Gli orrori della Siberia/Capitolo XI – La prima notte nella tappa

Capitolo XI – La prima notte nella tappa

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Capitolo XI – La prima notte nella tappa
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Capitolo XI – La prima notte nella tappa


Le tappe sono immonde carceri, mal riparate, quasi sempre insufficienti ad accogliere un grosso numero di persone, scaglionate sulla Wladimirka ad una distanza di venticinque o trenta chilometri l’una dall’altra. Si trovano per lo più nei villaggi, ma vi sono anche le mezze tappe, più piccole, più luride, più rovinate, situate in luoghi deserti, in mezzo a pantani o alle nevi.

Nelle tappe i prigionieri riposano ventiquattr’ore; nelle mezze tappe la sola notte.

Queste tappe sono costruite tutte con tronchi d’albero; consistono in un fabbricato principale dove abitano i soldati ed i capi, e dove si trova la cucina, ed in parecchie camerate, ma talvolta in una sola. In queste, che sono rischiarate da piccole finestre, insufficienti per dare aria, con grosse sbarre di ferro che permettono alla luce di entrare a mala pena, vengono ammassati i prigionieri.

Non contengono che un tavolato, collocato nel mezzo, ed una botte per gli escrementi. I prigionieri che non possono essere contenuti là dentro, si pigiano in strette celle.

Le donne dei forzati e degli esiliati si riparano in luridi corridoi, dove si accomodano come meglio possono, dormendo le une sulle altre.

Annesso alle tappe, – le mezze tappe ne sono sprovviste, – vi è un riparto destinato agli ammalati, un piccolo ospedale. Non crediate però che siano gli esiliati od i forzati ammalati che occupano questi letti. Oibò!...

Sono i cosacchi che s’affrettano a stendersi su quei giacigli più o meno puliti, per poter rispondere, a coloro che si lagnano di essere moribondi, che posto non ne rimane altro.

Nondimeno gli ammalati guadagnerebbero molto poco, nel cambio, poiché il più delle volte gli infermieri hanno venduto le medicine per procurarsi qualche solenne ubriacatura di vodka, e l’aria di quelle corsie non è meno infetta di quella delle camerate.

Il colonnello ed Iwan, usciti dal piccolo magazzino della tappa, dove, mercè l’ordine dato dal capitano, avevano indossato delle maglie pesanti di buona lana ed il caftano grigio degli esiliati, vennero, dal maresciallo d’alloggio, condotti nella camerata principale per passarvi la notte.

– Chiama lo starosta, – diss’egli al cosacco di guardia, che stava piantato dinanzi alla porta, col fucile armato di baionetta.

Appena la porta s’aprì, un’ondata d’aria calda, carica di esalazioni pestifere, soffocante, irrespirabile, irruppe nel corridoio facendo vivamente indietreggiare il colonnello e lo studente.

Un vecchio dalla barba bianca, tarchiato, muscoloso, con petto ampio ed interamente denudato e colla catena al piede destro, apparve. Era lo starosta, ossia il più vecchio fra i forzati e gli esiliati, incaricato del buon ordine e della disciplina dei suoi compagni, colui che doveva rispondere colla sua vita, se così fosse piaciuto al comandante della scorta, della fuga o della ribellione di quei disgraziati.

– Quanti uomini vi sono? – gli chiese il maresciallo dei cosacchi.

– Trecento, Alta Signoria, – rispose il vegliardo.

– Non vi è più posto, adunque?

– Ve ne sono centocinquanta di più.

– E le celle sono piene, – riprese il cosacco, come parlando fra sé. – Bah!... Due più o due meno, vi possono ugualmente stare.

E spinse nella fetida prigione il colonnello e lo studente, chiudendo dietro di loro la porta.

Erano appena entrati che caddero entrambi su di un ammasso di corpi umani coricati in mezzo al fango ed il sudiciume, come fossero stati colpiti da improvvisa sincope o d’asfissia fulminante. Un calore ardente, emanato da quei trecento prigionieri, pigiati entro uno spazio appena capace di contenerne cento, un odore nauseante, acre di sudore, di putredine, di escrementi, di sangue, carico di germi micidiali, si espandeva in quell’oscuro locale. Corpi umani semi-nudi, pigiati gli uni contro gli altri, l’uno sopra l’altro ammonticchiati, chi sopra il tavolato, gli altri per terra, l’occupavano da una estremità all’altra, senza lasciare il minimo spazio per posare un piede. Quei corpi però dormivano d’un sonno catalettico, con un russare strozzato, e certo non si sarebbero svegliati se una compagnia di soldati fosse passata sopra di loro.

Per alcuni minuti il colonnello e lo studente rimasero inerti, ma a poco a poco i loro polmoni cominciarono ad abituarsi a respirare quell’aria eccessivamente rarefatta e pestifera.

– Dove siamo noi? – rantolò Iwan, cercando di rialzarsi. – Mille lampi!... Stavo per schiacciare una testa.

– Coraggio, – disse una voce. – Non siete ancora abituati all’aria della prigione, poveri uomini, e ci vuole qualche tempo per poter vivere in questi inferni.

Era lo starosta che così parlava. Passando sopra quel carnaio umano, colla maggior delicatezza possibile per non schiacciare il viso ai dormenti, si era recato in un angolo della fetida prigione ed era ritornato portando con sé una fiasca.

– Animo, – riprese egli, – un sorso di vodka vi farà bene.

– Ma qui è impossibile vivere, – disse Sergio.

– Eppure si vive, – disse lo starosta con un mesto sorriso.

– Ma dove ci coricheremo noi? – chiese lo studente. – Intorno a me non vedo uno spazio libero grande come un rublo. Dovrò schiacciare questo povero diavolo che mi sorregge col suo petto?... Queste sono infamie!

– Tacete, Iwan, – disse Sergio.

– Ma vi dico che io mi sento morire e che mi pare di sentirmi strozzare da una mano di ferro. Non potrò mai abituarmi, colonnello.

– Colonnello! – esclamò lo starosta, guardando Sergio. – Anche gli alti gradi portano in Siberia!... Nessuna carica più ormai salva in Russia, adunque?

– Chi siete voi? – chiese Sergio.

– Un professore dell’Università di Mosca, prima; ma ora sono un politico esiliato nella Transbaikalia.

– Un nichilista forse? – chiese Iwan.

– Silenzio, – disse lo starosta, – non si parla di nichilismo qui. – Poi, indicando un pezzo di tavolato, il suo giaciglio, disse:

– Là, cercate di coricarvi; una notte passa presto.

– È impossibile che io rimanga qui, – disse Iwan, con risolutezza. – Non voglio morire asfissiato.

– Una ribellione sarebbe inutile e pericolosa, – disse il vecchio. – Guardate quanti che dormono ora, mentre al pari di voi non credevano di potersi abituare a quest’aria appestata. Là, andate, e cercate di riposare.

– No, vi dico, non passerò sopra questi corpi umani, – gridò lo studente.

– Iwan, – disse il colonnello. – Volete farvi uccidere.

– Mi uccidano con un colpo di baionetta, se lo vogliono, ma non rimarrò qui! Mi sembra già di essere pazzo.

In quell’istante la porta si aprì ed il cosacco di guardia apparve, dicendo:

– Silenzio, canaglie!...

– La canaglia sarai tu, selvaggio del Don! – urlò invece lo studente, che pareva fosse tutto d’un tratto diventato furibondo.

Il cosacco, non abituato senza dubbio a udire un prigioniero ad alzare la voce, né ad alcun atto di ribellione, rimase attonito a simile audacia, ma riacquistò subito la sua brutale insolenza.

– Ah!... infame warnak! – esclamò, alzando il calcio del fucile. – Tu osi insultare?... Prendi!...

Il calcio dell’arma però non si abbassò: lo studente, rapido come il lampo, era balzato addosso al soldato e l’aveva afferrato per la gola con forza sovrumana, urlando:

– Almeno che ne strozzi uno, di questi aguzzini!

– Iwan! – esclamò il colonnello. – Volete farvi uccidere?

Ma lo studente, che era in preda ad un tremendo accesso di furore, non udiva più nulla e stringeva con maggior forza, cacciando le unghie nel collo dell’avversario.

Questi, mezzo asfissiato da quella potente stretta, aveva lasciato cadere sul pavimento, con grande fracasso, il fucile. Quel fragore fece accorrere il maresciallo d’alloggio che vegliava nel vicino corridoio.

Vedendo il suo soldato appoggiato alla parete opposta, tenuto stretto dallo studente, snudò rapidamente la sciabola, pronto a trapassare il ribelle con un buon colpo di punta, ma il colonnello gli chiuse il passo, dicendogli:

– Lasciate fare a me!...

– Largo, canaglia! – gridò il maresciallo.

– A me, canaglia! – rispose Sergio, impallidendo. – Prendi! – Con le sue robuste braccia afferrò il maresciallo a mezzo corpo, lo sollevò in aria come fosse una penna e lo scaraventò contro la parete opposta.

Ma l’allarme era stato dato. I soldati di guardia dei corridoi, udendo quel fracasso e quelle grida e temendo che si trattasse di una ribellione di tutti i forzati, accorrevano coi fucili.

Vedendo il loro capo a terra ed il loro compagno rantolante sotto la stretta dello studente, non esitarono più e si scagliarono innanzi colle baionette calate. Già stavano per trafiggere i due esiliati, quando una voce tuonante, che non ammetteva replica, gridò:

– Giù le armi!... Guai a chi si muove!...

Il capitano Baunje, semi-nudo, stringendo nella destra una rivoltella, era apparso in fondo al corridoio. Udendo quella voce dura, imperiosa, i cosacchi si erano arrestati e Iwan aveva lasciato andare l’avversario che barcollava come ubriaco.

– Che cosa succede qui? – chiese, aggrottando la fronte.

– Succede che quei cani di warnak si ribellano, – rispose il maresciallo d’alloggio, che si rialzava stropicciandosi le costole ammaccate. – Bisogna impiccarli per dare un buon esempio.

– Taci tu!... – gridò il capitano. – È lo starosta che deve rispondere.

– La camerata è piena, Alta Signoria, – rispose il vegliardo. – I due nuovi prigionieri, non trovando alcun posto ove coricarsi, hanno protestato.

– E la sentinella li avrà minacciati, è così?...

– Di accopparli col calcio del fucile, Alta Signoria.

– Maresciallo d’alloggio, – disse il capitano, – voi siete un cretino. Quando nelle camerate il numero è completo, quando non vi è più posto per dormire, si mandano i prigionieri nelle celle o nell’infermeria.

– Ma le celle sono piene, comandante.

– Dovevate condurli nell’infermeria.

– È occupata.

– Da chi?... Da quali ammalati? – gridò il capitano con accento acre.

– Dai soldati.

– Si gettino fuori!... – tuonò il capitano. – Ah!... Quei furfanti si permettono d’occupare i letti degli ammalati?... Farò rapporto al governatore d’Irkutsk... intanto verranno privati della paga per un mese, e voi per tutta la durata del viaggio, m’avete inteso?... Ah! per mille milioni di fulmini!... Abusi no, con me!... Marche!... Andate!...

Poi volgendosi verso il colonnello e lo studente, riprese, fingendo la massima collera:

– In quanto a voi, meritereste la corda o cinquanta colpi di frusta. Non ci si ribella agli ordini di nostro padre lo czar, né ai decreti della giustizia russa. Ringraziate Iddio di avermi fatto scoprire, mercè la vostra ribellione, un indegno abuso. Questa notte andrete a riposare nell’infermeria, ma domani digiunerete ventiquattro ore. Andate!...

Ciò detto sparve in fondo al corridoio, mentre i soldati conducevano i prigionieri nell’infermeria, che era stata rapidamente sgombrata.

All’indomani, quando si svegliarono, il colonnello ed il suo compagno trovarono nelle ampie tasche del caftano una discreta provvista di eccellenti biscotti, due scatole di carne conservata e due vasetti di caviale autentico.

Una mano ignota, durante il loro profondo sonno, li aveva provveduti, per sopportare il digiuno a cui erano stati condannati.

Mezz’ora dopo però, nel cortile della prigione, un fabbro saldava alle loro gambe l’infame catena degli internati a vita, ma nell’anello era stato lasciato uno spazio più che sufficiente per potervi collocare degli stracci, onde evitare le dolorose corrosioni del ferro.

– Bah! – disse Iwan. – Questa catena non ci stringerà un pezzo, spero.

– S’incaricherà qualcuno di spezzarcela al momento opportuno, – gli mormorò in un orecchio Sergio.

– Vostra sorella!

– Ed il capitano Baunje... Silenzio... la catena vivente si sveglia!...