Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri/Libro I/IV

Libro I - Cap. IV

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CAPITOLO QUARTO.

Si narra la navigazione sul Nilo, e si

descrive il gran Cairo.


M
I persuasero i Francesi, che mi vestissi all’uso del paese, per rendermi meno odioso a gli Arabi, particolarmente a’ Biduini, che guardano gli armenti, et alloggiano sotto tende per le campagne, avendo le loro abitazioni portatili, come gli antichi Nomadj. Presi il loro consiglio, perocchè dovea incontrarmi in più bande di questi barbari nel cammino, che avea disposto di fare. Posi ogni cosa all’ordine il Giovedì 6. e la mattina del Venerdì 7. vestitomi [p. 39 modifica]da Arabo, m’imbarcai sopra una picciola Saica, che andava a Bichier, dove giunsi l’istesso giorno dopo tre ore di viaggio. Sopra la medesima venne un Capigì, portiero del Bafsà del Cairo, che mi fece intendere da un Giudeo, che avria avuto caro di venire in mia compagnia, e farmi partecipe di quella comodità, che prendeva per lui, offerendomi anche danari, se me ne bisognassero. Benche io conoscessi essere ciò un complimento da Turco interessato, dissimulai, e lo feci ringraziare; giacchè mi ritrovava un paese barbaro, dove egli solo poteva farmi esente dalle insolenze della più pessima canaglia, che viva: essendo i Turchi Angeli a comparizione degli Arabi. Questo Capigì adunque prese in affitto, per una pezza da otto, una picciola Germa, dove dormimmo la notte, per difetto di osteria.

Il Sabato 8. partimmo al far del giorno, ma passate appena 4. miglia, intimorissi il vecchio Capigì, perche il vento era forte, ed il Mare un poco alto: e quantunque il Bey, o padrone lo confortasse con buone parole, non perciò egli lasciò di temere; sicchè fece voltar di nuovo la barca a Bichier. Temono [p. 40 modifica]grandemente gli Arabi, e’ Turchi il bogasì, o bocca del Nilo (ch’è cinque miglia sotto Roseto) poiche ivi facilmente fan naufragio le navi, che vi entrano dal Mare: ed è comune appresso di loro il proverbio, che chi non teme il Bogasì, non teme Dio.

prendemmo adunque risoluzione di fare il cammino, metà per mare, e fiume, ed altrettanto per terra; onde l’insolente Capigì fattosi restituire dal Bey il pagato per la barca (ciò che non dovea pretendere, per non aver colui mancato dalla sua parte) ne noleggiò un’altra, per l’istesso prezzo, fino al Canale d’Ethco.

Imbarcati di nuovo con vento fresco, quando dopo tre ore fummo alla bocca della Media, avemmo a perderci, essendosi rotto l’albero della Germa, ed io rimasi da capo a piedi bagnato dall’onde, con tutto il manuscritto. Questa è una bocca, che fa l’istesso mare, innoltrandosi dentro terra 20. miglia, a guisa di un gran lago profondo, (un Turco me l’assomigliava alla bocca di S. Malò in Francia) che per terra si passa in scafa, e per mare vi si entra con rischio. Si pagano in questo passo quattro medini per persona, ma l’autorità del Capigì me ne face esente. [p. 41 modifica]

Arrivati in Ethco (ch’è lontano 15.m. da Bichier, ed altrettanti da Roseto) pigliammo le vetture ordinarie del paese, e sul tramontar del Sole giungemmo in Roseto, per un sentiero tutto arenoso, che non produce erba d’alcuna sorte, ma solo palme, e così difficile, che io non sò come ne uscissero gli asini. Generalmente parlando, l’Egitto è tutto così, servendosi i naturali di questa sorte d’alberi per varj usi, senza perderne nulla; imperciocchè delle frondi fanno sporte, delle verga gabbie, e gelosie, del legno si servono per travi delle case, ed il frutto mangiano per mantenimento.

Con molta cortesia il Capigì mi accompagnò in casa del Viceconsolo Francese, dove presi alloggio, dopo aver dato per l’asino pochi medini: moneta di Egitto, del valore di un bajocco romano.

Roseto, o Raschet fù già sede delle delizie di Cleopatra, per esser posta su la riva del miglior braccio del Nilo, e’l più facile per lo tragitto delle merci, che dal Mediterraneo si portano al Cairo, e quindi ad Alessandria. Si veggono alla riva di tutto questo tratto di fiume sino [p. 42 modifica]al Cairo, trecento, e più ottime abitazioni. Questa Città non è distante dal Mare, che cinque miglia, dove l’ingresso del fiume è custodito da un’ottimo Castello. Quanto alla maniera dell’abitazioni, ha più tosto sembianza d’un Casale, tanto più, perche ella è aperta, e senza mura: con tutto ciò può dirsi popolatissima, facendo circa 80. mila anime, là dove Alessandria non ne ha altro, che tredici. Il suo circuito è di sei miglia, di figura presso che rotonda. Tiene per tre miglia all’intorno belli giardini d’agrumi, alberi di cassia (che sono simili al platano) palme, ed altre frutta, però situati senza alcun’ordine: e i giardini stessi non sono compartiti in viali, non curando quei barbari di rendergli deliziosi, come i nostri Europei; e pure sarebbe loro più agevole, per la bontà del terreno.

Il Bazar di Roseto è più luminoso di quello d’Alessandria, e coperto tutto di belle viti di esquisite uve, siccome le migliori case, che hanno tutte assai buoni giardini.

Fece il Capigì conoscermi in Roseto il fine de’ suoi complimenti, mandandomi a chiedere Domenica 9. alcuni [p. 43 modifica]medini; quali mandatigli, e vedendo egli la mia faciltà nel dare, venne a mezzodì in persona ad esiggere maggiori convenienze, facendomi esaggerare dal turcimanno i gran servigj rendutimi per istrada, ponendomi a coperto dalle insolenze de’ naturali: in fine tirando i conti a suo capriccio, pretendeva ciò, che non se gli dovea; e benche fosse convinto di mensogna, toccavasi nondimeno la canuta barba, per far credere la bugia, come una evidente verità: onde, per non entrare in disputa con Turchi, gli diedi quello, che volle. Dissemi il Viceconsolo, che questa gente non si contenta di uscir franca dal viaggio, a costo di chi loro s’accompagna, ma pretendono farvi guadagno, tirando, e succhiando il sangue, non che la moneta, ad un Franco, che cosi si chiamano i Cristiani Europei.

Soddisfatto il Viceconsolo de’ pasti, che dati mi avea, e fatta la provvisione necessari, m’imbarcai col servidore Lunedì 10. per girne al Cairo in un meascì, in compagnia di un Frate Francescano Tedesco. Questo meascì è una gran barca a tre alberi, e tre vele, che porta molto carico, e circa cento [p. 44 modifica]passaggieri; le persone però di qualità, pagando una bagattella più del solito nolo, hanno luogo coperto, separato dalla canaglia, dove andai io comodamente col Frate. Il vento fresco ci portò avanti con prestezza, a vista sempre di belle abitazioni, e praterie; perocchè il Nilo rendendo a destra, e a sinistra il suolo, oltremodo ameno, e fecondo in riso, frumento, e frutta, alletta di facile ciascheduno a farvi dimora, e a stabilirvi suo domicilio: e specialmente l’Isola, che formano le due braccia di questo fiume, fra Roseto, e Damiata, è la più fertile di tutto Egitto.

Passammo primieramente due Casali, e a capo di 10. miglia Mirimbel sopra l’Isola: indi Muthubus a destra, e Deffin a sinistra: poi Sumseir a destra, e Figar dirimpetto: più sopra Beruthus a sinistra, e Zendigon a destra, tutte Terre grandi su le rive del fiume, per tacer d’altri Casali. Quì dicono si cavi il miglior Sale armoniaco del mondo, per l’umidità del terreno, ed orina de’ cameli; ma questa ragione non è di alcun peso, mentre, per tutta l’Asia, non mancano cameli, e non perciò buon Sale armoniaco vi si genera. [p. 45 modifica]

Questo braccio, di cui ragioniamo, sarà largo un quarto di miglio Italiano, dove più, dove meno; movendosi così placidamente, che con due vele, contro la corrente, facevamo sette, ed otto miglia ad ora, sicchè può dirsi una delizia navigarvi con buona conversazione.

Il fiume Nilo, o Abanchì Atl. 5. p. Aegyp. Tur. Prov., (che suona padre de’ fiumi, in lingua Abissina) overo Tacui, giusta il parlare degli Etiopi, trae la sua origine da due stagni, o paludi (poste nel Regno di Goyama, sotto il comando dell’Imperadore Abissino) una detta Zambre, l’altra Zaire, donde sopravversando il mentovato Reame, l’Etiopia, ed altri paesi, corre a fecondare l’Egitto, per perdersi poscia nel Mediterraneo. Le di lui acque sono come fango, ma fattele chiarire, sono ottime a bere.

Il braccio, per lo quale noi navigammo volteggia; ad ogni modo non possono con certezza sapersi quante miglia siano da Roseto al Cairo, non facendosi il viaggio per terra; quantunque alcuni contino 150. miglia. La nostra navigazione fù felice, trovandosi allora il fiume nella sua maggior pienezza.

Attribuiscono i moderni Atl. nel luogo cit. due cagioni [p. 46 modifica]a questa inondazione: una si è la frequenza delle pioggie, che nell’Etiopia, cominciando dal primo d’Aprile, continuano per cinque mesi; l’altra la quantità de’ stagni, paludi, e fiumi del paese, che cresciuti, trasmettono le loro acque al Nilo. Affermano, che il principio dell’aumento si osserva, entrando il Sole in Cancro, la maggior crescenza nel mese d’Agosto, e la mancanza a Settembre; fecondando in tanto, ed ingrassando in sì fatta guisa il terreno, che i paesani tal volta, per temperare la soverchia grassezza, vi mescolano dell’arena: certamente se eglino non fossero cotanto pigri alla fatica, raccoglierebbono grano due volte l’anno.

Nelle carte di Geografia danno al Nilo sei braccia, nel rendersi al mare, e fanno, che il più grosso passi per Alessandria. Io non ne vidi altrimente a mio tempo, fuorche i due mentovati. Nascerà forse questo errore dal taglio, che si fa al Nilo in più canali, mentre inonda il paese; male in tutto necessario, a causa che nell’Egitto superiore giammai non piove, e nell’inferiore tre mesi solamente dell’anno, cioè Decembre, Gennajo, e Marzo. [p. 47 modifica]

Continuando l’istesso buon vento, e spiegando tutte le tre vele, con tutto che si rimorchiasse il battello, facemmo dal mezzodì fino al tramontar del Sole, circa 60. miglia; lasciando frattanto a destra Fex, Selmih, Minie ciurafed, et Edsuch a sinistra della riva Atfluh, Summgrath, e Mecas, tutte Terre grosse. La sera si acchetò il vento, ed il Nilo, che stava agitato, come il Mare, cessando quello, rese parimente quieto; talche facemmo poco cammino, sempre però a vista di popolati villaggi su le rive. Cocodrilli non se ne vedevano, perche mai non scendono dal Cairo in giù, quantunque abbiano bastante fondo d’una, e due picche d’acqua: ciò che non è in ogni tempo, perocchè l’inverno la navigazione dura otto, e dieci giorni, a causa della poco acqua, e fondo, ed allora fa di mestieri alle volte scaricar la barca, per passare avanti, e i lavoratori usano altri ingegni per irrigare il terreno.

La mensa de’ Turchi è una continua penitenza, poiche il lor pasto ordinario (anche de’ più agiati) si è un pane mal fatto, agli, cipolle, e ricotte acetose: e quando vi aggiungono un poco di carne di montone bollita, è un gran festino fra [p. 48 modifica]di loro. I polli, e volatili sono affatto banditi, avvegna che in questi paesi siano a buonissimo prezzo. Il buon Capigì non si trattava punto meglio: un suo camerata però Giannizzero, meno scrupoloso nell’osservanza dell’Alcorano, avendo adocchiato un fiasco di vino, che io portava per mio uso, lo ridusse all’estremo, dimandando a tutt’ore da bere: ond’io per aumentare il poco, che restava, lo feci adacquare dal servidore, e così mi liberai dall’importunità del Turco, a cui poi non piaceva più, dicendo, ch’era fiacco.

Cessato affatto il vento Martedì 11. scesero su la riva 9. persone, e con una lunga corda tirando la barca, senza adoprar remi, passammo Scilmo (celebre per l’imbarco de’ grani) a sinistra poi lasciammo Abici, e Nahari a destra, con altri piccioli Casali, ed Isolette, che in alcune parti forma il fiume. Il terreno, benche nudo d’alberi, si vedeva nondimeno coltivato col travaglio di bovi, e bufoli. Gli Arabi mangiano volontieri la carne degli uni, e degli altri, oltre i montoni, che ivi sono grossi, e grassi (pesando la larga lor coda alle volte più libre) ma duri. Questi Maomettani [p. 49 modifica]usano ancora, mescolato co’ ceci infornati, un frutto picciolo, quanto i medesimi, che ha sapore di castagna, chiamato Albahsisi.

Circa il mezzodì si rinfrescò il vento, e camminammo meglio, però la tortuosità del fiume rendea la strada assai più lunga, che non era. Vidi alla destra riva più alberi, come mori bianchi, che aveano presso al tronco le frutta simili alle nespole, e di gusto dolce: le dicono Giummis, o fichi di Faraone, e le mangiano gli Arabi, intaccandole prima, che vengano a maturità, per toglier loro il mal’umore. In passando a Chioforzear, mi dissero, che eravamo a mezza strada: al cader del Sole, ci trovammo presso a’ casali di Sicabul, Nigili, e Comscirich, con buon vento il quale con tutto che continuasse, si fermò pure la barca in Terrana; non volendo passare avanti il Bey, o Padrone, a causa della lor gran festa dell’Agiran Bairam, o sacrificio a Maometto.

Fermatici adunque in questo Casale, due ore dopo il levar del sole del Mercordì, fin tanto che finissero i loro esercizj diabolici; osservai un gran mucchio di terra in pezzi, detta Natron, che [p. 50 modifica]si cava da un monte ivi vicino, e mi dissero imbarcarsi per più luoghi di Cristianità, dove serve per imbiancare i panni, e cavar le macchie. A sinistra del fiume si vede un lungo, ed arenoso colle, che dura sino al Cairo.

Continuammo Mercordì 12. il viaggio, sempre a vista di villaggi dall’una, e l’altra riva: vedendo parimente Menuff Città grande, dentro terra sei miglia a destra dell’Isola. Al tramontar del Sole lasciammo Dulap, e Nixas; casale, alla di cui punta il Nilo si divide in due braccia, uno verso Roseto, e l’altro verso Damiata. Giugnemmo in Bulac a tre ore di notte, per lo trattenimento avuto della mentovata festa. Quì si fermano tutte le barche, che vengono dal superiore Egitto; e da Alessandria, e Roseto.

Giovedì 13. al far del giorno posi piede a terra, ed osservai, come un mare il paese inondato dalla crescente del fiume, che di già stava nella sua maggior pienezza. Mi dissero, che il passato Venerdì 7. d’Agosto avea il Bassà con pomposo accompagnamento, fatto la funzione, solita ogn’anno di tagliare l’argine d’un picciol braccio del Nilo, detto Xalic; acciò potesse l’acqua [p. 51 modifica]passare per lo Cairo di nuovo, irrigando o i paesi, e rallegrando i cuori degli Arabi, i quali preveggono la buona, o mala raccolta dalla crescenza delle acque del Niloscopio, o misura del crescente Nilo, posto in un’Isola, vicina al Cairo vecchio: cerimonia, che varia ogni anno da 7. in 8. dì, secondo la tardanza delle crescenti acque, quali giunte al sommo, da un banditore se ne pubblica la misura al popolo. Certa cosa si è, che allora mi pareva più grande il Nilo, che il Danubio: quel, che sia nella mancanza, mi riserbo di dirlo, quando l’avrò veduto.

Licenziatomi dal Turco Giannizzero, a cui piaceva il vino forte, presi sopra di asini il cammino del Cairo nuovo, dove giunto, alloggiai nell’ospizio de’ Padri Francescani, posto nella contrada delle due porte, quartieri di Veneziani, detto Harr.

Trovai nel Cairo la festa del Bairan, che l’antecedente giorno s’era fatta ne’ Casali. Si vedea ne i cimiteri un gran concorso di persone, che ardenti lampade teneano si i sepolcri de’ lor trapassati: per le piazze tutti a gara faceano superstiziosi sacrificj al lor Profeta di bovi, castrati, [p. 52 modifica]agnelli, e polli. Oltre gli scambievoli regali, e conviti, divertivasi anche il popolo in vedendo girare otto fanciulli seduti su d’una ruota. Si mangiava in questi dì la carne dell’infame sacrificio, spezialmente di polli, che sono a vilissimo prezzo, come anche i piccioni, de’ quali si truova una prodigiosa quantità nelle colombaje di tutti i Casali.

Riposato nell’Ospizio, presi dopo due asini, et in compagnia d’un Frate, passai al Cairo vecchio, traversando il nuovo per due miglia, e mezzo, e la campagna per ispazio minore.

Quivi posai altresì nell’ospizio de’ Padri di San Francesco: poi me ne andai a veder la Chiesa de’ Greci, fondata dentro la fortezza, per visitare il braccio di San Giorgio, in una cappella riposto. La Chiesa non ha niente di magnificenza, e’l Castello è una oscura carcere. Narrano essere stato degli antichi Copti, o circoncisi, siccome un’altro contiguo, distrutto similmente da’ Turchi. Questi Copti dicono, essere stati Signori del paese. Veggonsi ora le loro miserabili memorie in un quartiero separato, ma congiunto al Cairo vecchio, dove [p. 53 modifica]tengono cinque Chiese; celebrando Messa giusta il loro Rito, ed ubbedendo al loro Patriarca scismatico, e per conseguente sono nemici de’ Cattolici: fanno una vita austera, e mendica, cibandosi solamente di pane, ed acqua, o al più di legumi.

Il Cairo vecchio, posto a destra del braccio del Nilo, è quasi disabitato, non essendovi più di tre mila anime, e reca un certo orrore il vedere da per tutto sparse le sue rovine. I magazzini di Giuseppe, che ivi sono, terranno di giro un miglio, con un muro, che gli circonda d’ogni intorno. Eglino sono divisi in 14. spaziose piazze, nelle quali si conserva oggidì il grano, a cielo aperto, perché o non piove, o poche minutissime goccie in Egitto.

Il Padre Superiore dell’Ospizio, ed un’altro Padre suo compagno spagnuoli, mi condussero a vedere il luogo, dove fu trovato Mosè (a galla sul Nilo, in una cistella) dalla figliuola di Faraone; essendo in quel tempo ivi da presso il palagio reale: oggidì vi è una Moschea con giardini, e case di delizia. Indi non molto lontano è l’Isola, di cui si è ragionato di sopra, dove si misura la crescenza del Nilo. [p. 54 modifica]

Lungo il Cairo si vede sempre quantità di barche cariche di frumento, migliore assai del nostro, che viene dal Regno di Seyd (che nella nostra favella suona, Paese Felice) appartenente a un Principe Arabo Maomettano, tributario del Gran Turco. Fanno queste barche il lor viaggio in 22. giorni, però con qualche disagio, a cagione de’ coccodrilli. Dirimpetto a questa gran Città, dalla parte sinistra del Nilo, ve n’è un’altra detta Ciza, capo d’un Governo, e celebre per le case di delizia, che i Principi Mammalucchi vi fabbricarono.

Ne i Casali intorno al Cairo, gli Arabi usano di far nascere i polli, col calore del fuoco, in 14. giorni, accomodando le uova in una stanza, e poi facendo fuoco nel mezzo; nel qual tempo hanno la cura di volgerle, e rivolgerle da quando in quando, acciò prendano bastevol calore. Volli andare a veder ciò, ma mi dissero, che si faceva nella quadragesima.

Entrai poi, in compagnia de’ Padri suddetti, nella Casa Santa, in cui per sette anni abitò la Madre Santissima, col Bambino Gesù, e San Giuseppe, fuggendo dalla crudeltà d’Erode. Questa si scorge dentro la Chiesa de’ Copti, (scendendosi [p. 55 modifica]per nove gradini, presso alla parte sinistra del Coro) sostenuta da tre colonnette a destra, e quattro a sinistra, che fanno tre picciole separazioni: in quella di mezzo, quattro palmi alto, mostrano cavato nel muro, il luogo, dove dormiva la Madonna, ed il Bambino: nella stanzetta a destra il luogo, dove dormiva S. Giuseppe, e nella concavità del muro a sinistra, un’altro picciol luogo, dove per la prima volta posò Nostro Signore, entrando nella grotta. Oltre una pietra dove dicono lavasse la Madre Santissima, ed una tavola dell’istessa, dove mangiavano; mi fecero eziandio vedere un grosso legno, con un chiodo che dissero essere dell’Arca di Noè. Andai vedendo la Chiesa (per l’addietro de’ Greci) che non è molto grande: tiene un solo altare nel Coro, vicino al quale, sopra di otto gradini, e nell’alto del muro stà situata la sedia del loro Patriarca. In quello altare i Preti dicono Messa, leggendo l’antica lingua Egizia, di cui, per le loro ignoranza, poco, o nulla comprendono il significato. Non molto lungi si è il fonte Battesimale, fatto a guisa di pozzo, nel quale fanno cader l’acqua, battezzando le femmine 80. giorni [p. 56 modifica]dopo che sono nate, e i maschi 40. e qualche tempo appresso, così quelle, come questi circoncidono.

Udita la Messa, mi posi a cavallo all’asino, per ritirarmi insieme co’ due Padri spagnuoli. Nel passaggio osservai, che il Cairo vecchio fu ne’ secoli trasandati una gran Città, stendendosi per più miglia intorno le sue rovine: notai anche, come cosa maravigliosa, gli aquidotti, che conducono nel Castello del Bassà l’acque del Nilo (tirate con machine dalla corrente) sì per l’altezza degli archi, come per la lunghezza di tre miglia. Incontrammo poi parte della corte del Bassà, che andava a dar le buone feste a un Signore del Cairo vecchio, toccando quattro tamburi, e più avanti due Dervis (Religiosi Maomettani) con loro berretta in testa di figura conica. Curioso però era vedere un loro Santone nudo, con una berretta sul capo di più stracci composta, ed una mezza casacca indosso, e come concorrevano a folla quei barbari a fargli corteggio; di modo che tra la festa, e questo concorso, non potevamo passare avanti; e bisognava soffrire molte ingiurie da quella canaglia, per non esporsi, col rispondere [p. 57 modifica]ad avere delle bastonate. Dopo essere stati qualche tempo a bada, per la strettezza delle strade, si fece innanzi un de’ loro servidori, e preso per lo cappuccio un de’ Padri, poco mancò, che non lo facesse cadere a terra; frattanto caricando l’altro d’ingiurie, perché portava un cagnolino in mano, dicendogli: Cane con Cane. Mentre io passava appresso vidi, che un’Arabo faceva sembiante di darmi, con un lungo bastone, sul cappello (perocchè ivi i servidori portano legni, e i padroni mazze ferrate, appese all’arcione della sella) e certo l’arebbe eseguito, se un Cristiano Maronita non l’avesse trattenuto; onde io reso cauto dal pericolo, mi levai i cappello, tanto odioso a gli occhi di quei barbari.

Si continuò la festa Turca Venerdì 14. uccidendosi continuamente animale, la di cui carne non mangiano i Cattolici, per le superstizioni, che si usano nel sacrificargli, e perciò si proveggono qualche tempo prima.

In questi tre giorni di festa (la quale ogn’anno anticipa 11. giorni) si vedono quantità di Signori Arabi sù buoni destrieri montati, (ciò che non è permesso a’ Cristiani) i quali sono obbligati [p. 58 modifica]metter piede a terra, incontrando, o passando avanti la Giustizia.

I Giannizzeri in questo medesimo tempo fan pompa delle loro armi, ne i loro quartieri. Altri vagabondi, con caraffine in mano, vanno buttando dell’acqua di rose a chi passa, per farsi dar monete. Stando in finestra, vidi passare otto femmine mascherate, che facevano urli da spiritate: mi dissero, che erano segni di matrimonio, e che andavano invitando i parenti dello sposo, e della sposa.

Il Cairo, da alcuni detto Memphis, che altri vogliono sia Babylon Isaias cap. 9., è situato a gr. 29 e 50. m. di latitudine, vicino alla destra riva del Nilo. Fiorì molto, mentre ebbe i Soldani, e Rè proprj: è andato quindi mancando a poco a poco da 160. anni in quà, ch’è passato sotto il dominio dell’Imperador de’ Turchi, il quale vi manda come un Vicerè.

Questa gran Città fu fabbricata in forma di triangolo, e quantunque Capo del basso Egitto, non è però qual fu popolata; nè, come oggidì alcuni la decantano numerosa in 24. m. contrade, ed altrettante Moschee; perche la continua [p. 59 modifica]peste, che affligge quel Regno, l’ha renduta tratto tratto vuota di abitatori: e se bene i Padri missionari, e i mercanti Francesi mi riferissero Maillet descript. de l’Uunivers. t. 3. ch. 36., che nello stato di oggidì tenga cinque milioni d’anime, non voglio però esserne tenuto per mallevadore, perche non ne ho giammai fatta la numerazione, e chi legge creda ciò, che gli aggrada: solamente posso dire, che accesa la curiosità da tal fama, volli girarla intorno, pregando il Consolo Francese a darmi un Giannizzero, acciò potessi farlo con minor periglio.

Mandatomi dal detto Consolo il Giannizzero la mattina del Sabato 15. montammo sopra due asini, e camminammo sempre all’intorno, dilungandomi solamente in alcune parti, a causa delle rovine. Lasciammo poi indietro gli aquidotti, e venimmo nel Castello. Questo è dominato da una montagna ad Oriente, dalla quale in picciol tempo potria esser rovinato, per la debolezza delle sue mura, e Torri. Per più miglia all’intorno, in diversi luoghi, sono i Cimiterj de’ Turchi, con Moschee dentro, e sepolcri, per le persone qualificate, eretti sopra quattro colonne, con tetto di sopra a modo di cupola. [p. 60 modifica]

Si compì il giro in due ore, e mezza, sicchè considerato il tempo, e l’andar veloce degli asini valenti, farà il Cairo a mio giudizio, dieci miglia di circuito. Or faccia il curioso Lettore i suoi conti, e vegga, se dentro tale spazio possano capire cinque milioni di persone; che io solamente soggiugnerò la notizia, di esser le strade strettissime, ed abitare in una medesima casetta da 20. e 30. persone; come anche non comprendersi in questo giro Bulach, Cairo vecchio, e Borghi.

Le case di questa Metropoli non sono punto abbellite di marmi, ne fabbricate di pietra viva, ma di mattoni mal cotti, o di loto, senza alcuna magnificenza; solamente in due porte della Città ad Oriente (che sono serrate) si vede qualche ornamento di marmo. Nel rimanente può dirsi un fondaco delle più preziose mercanzie, che siano portate da’ Persiani (particolarmente nel canal d’Halì) siccome di tutto ciò, che fa di mestieri per lo sostentamento dell’umana vita, vendendosi ivi a vilissimo prezzo carne, pesce, frutta, pane, ed altro; talchè col valore dì un carlino di Napoli, può farsi un lauto banchetto. [p. 61 modifica]

Per ritornare a quello, che dicevamo; ha dato a credere tanti milioni, la fama dell’antica, e grandissima Città del Cairo, che vogliono si componesse di cinque Città distinte, ma non divise; nell’estremità dell’una, cominciando l’altra, a guisa d’una catena, della quale gli annelli sono in se distinti, ma non divisi. Di queste parlando il Profeta Isaia Isaia al cap. 19., una ne chiamò Civitas Solis, ch’era la principale, perchè forsi vi abitava il Rè Faraone: di essa non si truova più altro vestigio, ne reliquie di fabbriche, fuor che un’Aguglia, con alcune rovine, e perduto anche il nome, si chiama oggidì Mataria. E’ restata però una memoria, e tradizione, da’ Cristiani passata a’ Turchi medesimi, che quivi passando la Beatissima Vergine, col suo figliuolo, riposasse sotto un’albero, che si era conservato sino a’ nostri tempi; ma poi sì per la divozione de’ Cristiani, come a cagion degl’Infedeli, si spiantò; come mi riferì il Padre Custode dell’Ospizio de’ Padri Francescani, il quale mostrommene un gran pezzo di legno nel Coro della lor Chiesa.

La seconda Città si chiamava Aamis, quella appunto che Faraone diede a [p. 62 modifica]Giuseppe, ed alla sua famiglia. La terza, era detta Misrin, fabbricata da Mesrin figliuolo di Cham, e nipote di Noè. La quarta si appellava Bubrillon, edificata in onore, e nome d’un’Idolo, detto Abrillon, il di cui Tempio era vicino al Cairo vecchio, ed oggidì vi si vede una Chiesa di Cristiani. La quinta era Memphis, distrutta da’ Maomettani, sotto Eraclio Imperadore, e poi rifatta col nome di Tesdar, cioè Vittoria, oggidì Cairo vecchio.

Or’il nuovo, siccome dicevamo, non ha lo splendore, nè la grandezza dell’antico (che si componeva delle mentovate Città, giusta le tradizioni, che si hanno) essendo stato fabbricato, per quello, che dicono, da Kahara moglie d’un Rè Saraceno, del qual nome si fece in appresso quello di Cairo, per l’ignoranza della plebe.

Il Consolo Francese Maillet, persona molto virtuosa, e nativo di Champagne, mi offerse più volte stanza, e tavola in sua casa, ciò che ricusai sul principio civilmente; ma replicandomelo due, e tre volte, con affettuose dimostrazioni, l’accettai, e cominciai la stessa mattina di Sabato a ricevere i suoi favori in una [p. 63 modifica]mensa ottimamente imbandita.

Vidi dopo il desinare passare un defonto, su di una bara alta, e givangli molti Preti cantando appresso, e più donne urlando. Dicono, che le persone comode, in tale occasione, uccidono vacche, montoni, ed agnelli, e gli dispensano a’ poveri; ne ciò dee parere strano giacche tanta carità ivi si usa anche con gli uccelli, a’ quali, nel Cairo, per legato fatto da un Maomettano, si dà una certa quantità di frumento al giorno su d’una Torre.

Domenica 16. la mattina andai a vedere il Castello, ch’è nella parte più eminente della Città, conducendo meco due Padri Francesi, il Turcimanno Giudeo, & il medesimo Giannizzero. Montati tutti cinque su di valenti asini, si cominciò a camminare in prima per la Città, accompagnati dalle beffe degl’insolenti Arabi, che tiravano talvolta anche il mantello a’ Padri. Dopo esser passati per più Bazar, entrammo in un’ampia strada (cosa singolare nel Cairo) dove erano buone case, e Moschee: quindi in una piazza due volte più grande del largo del Castello di Napoli, dove erano parimente due grandi Moschee, [p. 64 modifica]all’intorno buonissime botteghe, e nel mezzo Cantimbanchi. Due porte, nel fine della medesima, danno l’ingresso al Castello. Entrammo noi per la destra, e passate tre porte, vedemmo un giro di alte mura, come una cupola di Chiesa, ma scoperta, dove mi dissero, ch’era il Divan, o Tribunale, dove dava udienza Giuseppe; altro non vi è di buono, se non 38. grosse, ed alte colonne di marmo.

Da questo piano passando più sopra, per due altri portici, entrai in una piazza piana, a fronte della quale sono due porte, che conducono in un’altro cortile, donde si va alla Torre, in cui si conserva il danajo pubblico, per la paga di 40. mila Giannizzeri, che denno essere sempre mai nel Regno. Nella medesima, ed altre, non permettono ad alcuno l’ingresso, come nè anche negli appartamenti dell’Agà de’ Giannizzeri, e Bassà, che sono contigui a detta piazza.

Ottenuta poi, col pagamento d’un zecchino, licenza dal Bassà, per vedere il pozzo di Giuseppe; ripassammo le due porte, e montati per una strada a sinistra, nel più alto terreno del Castello, verso Oriente, trovammo presso al [p. 65 modifica]pozzo quattro bovi, che volgendo una ruota, tiravano l’acqua, con lunghissime corde, in vasi di creta. Calai, con un lume acceso, fino al primo piano, per gradi tutti tagliati nella rocca: ivi trovai quattro altri bovi, due de’ quali a vicenda giravanola macchina per far salire l’acqua, dal fondo del pozzo, in una cisterna, a tal fine fatta nel medesimo piano, donde poi la tiravano i bovi di sopra. Feci buttarvi dentro una fiaccola accesa, per vederne la profondità, e poscia corde, per misurarlo. Per quanto potei osservare, ha due lati eguali, ma non è perfettamente quadrato, essendo i due di 22. piedi l’uno, gli altri di 15. Quanto alla profondità, sono 141. piedi dalla bocca fino al piano, dov’erano i secondi bovi; ed altrettanti fino alla sorgiva dell’acqua, che fanno in tutto 282. piedi. I gradini, in più luoghi sono consumati, e in altri coperti dal fango, per lo continuo salire, e scendere de’ bovi, e generalmente disuguali, ed interrotti; perciò avendo cominciato a contargli, tralasciai di pigliarmi più tal travaglio: nulladimanco, poco più, o poco meno, potranno essere fino al primo piano, circa 154. gradini. Da’ secondi bovi fino alla sorgiva, è [p. 66 modifica]stretto, quanto può capire la ruota della macchina: misuratolo, trovai due lati di piedi dodici, e gli altri di quattro. Il più ammirabile di questa opera si è, l’esser tagliato nella viva rocca, non solo il pozzo, ma la scala medesima, per cui vi si scende, che in alcune parti trovai larga sette piedi, in altre cinque, ed alta sette; la muraglia fra la scala, e’l pozzo (nella quale sono aperture) è larga sei pollici, o poco più.

Alcuni dicono, essere stato fatto questo pozzo da Giuseppe il Sultano; mossi dal non essere stata tal Città in tempo di quel Giuseppe, di cui si crede: ad ogni modo, s’è vera la più ricevuta opinione, fù cavato circa gli anni del Mondo 2298. dopo il diluvio 642. e prima della venuta di Cristo 1606. che fino al giorno, ed anno presente, in cui scrivo, fanno 3399. anni.

Passai (uscito dal pozzo) a divertir l’offuscata vista sopra la Città, che dal Castello tutta si scuopre, e a godere la famosa prospettiva, che fanno una infinità di superbe Moschee, ed alcune piazze; e spezialmente un ben spazioso piano in mezzo della Città; coperto dalle acque del Xalic. [p. 67 modifica]

Il Castello, di cui si è ragionato, è una picciola Città, di tre in quattro miglia, di giro; nella fortezza però, e genere di fortificazioni, non ha veruna moderna, che lo possa difendere lungamente: le sue Torri sono vecchie, e le muraglie rovinate in più parti, e senza l’artiglieria necessaria; di modo che poche cannonate lo spianariano. Io più tosto lo direi mucchio di case confuse, che regolare Fortezza.

Nel ritorno incontrai una bara, sopra la quale era una coperta verde, tenuta per gli quattro angoli da 4. Preti di Moschea, che avevano altrettanti stendardi in mano dell’istesso colore. Interrogati, mi dissero, che quella coperta era della sepoltura d’un loro Santone, che portavano intorno per chieder limosina.

Volendo io vedere qualche palagio de’ Signori della Città, mi feci condurre dal turcimanno in quello d’Ibraim Bee; ma perche non v’era il padrone, che comandava nell’isola di Candia, ne vedemmo parte solamente. Ci ricevè bensì il suo Maggiordomo nella galleria molto cortesemente, dandoci del caffè, sorbetti, e da fumare. Una scala a [p. 68 modifica]sinstra dell’ingresso, coperta tutta di viti a modo di piramidi, dava l’adito a questa galleria; dove era il Soffà, coperto di stuoie, e fini tappeti, come anche quello di una loggia contigua, e in amendue molti origlieri, per sedere alla maniera d’Oriente. Nella prima galleria mi trattenni di buona voglia, per godere del fresco, e della veduta del cortile, e del giardino adorno di cipressi, palme, viti, melaranci, e simili. Vidi poi alcune ottime stanze vagamente dipinte, e dorate all’uso del paese, con ben fini tappeti di Persia sul suolo. Per lo cortile, ch’è molto grande, givano pascolando daini, e capre selvaggie molto belle.

Passammo poscia a vedere quello dell’Ammiraglio, soprantendente della Caravana della Mecca (dove in quel tempo si trovava comandando la medesima, numerosa di più di 60. m. pellegrini) carica, che rende da 100. mila scudi, perché il Gran Signore gli dà mille zecchini il giorno, per mentre dura il viaggio. Il cortile di questo palagio era più grande dell’altro: nel mezzo sotto un grande albero di mori bianchi, era il Soffà, per godere il fresco; vi era parimente una capra bianca della [p. 69 modifica]Mecca, assai vaga a vedere, che avea la lana morbida, come sera. Le capre del Cairo sono molto differenti, perche hanno l’orecchie come bracco, e’l pelo come levriere: i Francesi per la bellezza ne portano in Francia. Quivi, non so per qual cagione, non ci permisero il vedere l’interiore appartamento; laonde, per non tenere più a bada il Consolo, che con tutti i Religiosi dell’Ospizio Francese, m’aspettava a desinare, con la medesima compagnia feci ritorno in casa.

Lunedì 17. andai a buon’ora quattro leghe lontano dal Cairo Maillet. descrip. de l’Univers. to. 3. pag. 38., verso Oriente, per vedere un’antica Aguglia, posta nel luogo, detto la Materia, in un giardino, che dicono, del Balsamo; dentro questo giardino è una fontana, su di cui, v’è tradizione, che la Madre Santissima riposasse, venuta in Egitto, col bambino Giesù, e San Giuseppe, all’ombra d’un grande albero, che vi era vicino, il quale si conservò lungo tempo per divozione, come ho detto di sopra.

Non lungi da questo giardino fu già l’antica Hieropoli, o Città del Sole; la prima, che il divin Sole dì Giustizia visitasse, ed illuminasse, entrando in Egitto. Vidi qualche reliquia della sua [p. 70 modifica]antichità, spezialmente l’Aguglia mentovata di sopra, che ha tre piedi, e mezzo di larghezza, e 58. d’altezza, con geroglifici per tutte e quattro le faccie, come nella seguente figura potrassi discernere.

Ritornando di buon passo verso la Città, con gli nostri asini, mi trovai a tempo, per vedere l’entrata dell’Agà Ameth, che portava certi braconi, stivali, e sella al Bassà da parte del Gran Signore: ciò che dinota partenza, e venuta in brieve d’altro a quel Governo. Segui la funzione in tal forma: Era stato ricevuto primieramente l’Agà, in un giardino fuori della Città, dal Chiayà, Luogotenente del Bassà (che dicevano essere un gran furbo) dove rimaso per alquanti giorni, a provvedersi del necessario, fece poi il solenne ingresso. Precedevano piccioli tamburri, e trombe all’uso del paese, toccati da persone a cavallo, e ducento soldati ben vestiti, e montati sopra buoni destrieri; venivano appresso due persone, una delle quali portava la scimitarra; l’altra a sinistra, in un bacino coperto di un drappo di seta, i braconi di panno rosso, detti Scuff, e gli stivali; dopo questi seguivano 100. [p. 71 modifica]Giannizzeri a piedi, benvestiti di panno verde, e incarnato, con la loro gran berretta larga, che cadeva su le spalle, sollevata su la fronte da un pezzo d’argento d’un palmo, vagamente lavorato.

Per ultimo veniva l’Agà, (che portava in petto la lettera dell’Ottomano Imperadore) e il Chiayà: a coloro succedevano due altre Compagnie di soldati a cavallo, come i primi, vestiti di rosso, che similmente marciavano a due, a due; portando tal’uni sopra le spalle alcune mazze, coperte nell’estremità d’argento massiccio, in segno d’essere Ufficiali. Tutta questa brigata andò in Castello, dove il Bassà l’attendeva; e così ebbe fine la funzione.

Ritornammo a casa per la piazza di Enaxin, o della Rame, ed altri Bazar, vedendo intanto ricchissime botteghe di varie rarità, che da più parti del Mondo ivi si portano a vendere; oltre che nella Città stessa sono eccellenti tessitori di seta, che fanno vaghi drappi leggieri, per uso del paese.