gl’idrovolanti hanno bombardato Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e gli Scalzi a Venezia. È un’ira tenace che dura da secoli, fatta di invidia e di viltà: invidia di quello che i nemici non hanno, che non potranno mai avere e che è il segno dovunque e sempre riconoscibile della nostra nobiltà, così che ferir l’Italia nei suoi monumenti e nella sua bellezza dà a costoro quasi l’illusione di colpirla sul volto; viltà perchè sanno che questa nostra singolare bellezza è fragile e non si può difendere, e percuoterla e ferirla è come percuotere davanti alla madre il suo bambino.

Quest’ira dura da secoli, immutabile, come immutabili sono rimaste, sotto il velo del progresso, le razze e le loro affinità e i loro istinti. Pure non è necessario risalire ad Attila e a Genserico, per ritrovarla. Basta ricordare ai troppi immemori la storia di ieri, e le guerre del nostro ultimo risorgimento.

Il 10 giugno 1848 verso il tramonto la brigata austriaca agli ordini del generale barone Culoz conquistava il Santuario di Monte Berico sopra Vicenza assediata. La resistenza delle truppe del generale Durando era stata così accanita su pei Portici lungo il colle e intorno al convento che nemmeno la santità del luogo frenò la rabbia degli invasori. Il principe di Lichtenstein volle entrare nella chiesa a cavallo, e un nostro ferito, rifugiato là dentro, alzandosi sopra un gomito contro il sacrilego lo abbattè con una rivoltellata. I soldati austriaci traevano intanto fuor dagli armadii della sacrestia i paramenti sacri, se ne vestivano per ludibrio e ballavano così mascherati davanti agli altari. Nella notte saccheggiarono il convento e penetrati nel refettorio squarciarono con le baionette il gran quadro di Paolo Veronese [p. 6 modifica] che raffigura la Cena di San Gregorio Magno sotto due angeli volanti che reggono un cartiglio con l’augurio "Pax Domini sit semper vobiscum". La mattina all’alba il padre Ferdinando Mantovani entrando lì col generale Culoz vide i Croati calpestare i brandelli del dipinto. Li tolse di sotto i piedi di quei forsennati per ordine dello stesso generale: erano cinque o sei pezzi. Vi tornò nel pomeriggio per porli al sicuro: lo scempio era stato continuato, a freddo: i brandelli erano trentadue. Quando il generale Culoz lo seppe, obbligò il padre Mantovani ormai prigioniero di guerra a firmare una dichiarazione che il dipinto del Veronese era stato ridotto in quelle condizioni dai soldati italiani durante la difesa del convento1.

Da Vicenza a Venezia, giusto un anno dopo. Fu il primo bombardamento di Venezia; fu, naturalmente, opera degli austriaci; e cominciato il 13 giugno 1849 durò ventiquattro giorni. Ventimila proiettili caddero sulla città: quasi mille al giorno. E colpirono nella chiesa di Santa Maria del Carmine il dipinto di Palma il Vecchio la Moltiplicazione dei pani; nella vicina Scuola dei Carmini l’Apparizione della Vergine sul Carmelo di Giambattista Tiepolo e un tondo del Padovanino; l’affresco del Cedini sulla volta di San Barnaba; il soffitto del Fiumani a San Pantaleone; tre quadri del Tintoretto — la Caduta della manna, il Castigo dei serpenti, la Strage degl’innocenti — nella Scuola di San Rocco; le vôlte affrescate di San Tomà e di San Luca; la tavola di Paris Bordone a San Giobbe. Furono anche percosse, ma con danni minori, la chiesa di San Geremia, la chiesa di San Silvestro dove fu uccisa una donna che pregava, la chiesa di San Salvatore che reca ancóra una palla conficcata sulla facciata, la chiesa degli Scalzi dove fu rotta solo una colonna di porfido, e Santo Stefano e San Simeon Piccolo e Santa Maria del Giglio e San Giovanni e Paolo; e i palazzi Loredan, Mocenigo, Comello già Tiepolo, Farsetti, Vendramin-Calergi, Albrizzi, Papadopoli, Pisani a Santo Stefano. Una palla ferì un arco del ponte di Rialto. Un’altra precipitò dentro la sala delle pergamene papali nell’Archivio di Stato ai Frari. Un’altra forò il soffitto [p. 7 modifica] del teatro della Fenice. Ventidue palle caddero intorno e dentro l’edificio dell’Accademia di Belle Arti, offendendo soltanto l’Adorazione dei Magi del Bonifacio2.

Il 25 luglio vi era stato perfino un tentativo, il primo, crediamo, nella storia degli assedii, di bombardarla dal cielo: duecento palloncini da ciascuno dei quali pendeva una bomba di trenta libbre erano stati col vento propizio mandati sulla città dal piroscafo Vulcano ancorato fuori del porto di Lido; ma il tentativo falli, anzi alcuni palloni andarono a finire verso Mestre e verso il campo austriaco con molta ilarità degli assediati. Ma il feld-maresciallo Thurn che era succeduto al Haynau come capo delle truppe d’assedio, emulò la lealtà del generale Culoz narrando, in un comunicato ufficiale sul Lloyd Tedesco, d’aver potuto distinguere da terra la devastazione fatta da quelle bombe e "d’avere sospeso per sentimento d’umanità l’ulteriore bombardamento nell’aspettativa che quella città sventuratamente cieca rientrasse in sè stessa e si arrendesse perchè altrimenti sarebbe stato facilissimo ridurla un mucchio di rovine".

Quando nell’agosto 1849 non gli austriaci ma la fame e il colera costrinsero anche Venezia ad arrendersi, undici chiese e quattordici palazzi erano stati colpiti. Accanto al teatro della Fenice, nel Campo delle Bale (Campo delle palle) si vede ancora una strana casetta con la facciata simmetricamente adorna di tutti i proiettili austriaci che molti anni dopo un veterano di quell’assedio, Giorgio Casarini, aveva potuto raccogliere nella città.

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Vano avvertimento. Gl’italiani hanno tanta storia che se la dimenticano, con un’eleganza di nobili cui dispiace ripetere in pubblico i propri titoli e le sonanti gesta degli avi. E poi c’erano stati tanti anni di pace; la civiltà e anche la coltura s’erano occupate con tanto petulante affetto dei monumenti d’Italia, anzi proprio di Venezia. Tutto il mondo e primi, per la quantità, tedeschi, austriaci e magiari, erano venuti ad adorare in ginocchio Venezia e la sua bellezza, tra sospiri e serenate e giuramenti d’amore. Louvain, Ypres, Reims, Soissons, Arras.... Sì, tutte infamie indimenticabili. [p. 8 modifica] Ma Venezia, no. Sulla facciata della chiesa degli Scalzi una lapide in pietra racconta: "Imperatore Caesare Francisco Jos. I Reparatum aere publico". L’imperatore Francesco Giuseppe aveva paternamente curato nel 1862, col denaro dei veneziani, il restauro della chiesa danneggiata dalle sue bombe nel 1849. Chi leggeva più quell’epigrafe? Forse qualche austriaco, sorridendo.

Nel 1915, del resto, non vigeva l’articolo 56 della Convenzione dell’Aja firmata da quarantaquattro Stati, anche dalla Germania e dall’Austria? "I beni dei Comuni e quelli degl’istituti consacrati al culto, alla carità e all’istruzione, alle arti e alle scienze, anche se appartenenti allo Stato, saranno trattati come la proprietà privata". Cioè, secondo l’articolo 46, rispettati.

Il Soprintendente dei Monumenti nel Veneto aveva mandato al Governo una sua proposta particolareggiata per mettere un ospedale in Palazzo Ducale. Una gran croce rossa sulla copertura di piombo del Palazzo; e tutto sarebbe stalo salvo. Dopo i primi bombardamenti vi fu chi pensò d’ordinare che si segnalassero, in obbedienza alla detta convenzione, con rettangoli divisi diagonalmente in due triangoli, uno bianco e uno nero, tutti gli edifìci che, senza essere ospedali, erano indicati da quell’articolo 56. L’utilissimo lavoro fu anche cominciato ma fu sospeso quando si accorsero che bisognava, solo per gli edifici sacri all’arte, coprire con quei rettangoli tre quarti di Venezia....

Corrado Ricci, direttore generale delle Antichità e Belle Arti, era stato più pratico. Nell’aprile 1915, appena la guerra parve inevitabile, egli andò nel Veneto e aiutato dal Soprintendente alle Gallerie del Veneto, Gino Fogolari, un italiano di Trento, cugino di Cesare Battisti, cominciò a spedire via i quadri e gli oggetti d’arte più preziosi di Treviso e di Padova, di Castelfranco e di Conegliano, a fare imballare e chiudere in solidi sotterranei quello che non si poteva allora far partire. Ma nelle isole di Venezia i palazzi poggiati sulle palafitte sono senza sotterranei. Così dalla Galleria dell’Accademia, dalle chiese, dalle confraternite, i Bellini e i Carpaccio, i Giorgione e i Tiziano, i Veronese e i Tintoretto, avvolti su cilindri immensi di legno o chiusi in grandi casse blindate, dovettero partire verso il mezzogiorno davanti alla sicura minaccia. A Palazzo Ducale, nella sala del Maggior Consiglio, dentro le immense cornici di legno e d’oro disegnate da Cristoforo Sorte riapparvero dopo tre secoli e mezzo le [p. 9 modifica] immense capriate tenebrose della soffitta, là dove splendeva il trionfo di Venezia del Veronese; e sulle pareti e su quelle della vicina Sala dello Scrutinio si rividero le nude tavole su cui erano state tese le tele dipinte da Jacopo e da Domenico Tintoretto, da Palma il giovane, da Andrea Vicentino, da Federico Zuccari, da Francesco da Ponte, da Pietro Liberi con la descrizione delle vittorie di Venezia: la presa di Zara, la presa di Cattaro, la presa di Costantinopoli, la vittoria dei Veneziani sugli ungheresi, la vittoria di Lepanto nel 1571, la vittoria sui Turchi ai Dardanelli nel 1656. Malinconico spettacolo, certo. Pure, a vedere così spente e deserte quelle sale, i più animosi potevano confortarsi immaginando che quelle pitture fastose venissero calate giù perchè altre se ne apprestavano con la celebrazione delle imminenti vittorie contro gli stessi nemici: la riconquista di Monfalcone che di tutto il basso Friuli era stata la più fedele a Venezia, dal 1420 al 1797; la riconquista di Gradisca e di Gorizia dopo quattro secoli....

Ma all’improvviso, il paziente, discreto e prudente lavoro del Ricci e, nella biblioteca Marciana, del Coggiola, fu interrotto; tante proteste di sindaci e di deputati erano giunte alla presidenza del Consiglio. Il Consiglio della Confraternita di S. Rocco la cui sede si gloria d’essere tutta ornata, soffitti e pareti, di dipinti di Jacopo Tintoretto, l’11 aprile 1915, dopo un’apposita adunanza, dichiarava addirittura di "escludere, in via assoluta, la rimozione dei dipinti ed oggetti d’arte appartenenti alla Scuola".

Già, la guerra, come dice il popolo, se non si vede non si crede. Ma la resistenza dei veneziani veniva da molti altri motivi logici e sentimentali. Prima di tutto, quella convinzione della regale immunità di Venezia. Non è essa come un tempio, senza forza d’offesa o di difesa se non morale? Le sue fortificazioni sono a Mestre e al Lido, le sue navi da guerra sono sul mare aperto. I nemici potevano provarsi a conquistarla, ma perchè dovevano provarsi a distruggerla?

Poi c’era il sospetto, mal definito anzi indefinibile, contro i musei lontani che si aprivano per ospitare quelle bellezze in fuga. Nelle gallerie di tutto il mondo, anche a Napoli, a Roma, a Firenze, a Milano, la sala più bella, più celebrata, più fastosa non è, almeno pei veneziani, quella che raccoglie le loro pitture? Ritratti di dogi e di dogaresse, di procuratori e di avogadori, di patrizi e di cortigiane, feste sui bacini e sui canali, santi e sante in vesti color d’alloro, color di porpora e color d’oltremare, e voli d’angeli su cieli di madreperla come se ne incurvano solo sulla laguna: non [p. 10 modifica] sono ormai queste gemme sottratte a Venezia il vanto e il tesoro, purtroppo, di tutti i musei, da Madrid a Vienna, da Napoli a Londra? Non si sa mai, nei trambusti della guerra, con questi governi accentratori, con questi frigidi funzionari devoti più ai cataloghi che ai quadri dei musei, felici quando vedono quadri e statue disposti in ordine come documenti in un archivio, bollati o numerati come forzati in un ergastolo....

Finchè quadri e statue restano a Venezia, sotto gli occhi dei veneziani, ci si può fidare. Appena fuor di Venezia, un quadro veneziano non vi pare che s’impallidisca di nostalgia? Era un nobile orgoglio e una disperata passione. Se doveva essere colpita, se doveva essere distrutta, se doveva agonizzare e morire, Venezia voleva agonizzare col conforto della sua arte, voleva morire adorna di tutta la sua bellezza, insieme a tutta la sua bellezza.

E qui veniva l’ultima ragione fatta, come le buone ragioni, sopra tutto di sentimento: il sentimento che Venezia, palazzi e tugurii, acqua e pietre, mosaici ed affreschi, sculture gotiche e tele cinquecentesche, San Marco e la Salute, i cavalli di bronzo sulla Basilica e i vetri di Murano, è una cosa sola, sola e unica, un solo tesoro, solo e unico, incomparabile e insostituibile, e vivo come un corpo vivo. Ad allontanare i quadri dai palazzi o dalle chiese, non si salva ma si smembra Venezia.

Ma la guerra si è in due a farla, e i nostri sentimenti contano poco. I conti s’ha da farli col nemico.

Ora la guerra fu dichiarata la sera del 23 maggio 1915. La mattina del 24 alle cinque, due idrovolanti nemici apparvero sulla città che tutta rosea si liberava appena dagli azzurri veli della notte e le lanciarono quattro bombe.

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La stessa mattina una squadra di navi austriache postasi davanti ad Ancona, porto non più fortificato, lanciava sette proiettili di grosso calibro contro la cattedrale di San Ciriaco ben visibile dal mare, isolata com'è sulle pendici del monte Gasco: e sei proiettili colpirono la chiesa e uno la torre campanaria sul fianco orientale.

La Chiesa di San Ciriaco sorse tra il 1094 e il 1174 al posto d’una chiesa distrutta dai saraceni. È a croce greca, con tre navate per ogni braccio. Tien del Bizantino e del romanico; alcuni suoi capitelli ricordano capitelli di San Marco di Venezia; e i pannelli incrostati del recinto [p. 11 modifica] del coro — ora dispersi un po’ da per tutto nella chiesa — recano figure intrecciate d’animali e di piante che sanno d’orientale e di persiano. Margheritone d’Arezzo vi lavorò alla metà del dugento, e sono sue la facciata e la cupola dodecagonale, forse il soffitto di legno che rammenta quello di San Zeno di Verona. Nel palazzo episcopale lì accanto morì nel 1464 Pio secondo Piccolomini, il papa umanista che fu glorificato dal Pinturicchio negli affreschi della Libreria di Siena e che era venuto ad Ancona per ordinare una ultima crociata contro i Turchi. È quello insomma, nell’Italia adriatica, uno dei luoghi più sacri alla storia e alla pietà perchè vi si affollano i ricordi del nostro dominio e della nostra vita in Oriente: e la bella chiesa alta sui leoni del suo portale pare stia lì di faccia al mare a benedire dal suo monte dirupato chi salpa per la riconquista.

Il primo dei proiettili nemici abbattè la torricella cilindrica sulla cupola. Il secondo entrò nella chiesa, infranse l’organo del Callido, colpì uno dei piloni della cupola. Altri due proiettili squarciarono in alto la navata centrale e sconvolsero il tetto. Ma dal quinto vennero le peggiori rovine: entrò esso dal fondo della Cappella del Sacramento, percorse quasi orizzontalmente la navata e si andò a conficcare sul muro di facciata: il cenotafio del beato Girolamo Gianelli scolpito da Giovanni da Traù fu scheggiato in più punti; due quadri, uno del Bellini di Urbino, l’altro del Simonetti di Ancona, furono distrutti; le volticelle a crociera delle navi minori caddero o dovettero essere sùbito abbattute tanto pericolavano. Un sesto colpo smantellò il tetto sulla Cappella della Madonna.

Questi fatti voltarono l’animo di molti anche a Venezia dove intanto, dichiarata la guerra, ogni potere s’era raccolto nelle mani dell’ammiraglio comandante la Piazza. Si seppe allora che fin dal principio dell’aprile il Consiglio dei Ministri aveva provvidamente ordinato si difendesse almeno il Palazzo Ducale, per quanto era possibile, contro le minacce dal mare e dal cielo. Il Ministero della Guerra si addossò súbito le spese di quelli e degli altri lavori di difesa a fabbriche monumentali, chè per somma ventura v’era allora direttore generale per l’Artiglieria e per il Genio il generale Alfredo Dallolio, poi ministro delle Armi e Munizioni, un amico, anzi un innamorato di Venezia, dove era vissuto per anni quando dirigeva i formidabili lavori di difesa al Lido. Comandava l’ufficio del Genio militare in Venezia e su tutto il territorio della piazzaforte, il maggior generale Devito Francesco. Egli avocò a sè la direzione e il controllo di questi lavori che [p. 12 modifica] dovevano essere sollecitamente conclusi e pagati sul bilancio della Guerra, ma saggiamente lasciò agl’ingegneri veneziani che da anni vigilavano su quei monumenti, pieno diritto di suggerirgli piani, proporgli disegni, escogitare nuovi mezzi di difesa contro gl’incendii, le schegge delle bombe e la convulsione dell’aria per lo scoppio degli alti esplosivi. I monumenti son dei vecchi gloriosi ed è bene non mutare ai vecchi il medico curante proprio quando sovrasta il pericolo. Ingegneri della Regia Sovrintendenza ai monumenti, del Comune, delle Fabbricerie: l’ingegnere Luigi Marangoni per la basilica di San Marco, l’ingegnere Rupolo per il Palazzo Ducale, l’ingegnere Setti per la Loggetta, l’ingegnere Scolari per San Giorgio, pei Frari e per Santa Maria Formosa, l’ingegnere Forlati per San Giovanni e Paolo, per San Zaccaria, pei Miracoli, per San Giobbe, per il monumento al Colleoni: tutti collaborarono a quest’opera di difesa con tanto ardore che il 24 maggio, salvo qualche condottura d’acqua fin sulle soffitte del Palazzo Ducale e fin sulle cupole di San Marco, quasi niente se n’era fatto, e il 15 di luglio tutto quel che si poteva fare era finito.

Certo quel che si poteva fare non era molto, o almeno non assicurava contro tutti i pericoli. Ma le armi di difesa sono tutte così. Si sa che un parapetto di trincea, un casco di acciaio, una corazza, uno scudo non garantiscono il soldato da tutti i colpi; pure i soldati si difendono con trincee, con caschi, con corazze, con scudi.

Si aggiunga la debolezza del suolo di Venezia: la stessa Piazzetta è, in gran parte, un canale interrato. A innalzare pilastri per sostenere una copertura solo di reti di acciaio sopra uno dei cento monumenti di Venezia, si rischia di vedere il suolo sprofondare sulle vecchie palafitte, l’acqua gorgogliare intorno ai pilastri e le pietre angolari dello stesso monumento sconnettersi. Così s’è dovuto súbito rinunciare alla difesa delle chiese che avevano le loro altissime vôlte e le loro cupole coperte di affreschi o di mosaici. E poi a Venezia la fragilità è la regola, la compattezza e la solidità sono l’eccezione. Gli affreschi, ad esempio, del Tiepolo agli Scalzi erano dipinti con la teatrale improvvisazione cara al settecento sopra un leggero strato d’intonaco addossato a finte vôlte costruite con quelle leggere assicelle di legno dette in veneziano cantinelle: la bomba del 24 ottobre 1915 scoppiò fra il tetto di sole tegole e la vôlta sottilissima scagliando quelle in aria e polverizzando questa. Anche le cinque cupole di San Marco non si potevano dire molto più solide di quelle vôlte leggere, pur sotto le loro calotte [p. 13 modifica] di piombo. Ma l’architetto Luigi Marangoni che è a capo dell’Ufficio Tecnico della Basilica, aveva cominciato anche prima della guerra un lavoro paziente ed utile per consolidarle: grattava via dall’estradosso la vecchia calce magra ridotta ormai in polvere anche tra mattone e mattone, e vi colava una malta cementizia così che al disopra dei mosaici d’oro si veniva a gonfiare come una nuova corazza ben compatta.

Ma il primo lavoro di difesa della Basilica contro i pericoli di guerra fu, il 27 maggio 1915, quello di calare i quattro cavalli di bronzo, in dodici ore di continuo lavoro, per riporli in luogo sicuro pur senza allontanarli da Venezia. Fu un lavoro necessario e perchè quelle sculture greche sono preziose anche fuori del loro mirabile compito decorativo, e perchè la parte superiore della facciata della Basilica è tanto debole che ogni percossa sui cavalli e sul podio che li sosteneva poteva sconnetterla e anche farla ribaltare in avanti. Giornata memorabile, piena di sole, di coraggio e d’ansia. Da un secolo, esattamente da un secolo, i quattro cavalli, tornati da Parigi, erano stati ricollocati sul trono. Come narra la sonora epigrafe austriaca finora tollerata sulla porta maggiore di San Marco: "Quatuor equorum signa a Venetis Bysantio capta a. MCCIV primum ad navale deinde ad D. Marc. posita quae hostilis cupiditas a. MDCCXCVII abstulerat Franc. I Imp. pacis orbi datae trophaeum a MDCCCXV victor reduxit"3. Nessuno di noi negl’improvvisi preparativi del difficile lavoro aveva pensato a quella coincidenza: 1815-1915. Mentre il primo cavallo, quello verso la torre dell’orologio, scendeva e voltandosi sulle sue funi nel pieno sole di maggio pareva vivo, qualcuno ricordò. Un brivido di superstizione ci scosse: i quattro cavalli trionfali s’erano mossi solo al cadere d’un impero: dall’arco di Nerone o di Traiano erano discesi per andare con Costantino a Costantinopoli; dall’ippodromo di Costantinopoli eran tornati in Italia a Venezia, quando l’impero greco cadeva esausto davanti alla quarta Crociata e ad Enrico Dandolo; da Venezia a Parigi e dopo poco da Parigi a [p. 14 modifica] Venezia quando precipitò l’impero napoleonico. Non era un auspicio di vittoria? Forse era solo l’ansia nostra a vedere uno dopo l’altro quei bronzi incomparabili sospesi così per tre funi nel vuoto sotto un terso cielo da aeroplani....

All’esterno di San Marco allora non si fece altro. Le opposizioni avevano, davanti alle prime bombe, ceduto a metà. Bisognava concedere loro almeno le apparenze: e le facciate. Si potè coprire con saccate di sabbia l’ultima porta di sinistra solo perchè in quella porta, allo scoppio della guerra, continuavano i lavori di consolidamento cominciati con l’angolo di Sant’Alipio e vi mancavano perfino gli stipiti, così che la mezza calotta del glorioso mosaico dugentesco, con la Traslazione delle reliquie di San Marco nella sua chiesa, era isolata e appoggiata su provvisorii pilastri di legno. Si riempirono con pilastri di laterizio gli archi leggeri agli angoli della Basilica. E poi si lavorò all’interno. Come già la Pala d’oro e il tesoro erano stati nascosti dentro solide casse in ricoveri blindati, così tutti gli altri marmi e bronzi che potevano essere tolti furono tolti. E il resto, le pile dell’acqua santa, gli amboni romanici, le quattordici statue dei Massegne sul septo marmoreo tra chiesa e presbiterio, i capitelli dorati della navata e del transetto, le sculture dei Lombardi sull’altare di San Giacomo e su quello di San Paolo, le colonne istoriate dell’altare maggiore, i bronzetti del Sansovino sulla balaustrata, e, in fondo all’abside, l’altare della Croce con le sue colonne d’alabastro, tutto fu imbottito d’ovatta e di sabbia cotta, e fasciato e protetto con materassi d’alga secca. La cripta fu consolidata per reggere il nuovo peso. Condutture d’aqua contro il fuoco furono alzate fin sulle cupole, furono insinuate fin dentro la cripta.

Il 4 settembre 1916 gli austriaci stessi collaborarono involontariamente alla difesa della facciata. Alle 9 di notte una bomba incendiaria cadde a due metri dalla porta centrale. L’indignazione del popolo fu tanta che nessuno allora potè più opporsi a che tutta la facciata della Basilica e la vicina Porta della Carta venissero finalmente protette da saccate di sabbia e da materassi d’alga4. Ora si vogliono anche appuntare sopra i mosaici [p. 15 modifica] delle cupole grandi cortine di solida tela, perchè l’esperienza ha dimostrato che una cortina libera gonfiandosi al soffio d’un’esplosione come un polmone che respiri, attutisce l’urto e salva perfino vetri e vetrate poste dietro ad essa.

Per il Palazzo Ducale il compito era più facile, poichè tutte le tele dipinte erano state portate lontano. Si trattava di consolidare questo palazzo la cui costruzione è durata, fra mutazioni ed aggiunte continue, tanti secoli e che si può dire rovesciato: con la massa, cioè, dei suoi muri pieni al secondo e al terzo piano, e i vuoti delle sue logge e dei suoi portici al primo piano e al piano terreno. Bisognava consolidarlo in vista di qualche proiettile che venendo da mare o cadendo in diagonale, come cadono quasi tutte le bombe lanciate volando dal cielo, ne schiantasse le colonne di sostegno. Tutti gli archi del portico terreno verso il suolo e quasi tutti quelli verso la Piazzetta furono per ciò rafforzati nel centro da un pilastro a sperone che giunge a un millimetro dall’arco senza farvi forza: ciò che, del resto, non sarebbe stato molto pericoloso dato che gli archi verso il Ponte della Paglia erano fino al 1866 rimasti murati. Anzi per evitare che la muratura fresca macchiasse le pietre patinate, le quali ormai sembrano ferro ed argento ed avorio, vi frapponemmo della tela parafinata. Non basta: sugli angoli verso il Ponte della Paglia, verso le due Colonne di Piazzetta, verso la Porta della Carta, furono costruiti speroni in pianta quadrata o circolare secondo l’aggetto delle sculture. Nella loggia del primo piano, poichè non si potevano per il soverchio peso ripetere i presidii in muratura, le arcate furono puntellate con legno, e altre grosse incavallature a contrasto furono alzate sia per sostenere il muro esterno soprastante, sia per reggere l'impalcato dei pavimenti e i muri divisori delle sale superiori e i due grandi veroni. Nel cortile, poi, furono sepolti sotto sacchi di sabbia il pozzo di bronzo dell’Alberghetti e quello di Niccolò dei Conti; e con altri sacchi disposti dentro invisibili scaffalature di legno furono difese sull’arco Foscari le due statue di Adamo ed Eva di Antonio Rizzo, e tutti i bassorilievi suoi e di Pietro Lombardo lungo la Scala dei Giganti. Naturalmente, anche qui condotture d’acqua furono dal Sovrintendente architetto Ongaro portate fino in cima ai "Piombi" e a tutte le soffitte; e si moltiplicarono dovunque gli estintori e i mucchi di sabbia per spegnere gl’incendii, come s'era fatto nella Biblioteca Marciana posta nel Palazzo della Zecca dall’altro lato della Piazzetta e nel Palazzo Reale.

Lì accanto lo stesso Municipio curava la copertura di tutta la sua [p. 16 modifica] Loggetta che, restaurata dopo la caduta del Campanile, era stata riaperta nel 1912 quando era stato "scoperto" il Campanile nuovo.

Nella chiesa domenicana di San Giovanni e Paolo e in quella francescana dei Frari, in San Francesco della Vigna e a San Zaccaria, la cui facciata allo scoppio della guerra era tutta coperta di palchi in legno presto demoliti perchè non vi si ripetesse l’incendio di Reims, tolte le pitture e le vetriate e le sculture che si potevano togliere, le opere d’arte che restavano furono difese con lo stesso sistema che nella Basilica di S. Marco: con due o tre cumuli di sacchi di sabbia sostenuti da scaffalature di legno lontane trenta o quaranta centimetri dall’opera che si voleva difendere. Se la bomba caduta in San Giovanni e Paolo, nella notte tra il 12 e il 13 settembre, non ha mutilato il monumento al doge Pietro Mocenigo che è il puro capolavoro di Pietro Lombardo (1485), se nella base del fastoso Mausoleo Valier (1708) i delicati bassorilievi di Pietro Baratta sono intatti, lo si deve a queste precauzioni. Le schegge lacerarono i sacchi ma il colpo morì su quei cuscini di sabbia. L’immensa vetriata del Mocetto da sedici mesi era lontana, al sicuro, nel buio delle sue casse.

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Intanto la difesa aerea della città, per opera della Marina, si faceva più intensa, più varia, più pronta. Ma la difesa del cielo di Venezia non è facile.

Per giungere sulle altre città le macchine aeree nemiche debbono attraversare la fronte di combattimento e linee di batterie antiaeree anche mobili e parchi di velivoli da caccia; o almeno, debbono volare su regioni nelle quali è possibile stabilire reti di stazioni d’avvistamento o d’ascolto. Invece su Venezia le macchine aeree nemiche giungono direttamente dal mare, e tra Venezia e le loro basi di Trieste o di Pola distanti da 90 a 150 chilometri, è impossibile, sul mare e nella laguna deserta, disporre un’efficace difesa ed è difficile stabilire segnalazioni in tempo utile.

S’aggiunga che gl’idrovolanti nemici arrivano su Venezia quasi sempre nelle notti di luna, quando Venezia è nettamente visibile dal cielo perchè circondata dalle acque e intersecata dai canali: visibile da un estremo all’altro come sopra una carta topografica. Si aggiunga ancóra che i velivoli terrestri raramente attaccano di notte città poste dentro terra: un guasto al motore li costringerebbe ad atterrare in luoghi mal conosciuti e quasi [p. 17 modifica] invisibili, esporrebbe cioè l’apparecchio e gli aviatori alla rovina sicura. Invece anche di notte gl’idrovolanti nemici possono sempre discendere sul mare libero o nei larghi specchi d’acqua della laguna. Infine la segnalazione acustica che di notte è la sola possibile, diventa presso il mare, tra il rumoroso frangersi delle onde sulla spiaggia, molto meno sicura che a terra.

Nonostante questi ostacoli naturali, la Marina italiana, traendo profitto da tutte le esperienze proprie ed altrui, perfezionando e moltiplicando gli uomini, le armi e gli strumenti di osservazione, è riuscita a organizzare anche la difesa aerea di Venezia in un modo ammirevole. Per merito suo le offese tentate dal nemico hanno quasi sempre sbagliato il loro bersaglio; molto spesso, delle squadriglie partite dalla riva austriaca soltanto la metà o un terzo ha osato volare sulla città, o meglio attraversare la città a grande altezza e a massima velocità; e in ogni caso la minaccia è stata sempre segnalata in tempo e in modo utile. Quando si potrà dir tutto, chiunque nel mondo ami o amerà Venezia, dovrà essere grato ai difensori del suo cielo, perchè si deve e si dovrà alla loro intelligenza, alla loro costanza, alla loro abnegazione se i nemici non sono riusciti con le armi odierne a ridurla una rovina, come già sembrava tanto facile al feldmaresciallo Thurn quando la assediava nel 1849.

Dopo gl’intensi bombardamenti del giugno e del luglio 1915, vi fu una sosta di quasi tre mesi. Ma nella notte tra il 24 e il 25 ottobre, alle ore dieci e mezza, una bomba cadde sulla chiesa degli Scalzi e distrusse tutta la vôlta dipinta dal Tiepolo. L’affresco che il Tiepolo vi aveva dipinto quasi cinquantenne, tra il 1743 e il 1750, rappresentava la Traslazione della Santa Casa di Loreto, e l’entusiasmo che suscitò quell’opera tutta luce e musica e volo, fu tanto che passò le Alpi e indusse il vescovo di Würzburg, Carlo Filippo di Greiffenklau, a chiamare il pittore per confidargli, a Würzburg, la decorazione del suo palazzo. Aveva il Tiepolo appena finito nella stessa Venezia la vasta tela pel soffitto dei Carmini con la Vergine in gloria e a Milano gli affreschi del palazzo Clerici e del palazzo Dugnani: ed era al culmine dell’arte sua e della gloria. Perciò ben si può affermare col Fogolari5 che "egli tocchi la perfezione con questo soffitto". Dopo l’esplosione non ne restarono che i pennacchi ai lati, perchè dipinti sul muro pieno: quattro a destra di chi entra, tre [p. 18 modifica] a sinistra; quattro a tutto colore, tre in monocromo verde a dar idea di statue di bronzo. Tra i primi, bellissimo, fuor da un mantello color ruggine, un vecchio che sostiene con una mano sul petto un giovinetto roseo e biondo, dagli occhi tondi e stupefatti, vestito d’un giustacuore di raso azzurro, adorno di una catena e d’una medaglia d’oro, chinato sopra una balaustrata a guardare giù la grande chiesa, — e adesso la grande rovina. I ritratti, si narra, di Giambattista Tiepolo e di suo figlio Domenico. A fissarli, così soli, sospesi su quella distruzione, tra il cielo scoperto e il monte di rottami, nelle prime ore dopo la catastrofe, commovevano come la presenza di figure vive, riapparse lì per un prodigio di amore e di pena.

Si pensi che, essendo l’unica navata lunga circa trenta metri, quasi duecentocinquanta metri quadrati di pittura del più luminoso immaginoso lieto delicato illustre pittore del nostro settecento furono annientati da quella offesa nemica.

Erano le finte architetture intorno al gran quadro centrale, opera di Girolamo Mengozzi Colonna, nato in Ferrara, ma oriundo di Tivoli; e nel contratto che i padri Carmelitani Scalzi avevano fatto con lui il primo ottobre 1743 (il contratto col Tiepolo è del 13 settembre) si definisce che quelli ornati dovevano essere "corrispondenti all’architettura e a’ vivi marmi che esistono in detta Chiesa"6.

Tre giorni dopo la rovina, si iniziavano la ricopertura del tetto; lo sgombero delle macerie e dei calcinacci tra i quali nemmeno un centimetro quadrato d’affresco fu ritrovato intatto; e il distacco delle pitture rimaste sui pennacchi.

La riprovazione per questo delitto fu unanime, non solo in Italia e fra i nostri alleati, ma anche fra i neutrali. Anzi in Italia, per quell’ottimismo indomabile che è il nostro conforto e la nostra debolezza, qualcuno si chiese se il nemico avesse proprio voluto deliberatamente colpire un monumento tanto insigne. Non tardò a rispondergli lo stesso nemico. L’ufficioso Fremdenblatt del 14 novembre 1915 dichiarava che anche agli austriaci dispiaceva la distruzione dei tesori dell’arte, ma questo dispiacere era diminuito dalla gioia per il danno arrecato alla nostra ricchezza e alle nostre rendite per "l’industria dei forestieri", e sperava che "questo pensiero avrebbe nell’avvenire servito di guida agli aviatori". [p. 19 modifica]

Infatti il 12 febbraio 1916 in un’incursione sulla città aperta di Ravenna una bomba fu gittata proprio sulla chiesa di Sant’Apollinare nuovo, la chiesa palatina di Teodorico, eretta nel primo quarto del sesto secolo e dall’arcivescovo Agnello nel 560, quando passò al rito cattolico, ornata dei celebri mosaici con la processione delle Vergini e dei Martiri bianchi. Questa processione sul cielo d’oro è così pura e divina nella sua simmetria e nella sua monotonia che un lento ritmo di musica liturgica pare accompagni le Vergini sui gigli e le rose verso Gesù bambino e, di contro, i Martiri verso Gesù Redentore, dietro la porpora sanguigna di San Martino che li conduce.

Un miracolo salvò questa bellezza d’una gloria e d’uno splendore senza pari, rispettata e adorata da tutti i secoli, dagli Esarchi bisantini e dai Longobardi, dai tumulti dei guelfi e dei ghibellini, dal nefando saccheggio del 1512 e dagli stolti restauri settecenteschi e ottocenteschi. La bomba, invece che nel mezzo della navata centrale, cadde per fortuna verso la facciata, scoppiando, dopo l’urto sul tetto, nell’interno; abbattè l’angolo superiore sinistro della fronte e tre campate del portico; sfasciò l’organo e trentaquattro cassettoni del ricco soffitto secentesco sconnettendo gli altri, frantumando le vetrate, distaccando un gran lembo dei mosaici verso l’ingresso così che poche ore dopo precipitavano.

Ancóra una sosta di quattro mesi. Sembra quasi che, compiuto un misfatto tanto vile e, per la guerra, tanto inutile, i nemici vogliano sempre aspettare che, fra tante vicende dell’immane tragedia, esso venga dimenticato e gl’ingenui, che sono tanti, riprendano fiducia e speranza. Il 23 giugno, alle due e trenta del mattino, un idrovolante austriaco lanciava a Venezia sulla chiesa di San Francesco della Vigna due bombe potentissime.

San Francesco della Vigna, dei Minori Osservanti, trae il suo nome dalle vigne che circondavano l’antica e più modesta chiesa prima che Jacopo Sansovino nel 1534 ne ampliasse con bel fasto l’interno e che Andrea Palladio nel 1568 ne cominciasse la facciata di pietra. Quelle vigne furono nel duecento donate dal doge Marco Ziani al convento di Santa Maria dei Frari. Si narrava che in quel luogo romito fosse sbarcato in una notte burrascosa San Marco partitosi da Aquileia e vi avesse udito la voce dell’angelo che lo confortava a sostare su quella terra benedetta: Pax tibi, Marce, Evangelista meus. Le parole fatidiche che, nel libro protetto dal Leone, sono incise sulle mura e sulle colonne di tutti i [p. 20 modifica] dominii della Repubblica, scesero lì dal cielo. Dietro la chiesa una cappelletta settecentesca adesso tutta sconquassata dai due colpi nemici, ricorda quella leggenda. Nel quattrocento furono ospiti di questo convento San Bernardino da Siena, San Giovanni da Capistrano, San Giovanni della Marca, San Bernardino da Feltre. Fra gli altri illustri, è sepolto in San Francesco quell’Andrea Gritti che nel 1507 fu provveditore dell’esercito veneto contro l’imperatore Massimiliano, e poi fu doge. La adornano, per dire delle opere più insigni, una grande Madonna del Veronese, una di Giovanni Bellini, che eran già in salvo, una di Fra Antonio da Negroponte che era stata riparata da un’alta saccata, quattro affreschi a chiaroscuro del Tiepolo nella cappella Sagredo, alcune statue di Alessandro Vittoria; e, precipuo tesoro, a sinistra dell’altar maggiore, la Cappella Giustiniani, tutta marmi scolpiti dai tre Lombardi con una compostezza così antica e pure con un’espressione così agile che solo le due tombe Mocenigo in San Giovanni e Paolo possono starle a paro. Anche questa cappella avevamo tutta difesa con scaffali colmi di sacchi di sabbia.

Delle due bombe una colpì il campanile sotto la cella delle campane, scheggiò la cornice, si ficcò nella terra. L’altra, scoppiando contro il muro esterno della sacrestia, vi aprì due larghe brecce, e i macigni e i mattoni e l’aria scagliati dal turbine per quei varchi, sconvolsero nell’interno soffitto e tetto, divelsero i cancelli di ferro, sgretolarono gl’intonachi, sollevarono le grandi pietre bianche e rosse del pavimento, schiantarono armadii e vetri, ferirono in più parti il trittico vivarinesco, ricco d’oro e d’oltremare, con San Girolamo, San Bernardino e San Luigi di Francia, che qualche vecchio scrittore, come il Ridolfi e il Boschini, aveva attribuito a Jacobello del Fiore. Tutte le case attorno, della canonica e degli uffici, furono scosse e dilaniate da quella furia.

***

Poi Venezia dovette pagare la presa di Gorizia, come Reims aveva dovuto pagare la vittoria della Marna. A Gorizia entrammo il 9 agosto 1916. Tra il 9 e il 10 una bomba incendiò Santa Maria Formosa, un’altra cadde in San Pietro in Castello.

La chiesa di Santa Maria Formosa da dove erano state fin dal 1915 allontanate la Vergine tra Sant’Anna e San Gioacchino, dipinta nel 1473 da Bartolomeo Vivarini, e la popolarissima Santa Barbara di Palma il [p. 21 modifica] Vecchio, fu rifatta dopo un incendio del 1105 "sul modello del corpo di mezzo della chiesa di San Marco", come spiega il Sansovino, cioè a croce greca con una cupola sul quadrato d’incrocio. Il tetto di due navate s’incendiò e crollò e la cupola fu squarciata.

I danni a San Pietro in Castello furono minori. Non arse che la cupola. Parve anzi che la bomba incendiaria si fosse fermata sulla lanterna e da lì il fuoco fosse disceso per la cupola. Il quadro del Basaiti con San Pietro, e quello di Paolo Veronese coi santi Pietro e Paolo erano stati già portati al sicuro. Restavano le due grandi tele della fine del seicento, una di Gregorio Lazzarini che descrive la carità del Santo Lorenzo Giustiniano sepolto nella chiesa, e una di Antonio Bellucci che raffigura lo stesso santo orante per liberar Venezia dalla peste del 1630. Furono tutte bagnate dall’acqua lanciata sulla cupola e sui tetti per spegnere l’incendio; ma sono salve.

L’attentato non recò, per questo, minore angoscia al popolo veneziano la cui religione risplende tutta di ricordi della sua storia. Infatti la chiesa di San Pietro fu dal 1451, cioè dalla fondazione del Patriarcato di Venezia, fino al 1807, la chiesa dei patriarchi i quali lì accanto ebbero il loro palazzo. E una bomba cadde anche su questo palazzo abbattendone tutt’un’ala.

Quando dalla terraferma le popolazioni cristiane per il terrore di Attila si rifugiarono nelle isole della laguna, da Grado a Rialto e a Castello, che allora, per i suoi uliveti, si chiamava Olivolo, la leggenda narrò romanamente che nella stessa isola era sbarcato Antenore dopo la distruzione di Troia. La prima chiesa che quei fuggiaschi vi eressero, fu dedicata ai santi Sergio e Bacco e sottoposta ai patriarchi di Grado. Il vescovo "Castellano" riconobbe l’autorità di questi patriarchi che furono protetti dai dogi veneti contro i patriarchi tedeschi di Aquileia: memoranda difesa fra tutte quella del 1162 quando il doge Vital Michiel II andò con una flotta a liberar Grado dal patriarca aquileiese Voldarico di Treffen e il giovedì grasso lo trasse prigione a Venezia coi suoi dodici canonici e non lo liberò che quando egli ebbe firmato il patto di mandare, per preciso ricordo suo e dei suoi, ogni giovedì grasso alla Repubblica il tributo di un toro e di dodici porci da sgozzare in piazza e da distribuire ai poveri. Nel 1451 papa Nicolò quinto aboliva il patriarcato Gradese e riuniva in Lorenzo Giustiniani il titolo e la dignità di Vescovo Castellano e di Patriarca.

Dopo San Pietro di Castello, venne pei nemici la volta di San Marco davanti alla cui porta centrale cadde una bomba incendiaria il 4 [p. 22 modifica] settembre 1916; e poi la volta di San Giovanni e Paolo che fu colpita all’una e quaranta la mattina del 13 settembre. Due bombe furono lanciate su questa chiesa, ma una cadde a poca distanza, sulla Casa di Ricovero detta volgarmente l'Ospedaletto, che accoglie cinquecento vecchi, e ne forò i tre piani, passando a mezzo delle corsìe tra due file di letti, e andando a conficcarsi nelle fondazioni.

Di San Giovanni e Paolo diceva nel 1581 Francesco Sansovino che era un edificio "nobilissimo per sito perciò che è posto quasi nel cuor della città; per struttura ancora che la maniera sia tedesca; per grandezza di corpi, per abbellimenti di pitture, di statue e d’altre cose notabili e degne di ricordo. Fra le quali una è che in questo Tempio giacciono sedici principi di Venezia e però nelle funera dei Principi il pubblico frequenta questa chiesa, onde s’è poi introdutto perciò che ogni altro huomo di grado pubblico si conduce in detto luogo nelle celebrationi dei mortorii come sono Ambasciatori, Condottieri et simili altre persone segnalate".

Sulle tombe di Tomaso e Pietro Mocenigo, di Antonio, Francesco e Sebastiano Veniero, di Marcantonio Bragadin, di Bertuccio Valier, d’Andrea e d’Alvise Pisani, si sente più che dovunque in Italia come e perchè questa guerra nostra continui oggi dirittamente la lotta per la necessaria conquista dell’Adriatico, per il giusto condominio del Mediterraneo. Basta leggere la epigrafe sulla più antica di queste tombe che è di mano toscana, su quella di Tomaso Mocenigo, del 1413: "Ungaricam domuit rabiem, Patriamque subegit — Inde Fori Julii, Cattarum Spalatumque Tragurum — Aequore piratis patefecit clausa peremptis". Ma i raffronti sarebbero troppi e troppo facili che in questo tempio è tutta la storia politica di Venezia.

E con la storia, monumenti d’arte d’ogni secolo e d’ogni materia, cominciando dalla grande vetriata del Mocetto che Corrado Ricci aveva fatta smontare e portar via diciassette mesi prima, insieme alle tele di Bartolomeo Vivarini, di Cima da Conegliano, di Lorenzo Lotto, di Rocco Marconi: tesori che oggi, senza quella previdenza, sarebbero cenci e frantumi. Una sola tela non s’era potuta staccare: l’immenso ovale dipinto dal Piazzetta per il soffitto della cappella di San Domenico nella navata di destra, e cucito a volta sopra un telaio fatto di assicelle convergenti come le stecche d un ombrello. Vi si era, non potendo far altro, riparato il tetto con grosse lamiere. Ma la bomba entrò nella chiesa per un foro di quasi due metri dall’alto della navata destra, andò a colpire in alto il muro opposto della navata [p. 23 modifica] centrale; scoppiò scagliando grosse schegge sul monumento di Pietro Lombardi al doge Pietro Mocenigo a sinistra di chi guarda la gran porta, e sul monumento Valier, i quali, per essere tutti e due stati coperti da gravi saccate di sabbia, restarono illesi; ferì un quadro del Bissolo; con la convulsione dell’aria staccò l’intonaco da tutta la volta e dilaniò la tela del Piazzetta: la sua tela più celebre, più bella e più delicata perchè i toni di rosa e di ambra, intorno alle tonache nere dei domenicani e alla veste turchina dell’angelo che solleva il Santo, v’erano rimasti intatti, ciò che ormai è raro nelle pitture di lui.

Sopravvenuto col nuovo plenilunio un inverno precoce, il nemico parve sospendere le sue incursioni su Venezia. Meglio, per merito della difesa aerea sempre più efficace e più ricca di mezzi tremendi e inattesi, le dovette sospendere, perchè l’11 novembre, quando volò su Padova per uccidervi cittadini inermi e donne e fanciulli, evitò studiatamente la zona battuta dalle artiglierie veneziane; e così fece più volte, fino alla notte sul 3 giugno 1917 quando queste artiglierie lo respinsero sui dintorni di Venezia dove si rassegnò a gittare le sue bombe ferendo tre borghesi. Solo il 30 giugno col favor della luna, volando ad altissima quota, alcuni apparecchi riuscirono a venire su Venezia e su Murano, ma non riuscirono a gittarvi che poche bombe tanto precipitosa fu la loro fuga sopra al fuoco della difesa.

Nella notte sul 14 maggio 1917, poichè il 13 noi gli avevamo sferrato un attacco vittorioso, inizio d’azioni più minacciose, il nemico si vendicò sulla basilica di Aquileia colpendola con una bomba nel transetto destro e scagliando dietro quella bomba esplosiva una bomba incendiaria che per fortuna cadde sul sagrato all’aperto7. L’11 luglio, in un’incursione su Cividale, gittava una bomba su quel Museo archeologico, insigne per le sue raccolte d’arte medievale. Ma il Museo era vuoto.

***

Perchè intanto, dopo i danni subiti da Venezia e da Ravenna, altre città, o per fatto del governo centrale o per spontanea volontà di difendere le bellezze proprie, si eran date a spedire oltre Apennino, coi generosi aiuti [p. 24 modifica]del Comando Supremo dell’Esercito, quadri, vetri, giojelli, bronzi, stampe, codici, archivi e, dalle chiese, la suppellettile sacra più antica e venerata, e a riparare dietro assi, tele, materassi, sacchi e lamiere le sculture e gli affreschi più illustri.

Così a Padova sulla statua equestre del Gattamelata sta un’alta e sdrucciola tettoia coperta di lamiera; e nella basilica del Santo, i bronzi di Donatello sull’altar maggiore sono difesi da sacchi di sabbia; e anche quel Museo è vuoto. A Ravenna, tele e "paglietti" d’alghe proteggono i mosaici di San Vitale, del Mausoleo di Galla Placidia, di Sant’Apollinare Nuovo e di Sant’Apollinare in Classe. A Verona le tombe degli Scaligeri sono sepolte nella sabbia e chiuse dentro torri aguzze che han l’aria di fortilizii gotici. A Milano è vuota la Pinacoteca di Brera, e a Bergamo la Pinacoteca dell’Accademia Carrara. E ancora a Bergamo altre saccate proteggono la cappella Colleoni eretta dall’Amadeo nel 1476 e affrescata dal Tiepolo nel 1732. A Cremona il Perugino di Sant’Agostino è nascosto anch’esso dietro i suoi sacchi. A Brescia è chiuso il Museo Cristiano; chiusa e nascosta lontano la Pinacoteca Martinengo; scomparsa dal Museo Romano, per non riapparire che nel suo giorno, la Vittoria; corazzate con gesso, sacchi e tavole le elegantissime sculture dell’entrata alla Madonna dei Miracoli. A Bologna la fontana del Nettuno di Giambologna è chiusa dentro una piramide di terra e di legna; e uno spesso tavolato e sacchi di terra riparano ai lati e sopra la porta centrale di San Petronio i bassorilievi di Jacopo della Quercia. Perfino a Firenze lo Stato ha rimosso dalla Galleria degli Uffizii e da quella dell’Accademia più che duecento quadri e tutta la raccolta delle Gemme medicee, ha alzato condotti d’acqua fin sui tetti contro gl’incendi, ha protetto le porte del Battistero, le sculture fuori d’Orsanmichele e quelle sotto la Loggia de’ Lanzi; e il Comune ha calato giù la gran vetriata dipinta dall’abside di Santa Maria Novella. E a Roma il Municipio in Campidoglio, la direzione delle Antichità nel Museo di Villa Giulia e in quello delle Terme hanno elevato difese intorno alle statue più belle o più rinomate; e dalla Galleria Borghese sono state tolte le tele più preziose. E a Napoli vasi, oreficerie, argenterie e gemme sono state rinchiuse dentro cassoni di ferro. E da Taranto son partite le raccolte del Museo. L’ultimo e delicato lavoro è stato il trasporto per via d’acqua dell’Assunta di Tiziano fuori di Venezia.

Durante l’offensiva nemica del maggio 1916, si vuotarono in pochi giorni i musei di Bassano e di Vicenza, e le cento chiesine sull’Altipiano [p. 25 modifica] dalla valle dell’Astico al Canale di Brenta. La tavola del Veda a Velo d’Astico, quella dello Speranza a San Giorgio di Velo partirono dai loro santuari inseguite dal tiro delle artiglierie austriache del monte Cimone, e giunsero a Vicenza negli autocarri che avevano portato sulla linea del fuoco le munizioni ai nostri combattenti.

Ma questo è quel che s’è salvato. Chi ci ridarà quello che s’è perduto?

Un solo modo ha il nemico per pagare a Venezia i danni e gli sfregi volontariamente recati alle sue chiese più belle. Uno Stato che senta la dignità della sua storia e della sua civiltà, non è, nelle trattative di pace, un mercante che concorre a un’asta pubblica e misura a lire o a corone il suo danno e il suo guadagno. La pittura veneziana si paghi con pittura veneziana. Tra il Museo Imperiale e l’Accademia Imperiale, Vienna ha, se ben rammentiamo, venticinque quadri di Tiziano e quindici di Jacopo Tintoretto.

Ugo Ojetti.

Note

  1. Sebastiano Rumor, Storia documentata del Santuario di Monte Berico. Vicenza, Officina grafica pontificia di San Giuseppe, 1911. Nel 1866 il Comune di Vicenza fece nello stesso refettorio apporre un marmo con queste parole: «Questo capolavoro di Paolo — dagli austriaci irrompenti — il 10 giugno 1848 — ridotto a trentadue pezzi — restituito all’onore dell’arte — per decreto dell’imperatore Francesco Giuseppe I° — per opera di Andrea Tagliapietra — qui venne ricollocato il 19 maggio 1858». Infatti il difficile restauro fu fatto dal pittore veneziano Tagliapietra, con la spesa di lire tremila.
  2. Cfr. Tomo VIII della Raccolta di tutti gli Atti, Decreti, Nomine, ecc., del Governo Provvisorio di Venezia, pagine 348 e 349; e l’articolo di Gino Fogolari, Per le opere d’arte a Venezia nel 1849, nel "Marzocco" del 27 maggio 1917.
  3. A Parigi Napoleone aveva mandato i quattro cavalli ad ornare l’arco del Carrousel. Pel loro ritorno Francesco primo venne apposta a Venezia col principe di Metternich. Quando i cavalli si mossero dall’Arsenale, alle 10 del 13 dicembre 1815, su due carri, sopra una barca a ponte, furono sparati ventun colpi di cannone. Capo dell’Arsenale era un Dandolo, capitano di fregata. L’imperatore sostò nella loggia sotto il campanile. A sera la piazza fu illuminata a giorno e sopra un trasparente si lesse questa scritta: "A Francesco I° vincitore — che questi preziosi cavalli — alle loro sedi — con somma munificenza ritornò — tributo devoto — di grazie e di esultanza — Venezia consacra". (Fabio Mutinelli, Annali delle Province Venete dall’anno 1801 all’anno 1840, Venezia, tip. Merlo, 1833).
  4. I materassi o «paglietti» d’alga furono tesi davanti alla facciata di San Marco e alla Porta della Carta e poi davanti a parecchi altri monumenti di Venezia per ordine del ministro Scialoja, su consiglio dell’ammiraglio Thaon de Revel che allora era a capo della Piazza e del Dipartimento. Essi, per essere incombustibili o almeno lenti a bruciare, sostituiscono bene i materassi di lana che l’Accademia Veneziana di Belle Arti chiese invano al Governo Provvisorio durante l’assedio del 1849, e che fin dall’assedio del 1530 Michelangelo adoperò per la difesa di Firenze. (A. Gotti, Vita di Michelangelo Buonarroti, 1, pag. 198, Firenze 1875).
  5. Gino Focolari, G. B. Tiepolo nel Venelo, ed. Alfieri e Lacroix, Milano.
  6. Pompeo Molmenti, G. B. Tiepolo, ed. Hoepli, Milano.
  7. Sulla basilica d’Aquileia gli aviatori austriaci avevano già scagliato la sera del primo novembre 1916 una bomba che era caduta di là dal muro del camposanto, e la notte sul 7 dicembre un’altra bomba caduta tra il campanile e la chiesa.