Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri - Vol. IV/Libro II/I

Libro II - Cap. I

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Libro II Libro II - II
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CAPITOLO PRIMO.

Presentazione del nuovo Calendario, Udienza

data all’autore dall’Imperadore della

Cina: e cerimonie, che usansi da’

Mandarini nelle pubbliche

funzioni.


V
Enne un fante del Padre Grimaldi (da’ Cinesi chiamato Mil.la vije) per avvisarmij, ch’il suo Padrone m’attendeva: e andato tosto da lui, il ritrovai vestito d’una buona roba foderata di zibellino, la qual gli avea data l’Imperadore. Mi disse, che quella mattina era buona opportunità per entrar con lui nel palagio: poiche doveva presentare all’Imperadore il Calendario nuovo del 1696. da lui comporto in lingua Cinese, Tartaresca, Orientale, ed Occidentale. Ringraziatolo dell’attenzione, e del presente, che mi fece d’un Calendario, mi posi tosto a cavallo, e lo seguii. Passato il primo recinto, dov’è la Casa de’ Padri Gesuiti Francesi, entrammo nel palagio interiore per una gran porta, guardata da’ soldati: e

[p. 128 modifica]attraversato un gran cortile, a’ fianchi del quale eran galerie con soldati ben vestiti, e posti in ala; salimmo nella prima sala dall’un de’ lati per una scala di venti gradini di marmo bianco, e sì ancora poi calammo per la porta di quel lato; poiche per la scala, e porta di mezzo, che son più ampie, e magnifiche, e meglio ornate, sol vi passa l’Imperadore.

Era quella Sala assai grande, intanto che oltre alle mura d’intorno, reggevasi ancor dentro da alquante colonne di legno: le quali erano ben dipinte, e indorate, siccome ancor era il cielo di quella. Le pareti eran di mattoni lavorati di gesso: e’l tetto di sù era di porcellana fina di più colori. Calavasi da quella nel secondo cortile per altre tre porte di fronte, e due di lato, ove erano a’ fianchi fabbriche di case ben vaghe a vedere. Rimontavasi poi in altra Sala somigliante alla prima: e da quella per altri cortili passavasi alla terza, e alla quarta, avanzando quella ultima l’altre nella maestosa architettura, e spesa. Avanti al cortile di quella quarta Sala portando il Padre Grimaldi il Calendario ben acconcio dentro una Nicchia coperta di seta, accompagnato da più Mandarini, e persone di [p. 129 modifica]qualità, vennegli all’incontro una persona destinata dall’Imperadore per quello ricevere: e presolo con molta venerazione, e cortesia, portollo dentro al padrone.

Presa licenza il P. Grimaldi da’ Mandarini, i quali l’avean accompagnato, mi disse, che per non avere i Padri qualche rimprovero per la mia venuta, conveniva, che mi facessero vedere all’Imperadore, acciocche poi venendolo colui a sapere per mezzo de’ due Paggi, non se ne sdegnasse: come avvenne altra volta, per non avergli dato notizia d’un Padre della Compagnia, ch’era entrato in Pekin infermo per curarsi; e che perciò io attendessi quivi, ch’egli m’introdurrebbe dal Re: ingegnandomi frattanto le cerimonie, che io doveva usare. In effetto dopo un’ora venne un domestico per avvisarci, che ci avanzassimo; per lo che passammo quattro cortili ben lunghi, circondati di appartamenti, e di stanze di differenti architetture, che sorpassano l’ultima sala quadrata fabbricata sopra le porte della comunicazione. Le porte, per cui passavamo da un cortile all’altro, erano d’una grandezza strana, larghe, alte, e ben proporzionate, [p. 130 modifica]fabbricate d’un marmo bianco, del quale il tempo aveva consumato il pulito, e la bellezza. Un di questi cortili era traversato da un ruscello d’acqua, ove si passava per piccioli ponticelli di marmo bianco. In fine la bellezza di questo palagio consiste in una quantità di fabbriche, cortili, e giardini posti per ordine: dove il tutto è veramente ragguardevole, e maraviglioso.

Il trono dell’Imperadore stava in mezzo ad un gran cortile. Sorgeva in quadro con la prima base d’una strana larghezza, e circondata tutta all’intorno di balaustrata di bianchi, e finissimi marmi. Sopra il primo piano cinto ancor d’altra somigliante balaustrata, alzavasi il secondo della medesima guisa, ma alquanto più stretto: e si giva menomando la gran fabbrica sino al quinto piano: dove vedevasi una maravigliosa loggia coperta, il cui tetto era di tegole dorate, e sostenuto da grosse colonne di legno invernicate: e quivi entro era il trono dell’imperadore. Gran vaghezza facevanmi all’occhio quelle cinque balaustrate, spezialmente allora, che percotendovi il Sole, ne riflettevano intorno vivamente i raggi.

Stava l’Imperadore entro quella vaga [p. 131 modifica]loggia seduto alla Tartaresca sopra un strato, o soffà alto tre piedì, e coperto d’un gran tappeto, ch’occupava tutto il pavimento con la sua grandezza. Aveva appresso di se libri, e tinta, e pennello alla Cinese, per scrivere. La sua veste era di seta a color d’oro, ricamata con figure di draghi: due de’ quali gli si vedevan nel petto ben grandi riccamente bordati. Alla sinistra, e alla destra gli stavan file d’Eunuchi ben vestiti, e senz’armi, co’ piedi gionti, e con le braccia pendenti. Da che noi fummo alla porta, corremmo frettolosamente fino al fondo della stanza, ch’era incontro all’Imperadore: e posti tutti e due di pari, restammo per un momento in piè, tenendo le braccia stese da’ lati. In fine avendo piegate le ginocchia, e portate le mani gionte fino alla testa, di maniera che le nostre braccia, e gomiti erano alzati alla medesima altezza, ne incurvammo fino a terra tre volte: quindi rizzati ne ponemmo nella medesima forma di prima, e ritornammo a far di nuovo la stessa cerimonia la seconda volta, et ancora la terza, finattanto che fummo avvisati di doverci avanzare, e por ginocchioni avanti l’Imperadore. Per mezzo del P. [p. 132 modifica]Grimaldi mi dimandò delle guerre, che in Europa ardevano: ed io gli risposi secondo le notizie, che ne aveva. Mi dimandò poi, se io era Medico, o se sapessi di cirugia: e sentendo che non era ciò mio mestiere, dimandommi la terza volta, se io aveva studiato Matematica, e se n’era inteso: di che, benche io nella mia giovanezza ne avessi appreso qualche principio, risposi di nò; perciocchè era ben stato avvertito da’ Padri, che se confessassi di sapere alcuna scienza, o arte di quelle, l’Imperadore m’avrebbe ritenuto al suo Servigio; ed io non mi v’avrei voluto rimanere. In fine ne diè congedo: e noi ne ritirammo senza ninna cerimonia.

Egli era nel 43. anno della sua età, e dentro al 35. del suo Regno: chiamasi Cam-Hi, cioè a dire il Pacifico. La sua statura è ben proporzionata: l’aspetto grazioso: gli occhi vivi, e alquanto più grandi degli altri di sua nazione: il naso alquanto aquilino, e rotondo verso la punta: ha qualche segno lasciatogli dalle varole, ne perciò gli si scema punto la grazia del volto.

Martedì 8. postomi in sedia (che costa bene in Pekin) andai vedendo la Città [p. 133 modifica]verso Oriente: e trovai per tutto bellissime piazze, e ricche botteghe. Entrai nella Città de’ Tartari per la Porta di Zien Muen posta in mezzo del muro comune alle due Città: quella appunto, di cui ragiona Marco Polo, e che corrisponde agli appartamenti Reali, e alla gran porta loro. E sicome la gran porta degli appartamenti reali non s’apre mai, fuor solamente, che quando esce l’Imperadore: così neanche s’apre quella, che le corrisponde nel muro della Città; ma solamente l’altre tre son per uso del comune. Vi è una bellissima balaustrata avanti la porta del Palagio Imperiale, che chiude uno spazioso atrio.

Egli è molto sensibile il freddo in Pekin: e tutto che io non sia sì delicato di complessione, pur non poteva uscir di casa che tardi, dopo ch’aveva presa forza il Sole; poiche quantunque sia in 40. gradi meno cinque minuti d’elevazione, e freddissima, affermandomi il P. Grimaldi, che nella Polonia in 60. gradi d’altezza non si senta maggiore, avendone egli fatto sperienza dell’uno, e dell’altro. Cagionasi tanto rigore in Pekin dalla vicinanza degli altissimi monti, che separano la Gran Tartaria dalla Cina; [p. 134 modifica]nondimeno il freddo maggiore non è quivi nel tempo, che mi vi trovava io, ma di Gennaro, cominciando il verno da Novembre, e continuando sino a mezzo Marzo, senza mai piovere. Nel qual tempo per lo gran gelo vengono dalla Tartaria Orientale infiniti fagiani, pernici, cervi, cinghiali, ed altri quatrupedi, con buoni storioni, sì gelati, che due, e tre mesi si mantengono le belve, e trenta dì i fagiani: e sì, e talmente abbondano in quel tempo, che per una pezza da otto s’ha un cervo, o un cinghiale: per mezzo reale un fagiano: e per due grana di Napoli una pernice. Da Marzo fino al principio di Giugno in Pekin si sente una Primavera con poca pioggia; ma poi dì Giugno, e di Luglio fin’alli 10. di Agosto l’acque del Cielo son copiose: è necessaria tal pioggia per nettar le strade dall’immondezze grandi, che vi si ragunano; poiche neanche si vergognano persone barbute di scaricarsi il ventre quivi nel palese. Per cagion di tal freddo tutte le donne portano le berette, e cuffie in testa, o che vadano in sedia, o a cavallo: et hanno ben ragione di farlo, poiche io con più pellicce sopra non poteva soffrirlo. Il peggio quivi è la mancanza [p. 135 modifica]delle legna; che perciò sogliono ancor brugiare alcune pietre minerali, che da’ monti quindi presso si cavano, non altramente, che si brugiano quelle d’Inghilterra: le quali offendono a scaldarsene, e perciò solamente eglino l’usano per cuocer le vivande nelle cucine, contentandosi più tosto di star senza fuoco nelle stanze, dove abitano, ed interizzirvisi del freddo.

Il mio arrivo in Pekin pose nel medesimo sospetto i PP. Gesuiti, facendosi a credere, sicome quelli di Canton, che io fossi Inviato dal Pontefice per prender notizia segreta di quanto in Cina era avvenuto per cagion delle contese, che hanno i Vicarii Apostolici con loro: tanto più, che io era venuto alla Corte senza licenza dell’Imperadore, e senza lor contezza. E benche procurassi disingannargli, dicendo loro, che viaggiava per sola mia curiosità; non mai perciò si rimossero dal credere, che fossi qualche Prete, o Frate.

Mercoledì 9. posto in sedia andai da’ PP. Gesuiti Francesi, i quali abitano nel primo recinto del palagio Imperiale. Entrando per la gran porta di quello vidi una moltitudine di Portieri, che facevan [p. 136 modifica]chiudere con panni azzurri piccioli sentieri rispondenti al lungo cortile, e stradone, che conduce al muro dentro: facendo ancora quello molto bene spazzare, et acconciare. Dimandatane la cagione, mi risposero, che per esser quel dì il Compleaños dell’Imperadrice, moglie che fù del Padre del regnante Monarca, venivan tutte le Dame della Città a farle i convenevoli: e che per non esser quelle vedute, chiudevansi tutti i sentieri, ch’avean rispondenza al cortile: e che adornavasi lo stradone nella maniera, che usasi quando vien fuora l’Imperadore. In effetto avendo io bevuto allegramente con gli PP. Francesi, al ritorno vidi quantità di belli calessi coperti di damasco, e d’altri drappi di seta, ed oro, ne’ quali eran venute molte Dame. Mi raccontaron i PP. che la funzion si faceva in tal maniera: sedevasi in alto trono la Imperadrice sudetta: et andava in prima l’Imperador con tutti i figli a cominciar la cerimonia, chinando nove volte genuflesso la testa al suolo. Seguivano appresso le Mogli, e Concubine di lui a far lo stesso: quindi i Principi, e Principesse del sangue, e le Dame de’ Grandi, e i Mandarini della Corte. In questo dì la detta [p. 137 modifica]Imperadrice convita a tavola l’Imperadore, e gli altri tutti, che quivi sono: mangiando l’Imperadore in un desco a parte, sopra il suo Trono. Narro ciò per relazione; perciò che tal funzione non si può vedere.

Simil dimostranza son obligati a far tutti i Principi, e Mandarini, che si trovano alla Corte nel primo, 15. e 25. d’ogni Luna; unendosi intorno a cinque mila nelle logge, sale, e camere, che sono a’ lati del cortile, ch’è innanzi la porta del Mezzodì. Sono riccamente vestiti, ma differentemente, secondo le loro dignità, per la diversità delle belve, ed uccelli ricamati nelle lor vesti. Sul far del giorno partesi l’Imperadore dall’undecimo appartamento, dove egli suol dimorare; e in una sedia portata da sedici Eunuchi vien nella sala, e si pone a sedere sopra un ricco trono alzatovi nel mezzo. All’ora un’Eunuco si pone di ginocchio avanti la porta, e dice Faluni; cioè, che il Cielo scarichi i suoi tuoni: ed in un subito si tocca la campana, e i timpani, e’l gran tamburo del palagio, con suono ancor di trombe, e d’altri strumenti: aprendosi nel medesimo tempo le porte tutte, fuor che quelle di mezzo.

E mentre continua cotal rumore, si [p. 138 modifica]pongono ad ordine tutti dall’una parte, e dall’altra, cioè a dire, quelli del sangue Reale, e i Mandarini di lettere dalla parte d’Oriente: e i Signori, che non son di sangue Reale, e i Mandarini d’armi dall’altra parte d’Occidente. E procedendo con tal ordine a due a due, passano per le porte minori, che sono a’ lati delle grandi: quindi montati su i gradini, ogn’un prende il suo posto, secondo le loro dignità, avanti la gran Sala ne’ luoghi assegnati a ciascun de’ nove ordini de’ Mandarini, i quali sono ascritti in piccioli pilieri. E stando eglino ordinatamente cosi da’ due lati del cortile gli uni rivolti di fronte a gli altri, tosto il rumor degli strumenti cessa; e si pone il tutto in gran silenzio, assistendo frattanto attentamente i Cotai, o Censori, acciochè riesca la funzione appuntatamente, e ciascun faccia il suo dovere. All’ora il Maestro delle cerimonie, che stà ginocchione in mezzo dello scalino della gran Sala, ragiona all’Imperadore in questo sentimento: Altissimo, e potentissimo Principe nostro Sovrano Signore, tutti i Principi del Sangue, e gran Signori, tutti i Mandarini di lettere, e d’armi son già qui pronti a farvi gli ossequj, che vi [p. 139 modifica]devono. Quindi rizzato si pone dal lato d’Oriente, e alzando di nuovo la voce, dice a coloro Pài-pann, cioè a dire, ponetevi ad ordine: e cosi tosto ciascuno si rassetta la veste, e si compone nella persona. Allora egli siegue a dire: Scivèn-xin, cioè rivolgetevi: ed eglino si volgon di fronte verso la Sala Imperiale: poi egli impone loro, che si pongan di ginocchio: poi dice Kèù-tèù, cioè a dire, toccate la terra con la testa: e così eglino stanno, finchè colui lor dice, Kilâi, cioè, levatevi. Appreso dice Yè, cioè a dire, mettete le braccia in arco, unendo le mani, elevandole fin sulla testa: poi, bassatele fino al ginocchio. La qual cosa fatta, di nuovo egli dice loro: Rimettetevi, come stavate sul principio; perocchè la lettera Yè, sola significa questa sorte di riverenza. Così fatta tre volte cotal ceremonia, si pongon tutti ginocchioni: ed all’ora egli grida Kèù-tèù, toccate la testa a terra: Tsài-kèù tèù, toccatela la seconda volta: Yèù-kèù tèù, toccatela la terza: Ed eglino quando le due prime volte ciò fanno, dicono con bassa voce, Vàn sui, cioè a dire, diece mila anni: ma la terza volta dicono Vàn sui, vàn-vàn-sui, diece mila anni, diece migliaja di [p. 140 modifica]migliaja d’anni; perciocche diece mila anni è il nome dell’Imperadore.

Compita questa ultima riverenza il Maestro delle cerimonie ripete, Kilai, levatevi: Scievenxin, tornatevi: ed eglino si rivolgono l’un verso l’altro. In fine colui dice loro, Queipan, mettetevi ad ordine: ed eglino si ritornan ne’ loro luoghi per file. Allor si pone colui di nuovo inginocchioni, e con la medesima voce di rispetto dice Sciaòypi, cioè a dire, Potentissimo Signore, le cerimonie di questa sottomessione, che vi era ben dovuta, son già compite. Allor si riprendon di nuovo tutti gli strumenti: e’l Re scende dal Trono, e ritorna a’ suoi appartamenti. I Grandi, e’ Mandarini si ritirano: e nella porta di mezzo si tolgono gli abiti di cerimonia, ch’eglino avevan presi venendo al palagio, i quali sono differenti dalle loro vesti ordinarie, e molto più ricchi: ma non possono esser di color giallo, ch’è giudicato da’ Cinesi il Re de’ colori, per esser somigliante a quello dell’oro Re de’ metalli; e perciò dicono, convenir quello solamente all’Imperadore, il qual compare in publico in tal foggia con più draghi ricamati sopra. [p. 141 modifica]

Egli è vero, che suol torre l’Imperadore qualche volta del mese da questa sì nojosa cerimonia i Mandarini, occupato da' grandi affari dell'Impero.

Giovedì 10, posto in sedia andai per l’altra parte della Città: ove vidi cosa ben curiosa; che per lo medesimo stradone eran funzioni di pianto, e di giubilo, passando quivi insieme un funerale, ed uno sponsalizio. Andava il funerale con tal’ordine. Precedevano le bandiere, e’ trionfi di seta, e di carta colorita, con le statue del morto, e con cavalli, ed altri mostri, portati da persone in bell’ordine. Toccavano altri un tamburo di bronzo, i Bonzi le piastre d'ottone, e’ campanelli, ed altri strumenti; dopo i quali era portata l’arca del morto sopra una bara coperta di panno bianco. I parenti maschi andava innanzi al cadavere piangendo: le donne seguivano in calessi ben piccioli, vestite tutte di bianco, per esser quello il color dello scorruccio nella Cina, e ne’ vicini Reami di Cocincinna, e di Tunchin. Questo nondimeno è quando muore alcuno dentro la Città: che facendosene quivi l'esequie, si conduce a sotterrare; ma se alcuno morisse fuora, di qualunque grado, o dignità [p. 142 modifica]egli si fosse, non si permette condursi dentro la Città, avendo ciò coloro a pessimo augurio.

La funzione dello sponsalizio è quasi somigliante a quella del funerale per gli suoni. Precedono più gente a piè, ed a cavallo con trionfi, e bandiere, secondo la qualità degli Sposi. Quindi vien condotta la Sposa in una sedia coperta, o calesso ornato di fiocchi, o di fregi, e di lavori di seta, con molta solennità, senza lasciarsi vedere.

Passai fuor la porta della Città de’ Cinesi, e andai una lega intorno le mura, per vedere, se quelle differiscano dalle mura dell’altre Città della Cina: e le trovai della medesima maniera, fatte di mattoni in gran parte, e cinte di fossi, e d’acqua, alte intorno a 40. piedi, e grosse 20. e terrapienate al modo delle nostre piazze forti d’Europa. Guardansi le cortine da grandi Torri quadrate, distanti l’una dall’altra un tiro di freccia; ma le Torri della nuova Città son meno frequenti: e le mura più deboli, e meno alte.