Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri - Vol. III/Libro II/I

Cap. I

../../Libro II ../II IncludiIntestazione 9 agosto 2020 75% diari di viaggio

Libro II Libro II - II
[p. 127 modifica]

CAPITOLO PRIMO.

Viaggio sino a Galgalà.


A
Vendo io, sin dal principio del mio viaggio, meco stesso proposto di vedere (a costo di qualsivoglia pericolo, e spesa) la Corte, e’l Campo del G. Mogol, ch’è uno de’ maggiori Monarchi dell’Asia; avvegnache gli amici si fossero più volte ingegnati di distormene; mettendomi avanti gli occhi i gran pericoli, e patimenti, che per aspre montagne, e fra Principi Gentili, e Maomettani mi sarebbe convenuto incontrare; fermo con tutto ciò nel mio proponimento, mi disposi in ogni conto partire. Presi adunque un Begarin, o Canarin di S. Stefano (Casale vicino a Goa) acciò mi portassee il vitto per alcuni giorni, e gli stovigli di cucina; (essendo certo di non avere a trovar niente per istrada) e perche egli non sapeva

[p. 128 modifica]la favella de’ Mogoli; mi provvidi d’un ragazzo di Golconda, che oltre la sua naturale lingua, avea anche la Portughese apparata, per servermene colà d’Interprete.

Ciò fatto dipositai le mie robe nelle mani del Padre D. Ippolito Visconti Milanese, Cherico Regolare Teatino; pregandolo, che nella mia assenza si dasse cura di cambiare il mio danajo in pezze da otto, per servirmene nel ritorno al cammino della Cina: portandomi solamente il necessario per le spese del viaggio, giusta il consiglio del P. Galli; il quale mi diede contezza, ch’il tutto mi sarebbe nelle montagne tolto dagli stessi Doganieri; e che da lui, finito il danajo, si presero costoro sino all’Andora.

Il Venerdì 4. venuti l’interprete, e’l facchino ad avvisarmi, che il tutto era pronto (lasciato il mio servidore in Convento, per aver minore impaccio) mi partii; trovai però il passo di Daugì (dove avea da imbarcarmi per Pondà) impedito per ordine di Monsignor Arcivescovo; il quale governando in assenza del V. Re, avea comandato, che non si facesse passare veruno in paese d’Infedeli senza sua espressa licenza. Lasciati perciò [p. 129 modifica]l’interprete, e’l facchino in custodia della roba, mi posi in ballone, ed andai a parlare a quel Prelato, nella sua casetta di campagna; dove subito ebbi di sua mano scritta la licenza necessaria. Imbarcatomi quindi in un’altro ballone circa ora di mezzodì, costeggiai la muraglia della Città, lungo il Canale; passando dopo quattro miglia per lo Forte di S. Blas, fornito d’otto piccioli pezzi; e due miglia più oltre per lo Castello di S. Giacomo, provveduto di 12. piccioli cannoni. Quivi fatta vedere la licenza al Capitano dei Forte, mi permise di passare dall’altra parte del Canale, sul paese del G. Mogol.

Stemmo lungo tempo in una capanna delle guardie; non trovandosi animali, nè persone, che conducessero le robe d’un’Armeno, e d’un Moro; che si erano accompagnati meco. Alla per fine, vedendo farsi già notte, per forza le facemmo portare da alcuni Gentili nel Casale d’Arcolnà. Quivi non trovandosi cosa alcuna da comprare l’Armeno, e’l Moro se la passarono con un poco di riso mal cotto; e tanto poco, che i grani nuotavano sull’acqua, che poi servì di bevanda. Passai la notte sotto alcune palme di cocchi, in continua [p. 130 modifica]vigilia, per lo gran strepito de’ tamburi, e grida degl’Idolatri, che facevano la setta del Simingà, per la Luna piena.

Il Sabato 5. prima di partire, l’Armeno, e’l Moro s’empierono la pancia di Cacciarì; ch’è una composizione di riso, faggiuoli, e lenticchie peste, e cotte insieme, come dicemmo sul fine della seconda parte.

In difetto di bestie da soma, per farmi condurre le robe in Pondà (12. miglia distante) presi tre Gentili, co’ quali mio mal grado fu d’uopo usare il bastone; perche essi nè con buone parole, nè con danajo mai vogliono servir bene, ma se ne fuggono sempre che ponno; ed all’incontro colle busse si caricano come asini.

Camminammo con Sole così ardente, che bisognava ogni pochi passi prender riposo, e rinfrescarci con melloni, e frutta del paese. In Mardol indugiammo buona pezza per mangiarci una Giacca, così grande, che appena potea portarla un’uomo. Non vollero gl’Idolatri mangiarne, perche eglino non assaggiano mai cosa, che sia tagliata da noi, quando anche si vedessero morire di pura fame. E mi fu detto, che vi è stato alcuno, così pertinace in questa superstizione, che si [p. 131 modifica]è contentato star cinque giorni senza prendere alcun cibo.

In questo Casale di Mardol si vede una famosa Pagode. S’entra al cortile per un ponte di tre archi coperto, donde si monta per due scale. A destra di questo cortile è una fabbrica ottangolare, composta di sette ordini di colonnette all’intorno, co’ loro capitelli ben lavorati, e finestrette fra gli spazj; una delle quali serve di porta. Dicono si facesse per porvi lumi nelle feste de’ loro Idoli, come anche l’altra simile a sinistra, non compiuta. All’intorno l’atrio, ed avanti gli archi del ponte suddetto, sono varie botteghe; però il tutto è andato in rovina da che il G. Mogol ha tolto il paese al Re di Vigiapur, a cagion delle guerre col Savagì.

La Pagode è nel fondo del cortile. La prima stanza è come una saletta, più lunga, che larga; il di cui tetto è sostenuto da sei colonne di legno per lato, vagamente lavorate, con figure: all’intorno sono bassi scanni per sedere. Indi si passa alla seconda stanza, simile, ma più picciola: e più avanti a destra in una cameretta vagamente dipinta, con varie figure, che tengono in testa; quale una berretta piramidale, e quale una corona [p. 132 modifica]simile a quella, che porta il nostro Sommo Pontefice. Vedesi anche una figura con quattro mani, due delle quali tengono un legno; una uno specchio, e l’altra sta appoggiata al fianco: allato le stanno donne, con cinque vasi in testa l’un sopra l’altro. Oltreacciò vi si veggono varj mostri, animali, ed uccelli: come cavalli alati, galli, pavoni, ed altri.

Termina la Pagode a dirittura della porta in una picciola, ed oscura danza rotonda, appiè d’una Torricciuola, dove si vede una pietra lavorata, coperta a modo di tomba. Questa Torre al di fuori si gira all’intorno, per montare alla sommità, ed alle camere degli Idolatri Sacerdoti.

In un lato della seconda stanza, che dicemmo, vidi avanti una porticciuola la bara, ove sogliono porre il loro idolo, per portarlo in processione. Dal medesimo lato è un’altra Pagode serrata, (con una cisterna avanti) coperta d’una cupola, con una cameretta nel mezzo.

Dietro la suddetta Pagode è uno di quei grandi alberi detti di Baniani; e sotto al medesimo il bagno, o stagno, con scala di grosse pietre all’intorno, affinche possano scedervi i Gentili, a lavarsi dalle loro impurità. [p. 133 modifica]

Ripostomi in istrada, dopo aver buona pezza per piani, e per monti camminato; tardi, e molto stracco pervenni in Pondà. Quivi trovai un picciol campo di Soldati del Mogol; tra’ quali Francesco Miranda, nativo dell’Isola di Salsette, che mi tenne cortesemente seco. Costui erano già 16. anni, che serviva da venturiere, con soldo di 75. rupie d’argento il mese, che vagliono quanto 45. scudi Napoletani. Era venuta i’istesso giorno quella gente da Bicciolin, in compagnia del Divan (o Riscotitore delle rendite Reali di Pondà, e di più di 700. Casali; che ha 7. m. rupie al mese, e 1000. cavalli sotto di se, pagati a ragione d’una rupia il giorno) il quale dovea prendere il possesso del Governo della Fortezza bassa di Pondà, e dell’ufficio di Subà di quel distretto (che sarebbe fra di noi come un Maestro di Campo): e ciò perche l’attual Governadore avea madato alcuni de’ suoi soldati in Bicciolin, a fare atti di ostilità contro il Divan; perloche v’erano rimasi morti, e feriti d’ambe le parti. Or ripugnando Ech-lascan-panì Subà, d’ubbidire, se prima non gli era pagato ciò che se gli dovea, per soddisfare i soldati; tanto più che il Divan non avea patente [p. 134 modifica]Reale, ma un semplice avviso del suo Proccuratore: si contendeva tra’ due comandanti, con minaccie dall’una, e l’altra parte. E già diceva il Divan di volerlo far cacciare dal Forte a colpi d’artiglieria della Fortezza superiore; quando la Domenica 6. sul tramontar del Sole si sentì uno strepitoso suono di trombe, o tamburi (talche io sul principio credendolo fatto d’armi, diedi di piglio allo schioppo) per la venuta d’un Inviato del Re, che portava al Divan la veste, colla patente dell’una, e l’altra carica. Curioso di vederne il ricevimento v’accorsi subito.

Stavano avanti la tenda del Divan, posti in arme circa 700. tra cavalli, e fanti; e al suono di tamburi, flauti, trombe, ed altri militari strumenti, ballavano confusamente due brigate, di 16. Gentili l’una. Costoro, come che era accaduta in que’ dì appunto una spezie di carnasciale, ch’essi fanno ogn’anno di cinque giorni; andavano come pazzi, colle cabaye o vesti, e’ piccioli turbanti (detti Cirà) tinti di rosso: e sopra i circostanti gittavano parimente polvere rossa, per tingergli; come si costuma già tra di noi di far con polvere nera. [p. 135 modifica]

Si pose quindi a cavallo il Divan (vecchio canuto di 65. anni in circa) preceduto da due timpani sopra un cavallo; e seguitato da un palanchino, da due altri timpani sopra un cammello, e da un miscuglio di cavalli, e pedoni nudi, che givano in truppa a guisa di capre. Aveano diverse bandiere; qual di tela, coll’insegna d’un tridente, e qual di seta con caratteri Persiani, e fiamme nel mezzo, portate tutte da pedoni.

Giunto il Divan a una tenda, che a tal fine s’era drizzata presso una Moschea, due tiri di moschetto discosta dalla sua, pose piede a terra; e dopo gli scambievoli complimenti coll’Inviato, e persone di qualità, che l’accompagnavano, prese, colle sue mani, ad accomodarsi il Cirà in testa; mentre da una parte l’Inviato gli porgea la Tocca, o fascia. Ciò fatto, prese questi una veste di seta verde, con liste d’oro, e la pose al Divan; e poscia due cintole al collo, perche al fianco teneva la scimitarra. Cinque volte pose il Divan la mano a terra, ed altrettante sulla testa, per rendimento di grazie al Re, che l’avea onorato di tal presente; e poscia sedutosi, vennero gli amici, ed altri del seguito, a congratularsi [p. 136 modifica]seco; ed alcuni a presentargli Rupie ch’egli dava all’Inviato; le quali però furono ben poche. Chiamano questo presente Nazar, cioè buona vista; e’l costume è tratto dalla coronazione de’ Re, in cui presentano i Grandi molte monete d’oro; e taluna che peserà 300. e più oncie, per render allegro quel giorno il Mogol, che siede in un Trono tempestato di preziosissime gemme.

Terminata la Solennità montò a cavallo il Divan; e di nuovo scese al lato lo stagno, vicino alla Moschea: dove Sedutosi sopra un tappeto, con origlieri alle spalle, stiede a sollazzarsi col canto, e suono, che facevano le brigate de’ Gentili mascherati. Mi dissero, che quell’onore gli costava 20. m. Rupie (una Rupia vale sei carlini di Napoli) che avea bisognato mandare al Secretario, per mano del quale era passata la patente, e che avea scritto in nome del Re; imperocchè questi giammai non scrive a’ suoi vassalli. Con tutto ciò non volle il Subà cedere il posto, ma perseverando nel possesso della Fortezza inferiore, dicea, che tutto era finzione.

La Città di Pondà è composta di capanne, e case fabbricate con [p. 137 modifica]loto, in mezzo a molte montagne. La sua parimente fangosa Fortezza, governata dal Subà, è fornita di circa 400. soldati tra fanti, e cavalli; e di sette piccioli pezzi d’artiglieria.

In sito più eminente era per l’addietro un’altra Fortezza; ma passatovi ad espugnarla dodici anni prima D. Francesco di Tavora Conte d’Alvor, e V. Re di Goa, con un corpo di 10. m. soldati; la battè sì bene, che in poco tempo vi fece larga breccia. Il Savagì, che n’era Signore, venuto con 12. m. cavalli di soccorso, obbligò il V. Re a levare l’assedio, e ritirarsi. Passò poi nell’Isola di Salzette, S. Stefano, ed altre vicine a Goa; e ponendo a sacco e a fuoco più luoghi, menò cattivi nelle sue Terre molte centinaja di naturali: e da essi fatte portar le pietre dell’abattuta Fortezza nell’alto d’una montagna, verso Mezzodì (due miglia discosta da Pondà) vi fece fabbricare la picciola Fortezza, che oggidì si vede: appellandola Mardanghor, cioè Forte de’ Valenti.

Questo Castello superiore è tenuto in nome del Re da 300. soldati, sotto un Kilidar, o Castellano, il quale ha di soldo 200. Rupie al mese, assegnate sopra alcuni Casali. Per esser piazza (come si [p. 138 modifica]dice) giurata, non può egli per qualsisia causa uscir fuori della porta.

La Fortezza inferiore, col paese dipendente (tolto dal G. Mogol al Savagì) è governata, come è detto, da un Subà, o Capitano di campagna; il quale si toglie le rendite di 700, e più Casali, con peso di mantenere un certo numero di soldati; ond’è, che smungendo i poveri contadini, fa talvolta pagare a pochi tugurj migliaja di rupie.

Il Lunedì 7. di Marzo vidi il funesto spettacolo d’una misera donna Gentile, che i parenti del morto marito aveano, con grandissimi doni ottenuto dal Subà, che si bruciasse col corpo dello sposo (giusta il loro empio, e spietato costume.) Circa le 21. ore al suono di vari strumenti, e canzoni venne la donna assai ben vestita, ed ornata di gemme, come se fusse venuta a nozze; ed accompagnata da’ parenti dell’uno, e l’altro sesso, amici, e Sacerdoti Bramini. Giunta al luogo destinato, andò intrepidamente prendendo congedo da tutti; dopo di che fu posta distesa, col capo sopra un legno dentro una capanna (di 12. palmi in quadro) fatta di picciole legna, unte d’olio: però ligata ad una colonnetta, acciò [p. 139 modifica]atterrita dal fuoco, non potesse fuggire. Stando in questa postura masticando Betle, richiese a’ circostanti, se volevano alcuna cosa da lei nell’altro Mondo; e ricevuti da quei semplici varj doni, e lettere, acciò le portasse a’ loro parenti morti, le avvolse in un panno. Ciò fatto uscì dalla capanna il Bramine, che l’avea confortata, e fecevi porre il fuoco; e gli amici versaronvi sopra vasi d’olio, affinchè rimanesse più tosto incenerita, e languisse meno. Mi disse Francesco Miranda, che i Bramini, spento il fuoco, sarebbono andati a prendersi tutto l’oro, argento, e rame liquefatto. Seguì quello barbaro strazio un miglio lontano da Pondà.

Ritornato alla tenda, si mosse un vano all’arme nel nostro picciolo campo, per aver un Moro tagliato il naso ad un’altro. Fuggirono alcuni Gentili su i monti; e’l Miranda altresì, lasciando tutta la sua roba in abbandono: anzi volendolo io persuadere, che si fermasse, mi rispose, che bisognava fare quello, che facevano gli altri. Io preso lo schioppo, palle, e polvere, mi restai appiè d’un albero, per difendermi. Si rideva in tanto ii cuoco del Miranda della codardia del Padrone, dicendo: O che buon soldato [p. 140 modifica]tiene il Mogol con paga di due rupie, e mezza il giorno; se fugge ora senza esser da niun seguitato, che sarà in vedendo il nemico? Vidi anche quivi bere il sugo d’un’erba detta Banghe, che mescolata con acqua istupidisce a guisa d’oppio. La prendono a tale effetto dentro alcuni buoni vasi di vetro, di color violetto, che si fanno ne’ monti dì Gates (giurisdizione del G. Mogol) e nella Cina.

Non trovandosi in tutto il cammino, che io avea a fare, altra comodità che di bovi, comprai in Pondà un cavallo 60. Rupie. Avuto poscia un passaporto dal Bachei, acciò non fussi trattenuto dalle Guardie de’ confini; e lasciato lo schioppo (da mandarsi in Goa) per non rimanere prigioniero de’ soldati del Savagì; mi posi in viaggio il Martedì 8. e dopo 8. miglia giunsi in Cianpon, Casale composto di poche case di fango, con un Forte dell’istesso. Quivi feci apparecchiar da mangiare; ma volendo il mio facchino prendere una foglia di fico, per far il piatto all’uso d’India; tale si fu il rumore, e’l fracasso, che fecero la Gentile padrona del fico, e le persone del luogo, venute in difesa di lei, che bisognò partirci. La [p. 141 modifica]strada che facemmo fu per boschi, come la passata; da’ quali usciti alla fine, valicammo il Canale sopra una picciola barca; ed entrammo nel terreno di un Principe Gentile, detto Sondè kiranì karagià (Signore di alcuni villaggi posti fra monti) Tributario, anzi Vassallo del G. Mogol, essendo obbligato di servirlo in guerra. Dopo nove cosse (ogni costa è quanto due miglia Italiane) pernottammo nel Casale di Kakorè, composto di poche capanne, sotto la volta d’una Pagode. A capo di questa, sotto una picciola cupola, era un come orinale di rame, sostenuto da una base di pietra, con una maschera d’uomo dello stesso metallo inchiodata. Potrebbe essere che fusse un’urna contenente le ceneri di qualche loro Eroe. Nel mezzo della cupoletta era appeso un campanello, ed al di fuori molte picciole lucerne.

Vennero al cader del Sole truppe di Scimie saltando da un’albero in un altro; ed alcune co’ figli così forte stretti sotto il ventre, che non fu possibile, con varj colpi di pietre, farne cadere pur uno; nè perciò fuggivano, che da un’albero all’altro. Come che gli abitanti di questi Casali sono la più parte Gentili (appena trovandosi [p. 142 modifica]nell’Indie tra ogni 50. persone un Maomettano) le nutriscono con particolar cura, e non fanno che siano uccise; tanto che divenute familiari, si veggono passeggiare domesticamente dentro i villaggi, e sin nelle case.

Si narrano cose di sì fatti animali, tanto sopra la comune credenza, che non è gran fatto, che alcuni sciocchi filosofanti diano qualche sorte d’intendimento a’ bruti. Di tale opinione sono tutti i Cafri, o Neri della Costa di Mozembiche in Africa; dicendo, che in tanto non parlano, in quanto che non vogliono affaticarsi.

Nel Regno di Canarà un bertuccio invaghito di una donna, inquietava in sì fatta maniera la casa del di lei Padre, rompendo quanto vi trovava dentro; che alla per fine, non potendosi più resistere, permisero, che la stuprasse, e d’indi in poi avesse sempre copia della giovane. Passò a caso per quel luogo un Portughese, il quale essendo rimaso la sera ospite del Gentile, e vedendo venire un gran Scimmione, e fare sì gran fracasso; volle della cagione essere inteso. Il Padre della giovane donna, con un sospiro rispose: questo ha tolto l’onore a mia figliuola, e quando non la truova in casa [p. 143 modifica]fa tanto strepito. Soggiunse il Portughese, perche non l’uccidete? e’l Contadino replicò, che egli era Gentile, e che la Regina, essendo della stessa religione, l’averebbe severamente di cotal fatto punito. Il Portughese senza altro dire, aspettò che ritornasse la bestia dalla campagna; e venuta l’uccise con una archibuggiata: e perche il Gentile temeva del gastigo, egli stesso la portò fuori dell’abitato, e la sotterrò. Per sì fatto beneficio il Portughese fù regalato di molti fardi di riso, siccome egli medesimo quindici anni dopo di sua bocca mi raccontò.

Riferisce il Padre Causino, che nel Capo di buona speranza essendo naufragata una nave, nel principio che furono scoperte l’Indie da’ Portughesi, una Donna abbracciatasi ad un pezzo di legno, fu dall’onde portata a galla in un’Isola. Quivi un Bertuccione di lei prese piacere, e lungamente in una grotta nutrilla di ciò, che trovava in campagna; sicchè a capo d’alcuni anni v’ebbe fatti due sigli. Capitando poscia di passaggio colà una nave, la meschina Donna per segni cercò ajuto, e cosi fù liberata; ma sopraggiunta la Scimia dalla campagna, e trovatala allontanata dal lido, di tanta rabbia [p. 144 modifica]s’accese, che prese i due figli, e a veduta della medesima gli uccise.

Egli si è ben’anche noto, come essendo nel Brasile una Donna stata conosciuta da uno Scimmione, e divenuta gravida, a suo tempo partorì un fanciullo, con tutte le membra umane, ma pelose; e che quantunque mutolo, faceva nondimeno quanto se gli diceva. Sopra questo parto ebbero gran dispute i Padri Domenicani, e i Gesuiti, se dar se gli dovesse battesimo, o nò; ed alla per fine conchiusero non esserne capace, essendo nato di padre irragionevole: e che se fusse stato Uomo, e la madre Scimia se gli averebbe potuto dare.

Mi riferì anche D. Antonio Machao de Britto, Gencrale dell’Armata Portughese nell’Indie, che inquietandolo a tutte ore un di questi animali, rompendo quanto trovava in cucina; egli una fiata, per dargli la burla, fece porre sul suoco un cocco (del quale frutto sono le scimie avide soprammodo) e posesi di nascosto a spiare, comc arebbe fatto per prenderlo senza scottarsi. All’ora solita sceso per lo tetto nella cucina, e trovato l’amato cibo sulla bragia, si valse l’astuto animale dell’industria; [p. 145 modifica]perocchè vedendo un Gatto vicino al fuoco, tenne con la bocca la di lui testa; e poscia della branca del medesimo servissi, per cavarne fuori il cocco, che tuffato nell’acqua, e rinfrescato poi si mangiò; non senza risa del Portughese, in vedendo il Gatto tutto il dì miagolare per lo dolore della cottura.

Da questo grande appetito c’hanno le Scimie del cocco, hanno apparato gl’Indiani a prenderle. Fanno essi un buco su tal frutto, dove ponendo la branca la Scimia, per trarne la polpa; quando viene il Cacciatore, non potendola cavar fuori piena, nè volendo il cibo abbandonare, si contenta di rimaner presa. Nè è vero quel che si dice, che se in campagna se ne uccide alcuna, le altre corrono addosso all’uccisore; perche quando io ne facea cadere, le altre fuggivano.

All’alba il Mercordì 9. mi posi in cammino per foltissimi boschi, e dopo otto cosse pervenni appiè della montagna di Balagati; dove trovai le guardie, e Doganieri così amici dell’altrui, che per due filze di perle si presero dodici Rupie. Salita ch’ebbi per lo spazio d’otto miglia, di orridi e folti boschi, la [p. 146 modifica]montagna suddetta, trovai la seconda guardia, e Dogana, che si prese una Rupia senza altro vedere. Or non trovandosi abitazione veruna, pernottai nel più folto luogo del monte (essendo in ciò l’India differente dalla Persia, ch’è nuda d’alberi) dopo aver fatta una giornata di 12. coste (che sono 24. m. Italiane.)

Il Giovedì 10. tre ore prima di giorno, si pose in viaggio la Bojata; ed io per andar più sicuro, mi ci accompagnai. Era questa una Caravana di 300. e più bovi, carichi a modo di cavalli, di provvigioni per lo Campo di Galgalà. I boschi, per gli quali parlammo, erano copiosi di frutta, affatto diverse dall’Europee. Ve n’avea alcune non dispiacevoli al palato; e fra le altre uno chiamato Gularà (del sapore d’un fico silvestre d’Europa) che nasce, e matura senza fiori, al tronco dell’albero. Incontrai in quel giorno galline di campagna, giammai prima da me vedute, con cresta, e penne, che inchinavano al nero. Sul principio le giudicai domestiche, ma poscia mi disingannai, non essendo alcuna casa per molte miglia all’intorno. Due ore prima del tramontar del Sole fatte 14. cosse giugnemmo nel Casale di [p. 147 modifica]Bombnalì, appartenente all’istesso Principe Kiranì; dove quantunque fusse una guardia detta Ciavuchi, non mi fu tolta cosa veruna: forse perche il Capo di ella era meno degli altri barbaro.

La strada, che feci il Venerdì 11. fu per boschi più lieti, fra’ quali erano miniere di ferro. Fatte otto cosse venimmo nel Casale di Ciamkan, dove era mercato, e Dogana tenuta da’ Gentili, i quali non lasciarono di vedere le mie robe. Pernottai dopo altre quattro cosse in Sambranì.

In questo luogo risiede il suddetto Principe Sonde Kiranì karagià, dentro una Fortezza fangosa, cinta di mura alte sette palmi. Quanto al Casale, non è punto migliore degli altri del distretto; ha però un buon mercato, e Bazar. Da questo Casale solamente il Principe ha tre lecche di Rupie l’anno, che sono 180. m. scudi Napoletani; donde può farsi argomento quanto crudelmente gl’Idolatri, e Maomettani opprimanoi popoli con ingiuste imposizioni.

Il Sabato 12. tardi partitici da Sambranì, entrammo dopo 4. m. nel territorio del G. Mogol. Passate prima le guardie di cammino del suddetto Kiranì, mi [p. 148 modifica]riposai sino a mezzo dì presso la Fortezza della Terra d’Alcal; ed essendo già sul punto di partire, mi fu data notizia, esser la strada, che far mi conveniva, infettata da’ ladri; sicchè mi rjsolsi aspettar la Bojata. Nell’istesso luogo era una Pagode, dentro la quale era un’Idolo col corpo d’uomo, ma col volto di scimia, e con lunghissima coda rivolta sin sopra la testa, con un campanello appeso nell’estremità. Aveva una mano sul fianco, e l’altra alzata in atto di battere. Lo dicono Animante Scimia, perche (secondo le favolose tradizioni di quei popoli) combattè una volta con sommo valore. Io quando vedeva non essere osservato, rompeva tutti gl’Idoli, che mi capitavan d’avanti; spezialmente di quelli, che i Contadini, conduttori della Bojata, portavano avvolti in un panno, ed appesi al collo; ch’erano assai mal fatti di pietra, e pesanti due libre.

La Domenica 13. quattro ore prima di far giorno, partii con la Caravana de’ bovi; e dopo sei cosse giunsi in Kancre, villaggio composto di poche case, dove desinai. Quindi partito feci altre 5. cosse ben lunghe, ed andai a pernottare nel Casale d’Etchi; che quantunque [p. 149 modifica]composto di capanne, ha nondimeno ottimo terreno per la coltura, e cacciagione; vedendovisi i Cervi, ed altri animali pascere domesticamente.

Il Lunedì 14. partitomi ben per tempo con un’altra bojata, dopo cinque cosse di cammino, per terreno ugualmente fertile, mi fermai in Tikli, picciola Terra difesa da un Forte di fango; e dopo desinare passai nel picciolo Casale d’Onor.

Per paese coperto di verdeggiati, e vaghi arbuscelli, camminai il Mercordì 15. cinque cosse: dopo di che mi fermai in Mandapur, Città composta di case fangose, e cinta d’un basso muro; ma che tiene sopra una collina un bel Forte, fabbricato di pietra, e calce. Desinato che ebbi, feci due altre cosse sino a Betchè, Terra murata, dove pernottai.

Egli si è ben diverso il camminare per lo Paese del G. Mogol, da quello di Persia, e Turchia; perche non vi si truovano animali a vettura, nè Karvanserà in convenevole distanza, nè vettovaglie; e quel ch’è peggio niuna sicurezza da’ ladri. Quindi chi non tiene cavallo proprio, bisogna che monti su d’un bue; ed oltre lo scomodo andare, porti seco i [p. 150 modifica]cibi, e gli stovigli per apparecchiargli: trovandosi solamente nelle grandi Terre abitate del Mogolstan riso, legumi, e farina: per tetto poi la notte servirà il Ciel sereno, o pure un’albero. S’aggiunge a tutto ciò che, per le scorrerie, che i soldati del Savagì fanno sin dentro il Campo di Galgalà, si va sempre con grandissimo pericolo della vita, e dell’avere. E poi gli stessi Mogoli sono così astuti, e periti ladri, che contano come propria la roba, e’l danajo d’un viandante; e se gli pongono appresso per più giornate, sino a tanto, che la sua negligenza dia loro agio di rubarlo. Talvolta un di essi si finge viandante, che dee fare lo stesso cammino, e s’accompagna col forestiere; affinche abbia migliore occasione, e più sicura di fare il furto: imperocchè quando colui si pone a dormire, da sopra un’albero cala giù destramente un laccio, e sospesolo un poco, scende a far diligenza nella borsa.

Se non fusse stato più che potente il motivo, che m’indusse a voler vedere un sì gran Re, non mi sarei così di leggieri esposto a tanti pericoli, ed incomodità. E’ ben vero, che toltone questo di Vigiapur, bersaglio di continue guerre, gli [p. 151 modifica]altri Regni del G. Mogol non sono così scomodi a’ viaggianti; particolarmente nelle vicinanze di Surat, ed Amadabat, dove si può avere ciò, ch’è necessario alla vita.

Il Mercordì 16. fatte tre cosse, passai per un gran villaggio, detto Kodelki, dove a caro prezzo gustai uve d’Europa ben mature; e dopo tre altre cosse pervenni in Edoar, ch’è la miglior Città, che vedessi in quel picciolo viaggio. Tiene nella prima cinta una Fortezza mal fabbricata di pietre, ed un Bazar: nella seconda un Forte, con guernigione, e con case all’intorno composte di fango, e di paglia. In questo luogo restar sogliono tutti i Mercanti, che vengono dalle parti Meridionali, per vendere le loro mercanzie; trasportandosi quindi poi al Campo di Galgalà da’ rigattieri. Quando io vi passai, attualmente era questa Città infettata dalla peste.

Dopo desinare feci cinque cosse sino alla Terra di Muddol, posta a sinistra di un fiume; cosa inestimabile in un camino, nel quale bevei tal volta acqua sporcata dalle bestie. Vi è un Forte di fango, siccome le mura della Terra; nè certamente altro riparo meritano le [p. 152 modifica]capanne de’ naturali. Nello scender da cavallo caddi così fieramente di fianco a terra, che mi s’impedì per un quarto d’ora la respirazione, non senza pericolo di morire; e ne stetti male per molti giorni, dopo avermi cavato sangue, ed usato altri rimedj.