Giovanni Prati, discorso tenuto nel Teatro Sociale la sera dell'11 novembre 1900 per invito della Società d'abbellimento di Trento
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LUISA ANZOLETTI
Giovanni Prati
DISCORSO
tenuto nel Teatro Sociale la sera dell’11 novembre 1900
per invito
della Società d’abbellimento di Trento
Seconda edizione
MILANO
TIPOGRAFIA EDITRICE L. F. COGLIATI
Corso P. Romana, 17.
1901.
A TRENTO MIA PATRIA
CUI DEBBO
I PRIMI ALITI DI POESIA
E LA VENERAZIONE
DELLE FORTI VIRTÙ CIVILI
“Dio ci ha creati italiani, in terra italiana, e questo fatto ci dà diritti che forza d’uomo non cancella„ (Discorso del Dott. Guglielmo Ranzi nella solenne inaugurazione del monumento a Dante in Trento). |
Così è, o signori. Quando l’anima delle moltitudini si agita cercando la sua parola, anche la voce degl’inconsci fanciulli può diventare un oracolo. Non vogliate perciò maravigliarvi se qualcosa di somigliante oggi qui avviene: se in quest’ora fulgida d’ideal visione, mentre pensieri ed affetti, ricordi e fantasie ci assalgono tumultuosamente e c’infiammano il cuore, la voce che voi udite levarsi è una trepida voce di donna. La commozione che vuole espandersi non troverebbe certo, o donne gentili, un altro idioma, al par del vostro creato ad esprimere tutto ciò che nel linguaggio del sentimento esala come un profumo d’anima.
E ben vi era, voi lo vedete, in quest’adunanza, chi assai meglio di me potea farvi udire l’eloquente parola che col pensiero suscita il pensiero, che dà all’idea rapita all’invisibil suo regno lo splendore dell’immagine rivelatrice del bello e del vero. Ma se una foga d’affetti, se un’improvvisa esaltazione d’entusiasmo, e vaghezza di sogno e gioia e mestizia insieme confuse e traboccanti dall’anima in un impeto appassionato di commozione, dovean pur trovare quest’oggi la loro parola, voi che conoscete l’ineffabile tenerezza d’un balbettìo d’infante, e il mistero che si disasconde ne’ taciti sospiri d’un labbro innamorato, voi non vi maraviglierete, no, che quella parola sia stata chiesta ad un cuore di donna. Poichè, dove tace quasi del tutto il ragionamento, nè altro può parlare che l’affetto e la fantasia, il chiedere quella parola alla forza ragionatrice dell’uomo, sarebbe quasi un voler costringere la natura a parlare un linguaggio non suo.
Questo io dovea dire anzi tutto, affine di giustificare il perchè una Società di egregi concittadini, la quale col nome di Società d’abbellimento è sorta a promuovere nobilmente nella nostra città il decoro delle arti del bello, abbia desiderato che la mia parola divenisse oggi l’espressione più manifesta dell’idea e dei sentimenti che qui ci riuniscono a commemorare il glorioso figlio dell’arte e della terra nostra, Giovanni Prati. Opera e degno vanto di questa patria Società d’abbellimento sono le onoranze onde noi celebriamo la memoria del poeta, alla vigilia d’inaugurare l’immagine di lui espressa nel marmo, che sorgerà in cospetto della sovrana mole dantesca, qual figurativa sintesi delle qualità che più illustrarono nella letteratura poetica d’Italia l’ingegno trentino, e con durabile testimonianza, accanto alla gloria di Dante, padre, rappresenterà così in un simbolo monumentale la dignità dei figli.
Avendovi chiarito, o signori, il perchè siasi voluto affidare a una modestissima voce di donna l’onore di parlare davanti a voi, celebrando questa poetica commemorazione, io avrò insieme chiarito fin da principio l’indole, non solo, ma anche la forma del mio discorso. Il mio discorso sarà quale solo poteva essere: uno sguardo rivolto con affetto profondo all’anima e al genio del nostro poeta; una visione quanto a me sarà concesso più elevata e artisticamente comprensiva di quella luce, di quell’ardenza, di quell’astrale intensità di moto psichico, che del poeta costituisce l’essenza e il mistero.
Risiede in questa la possa veramente più che umana, ond’egli a sè rapisce gli spiriti e i cuori, trasforma tutta la natura nel sogno stupendo della sua fantasia, apre nella vita che tutti viviamo la sorgente di nuove squisitissime sensazioni, d’ideali che ci sollevano sopra noi stessi, che ci fanno vivere fuori della realtà, in un mondo ultraterreno; dove non è dato, pur troppo, far lunga dimora, dove la felicità e l’ebbrezza paradisiaca altro non sono che un lampo abbagliante e fulmineo; ma che all’anima in quel lampo rivelano l’ineffabil luce delle cose eterne.
Io volli tener gli occhi rivolti a questa radiosa altezza. Nelle due vite che il poeta vive, la vita della realtà e la vita dell’idea, volli cercare se mi fosse dato di cogliere, meglio che le enimmatiche larve della prima, qualche sprazzo del fuoco immortale che sublimò la seconda. Non già che la vita reale mi sembrasse da trascurarsi. Ma il poeta che noi oggi onoriamo, presenta come uomo e come artista, come figlio della terra e come figlio del cielo, una personalità troppo complessa, e varia in sè stessa, e anco discorde, perchè possiamo con un rapido sguardo abbracciarla intera, e dirò pure, giusta il vero ammirarla. E noi non andremo già a veder brillare il diamante colà dove lo incrostano tuttora le rocce. La figura del poeta ha diversi atteggiamenti, diverse fisonomie. Ciascuna è interessante, ciascuna merita uno studio particolare. Ad altri il proseguire questo studio e compierlo; io lo comincerò, scegliendone ad argomento quegli aspetti affatto caratteristici, che del poeta rivelano propriamente l’originalità, dai quali traluce quasi il nucleo della sua mentale forza irradiatrice, in quanto ha di tutto proprio e incomunicabile, unico e portentoso: le facoltà poetiche.
E perchè questa sintesi psicologica dell’artista riuscisse al possibile intera e compiuta, volli che qualche analisi storica me ne porgesse gli elementi, osservando in primo luogo il Prati in quanto appartiene alla letteratura e alla storia della nazione; in secondo luogo osservandolo nel suo tipo regionale, in quanto egli è figlio della nostra terra, e nel suo genio s’incentrano, quasi raggi nell’astro, i caratteri che la natura stampò, e che la legge atavica costantemente ribadisce, nella fibra tenace e gagliarda della gente trentina.
Giovanni Prati, scrisse il Carducci, fu «il rappresentante vero dell’ultima trasformazione del romanticismo».
La prima generazione de’ romantici italiani, quella famiglia del 1818, che raggruppatasi intorno al focolare del Conciliatore, riguardava come suo padre, pel concetto dell’utilità morale e civile delle lettere, il Parini, avea spiegate le sue vitali energie poetiche con la lira drammatica ed elegiaca, patriottica e religiosa del Torti, del Pellico, del Grossi, del Berchet, del Carrer e d’altri profeti dei nuovi tempi, che velati ancora della dolce mestizia virgiliana, meditavano gli oracoli dell’avvenire con lo sguardo intento alla tragedia medievale, all’immaginoso mondo cavalleresco, ai casti amori e alle grandi visioni della fede cristiana. Era il genio del risorgimento, che sognava sull’alba gli ultimi sogni, veri come un vaticinio biblico; e si agitava oppresso dai fantasmi incalzanti di quell’ideale, che attraverso otto secoli di lotta fra la libertà e il despotismo, s’affrettava a compiere la sua marcia cruenta tra lo scoppio dell’armi e il grido de’ popoli, assunti finalmente alla civile coscienza della loro forza e de’ loro diritti. Fu il periodo di quella prima generazione di romantici quasi l’avvento salmodiante e vestito a bruno della grande giornata natalizia, che due anni prima della metà del secolo vide in un tessalico assalto trionfare i destini della nazione, dopo aver veduto trionfare nella patria letteratura i destini del romanticismo, con l’immortale conquista manzoniana.
Il Manzoni aveva aperta un’êra nuova. Per tre sorgenti perenni egli avea dedotto l’eterno vero nelle lettere e nella civiltà d’Italia, cui dopo la teologica visione di Dante non era più stato concesso un genio capace di consociare la terra al cielo. Il cuore del popolo nei Promessi Sposi, la fatalità storica nelle Tragedie, la rivelazione religiosa negl’Inni Sacri, erano veramente le tre sorgenti perenni, onde il più grande dei romantici ristorava nella letteratura quel vero eterno, che Dante, abbandonata la speranza di poterlo in terra scoprire giammai, era ito a cercare, esploratore divino, nelle profondità misteriose della morte e dell’infinito.
E al tempo del Manzoni, e dopo di lui, erano sorti a dar voci canore a tutti gli affetti, a tutte le mestizie, le speranze, le brame, le ire e le rivolte, le estasi e i presagi, che sempre più possenti agitavano l’anima italiana, erano sorti a disfogare nel canto quella mazziniana veemenza di passioni e d’ideali, uno stuolo di poeti e grandi e minori, onde a nessuna regione d’Italia tacque il verso della libertà e della patria. Il Giusti, il Niccolini, il Poerio, il Carrer, l’Aleardi, il Mamiani, il Mameli, il Dall’Ongaro: qual coro augurale levossi salutando nel suo natale epico la rivendicata indipendenza d’Italia! Pure, se oggi tendendo l’orecchio a quel coro, noi ci rappresentiamo tutta la vastità e la forza del latente conato di spiriti, che venìa maturando le sorti della nazione; se ripensiamo i repressi moti e le riardenti speranze, le dubbiezze e gli sconforti, la febbre dell’attesa, i taciti ardori della preparazione, e i sacrifizj e le lotte, e i delirj dell’apoteosi all’inceder trionfale degli eventi, che aveano alfine trovata la loro via; se noi, dico, guardando a quel concitato e mirifico mondo, a parlar del quale sembra oggigiorno a taluno si parli di una mitologica impresa, vogliamo tuttora coglier nell’alto le voci de’ poeti ch’io venni testè nominando, oh come nei più par divenuto ormai fioco il primitivo suono! talvolta persino là dove ronza ancor agitato da viva mano il satirico staffile del Giusti, come là dove l’elegia dalle sparse chiome traevasi dietro tutta una generazione innamorata de’ suoi flebili accenti, per la peregrina via ove passò l’Aleardi.
Al grande poema, che il patriottismo italiano scrisse nella storia della civiltà, mancò e forse mancherà sempre la concezione immensa dell’epica fantasia. Ma perchè quanto si spazia sotto il patrio cielo il grido fremebondo di quel momento eroico, perchè non vediam noi spaziarsi vasta altrettanto l’ala degli estri lirici? Perchè non ci è dato ancor sentire il palpito di fuoco, che in un ritmo melodico fa sussultar tutti i cuori d’un popolo?
Gli è che in quel coro non udimmo ancora levarsi la voce predominante del rapsodo trentino, il balioso canto del Prati; limpido qual nota argentina di liuto nel silenzio della notte; giocondo qual trillo di rondine sull’alba di giugno; rapido e possente come squillo di tromba guerriera, che infiamma e scaglia i combattenti alla battaglia.
La voce del rapsodo trentino, che quattr’anni prima delle cinque giornate avea sollevato in Milano l’entusiasmo di Cesare Correnti, e fatto balzar tutti i cuori giovanili in un’onda palpitante di pietà e d’amore narrando le sventure di Edmenegarda; la voce nuova del Prati, non ancora trentenne e già celebre, veniva da una regione d’Italia sino allora vergine di poeti creatori, e dove la bellezza e la mestizia, la libertà e la forza dei monti davano ai nervi e al sangue del poeta la più schietta romantica tempra. Dalle alpi trentine veniva la voce del Prati a ravvivare la lirica nazionale con un fresco zampillo di vita nuova, che le altre regioni italiane forse non potean più concedere, dappoichè tanta copia d’ingegni avean data nella prima metà del secolo al rinnovamento della letteratura e soprattutto della poesia.
Era destinato che da quest’ultimo confine del Bel Paese, in questa famiglia italica, per lunga successione di tempi fieri e laboriosi, vessata da tutte le calamità e da tutte le ingiustizie, ma sempre rudemente tenace ne’ suoi originarj caratteri, era destinato si venissero preparando qui le energie di natura, e qui intatte s’accogliessero le qualità dell’ingegno schietto e libero, caldo e scintillante, che il Prati recò dall’alpestre valle nativa a rinsanguare il genio lirico d’Italia. Sì, era destinato che un poeta trentino, quando Lombardia e Toscana, cessata l’opera del Manzoni, del Niccolini, del Giusti, non davan segno che di sterile silenzio, o di ancor più sterile rigoglio d’imitazione, era destinato che un poeta trentino ridestasse gli spiriti della poesia nazionale, nel momento storico più glorioso d’Italia dopo la gran lotta medievale per la libertà dei comuni: nel momento unico e incomparabile, quando, spezzato l’ultimo anello della millenaria catena, quel Dio che tutti i redenti chiamò non più servi, ma liberi, concedeva finalmente al popolo italiano, esule sino allora in Italia, una patria.
Quell’aurora dell’indipendenza, che il Manzoni avea cantata con un Inno inteso da pochi; quel meriggio ardente, che si andò infiammando nel decennio aperto col martirio supremo dell’Italo Amleto; quel crociato labaro, che pur tra il fosco della procella, tra l’imperversar dei disastri, pur sempre raggiava al vigile occhio dei patriotti; quei campi di guerra, dove il sacrifizio di mille madri, di mille spose, e le agonie di un’intera gente di prodi strappavano al cielo il consenso de’ fati eterni; e quegli stupendi baleni di concordia e di pace, che pareano aprire il paradiso sopra l’arca di Pio IX; e poi le dilacerazioni partigiane e gli odj settarj, le sconfitte magnanime e le inebriate esultanze trionfali; tutta questa cavalleresca impresa, senza pari nella storia, qualora non avessimo i versi del Prati, si andrebbe coprendo della nebbia silente, che ogni cosa umana, anche i fasti più gloriosi ravvolge, quando non raggia sovr’essi l’omerico sole dell’arte; o rimarrebbe almen priva di quelle vivaci colorazioni d’anima, che sino alle ultime stagioni della memoria umana serbano ai fatti storici l’immortal giovinezza della poesia. Poichè Giovanni Prati, o signori, valga la testimonianza di Ferdinando Martini, fu veramente il poeta del risorgimento italiano. Quest’alba radiosa deve all’usignuolo di Trento le sue canzoni più vaghe e più melodiche, le sue note più divinamente ispirate e belle, che sino al tardo pellegrino dell’età moderna diranno, come quella era un’alba non di trasognati mortali, ma di spiriti e di numi vigilanti, che giammai non gustarono il sonno.
Il genio del Prati ha queste tre splendide manifestazioni: poeta nazionale, poeta lirico, poeta romantico. Della prima dissi; dirò ora dell’altre.
Poeta lirico per eccellenza, egli stende le musicali penne per l’immenso universo della bella natura, de’ sentimenti umani, della fantasia e dell’ideale. Tutto egli cantò: il fiore dei campi e i transiti degli astri negl’immensi spazj; i frassini del suo monte romito e le maraviglie dei mari; l’odio e la pietà, l’amor celestiale e le tragedie orrende e le furenti orgie del barbaro; i sogni che accarezzano l’origliere della vergine, e le tradite speranze che fan deserta la vita; i ludi dei menestrelli e i romanzi di fantastici cavalieri, e il grido de’ popoli insorgenti e il fragore dell’armi sui campi ove scorreva a fiotti il sangue italiano; le glorie e i dolori de’ grandi, e gli occulti drammi e l’invitta coscienza degli umili; Torquato Tasso e i Campagnuoli sapienti, la Famiglia veneziana e la Cena d’Alboino; bibliche sentenze e arabe novelle, ombre e luce, uomini e dei: tutte le passioni, tutte le esaltazioni, tutti gli spasimi, tutti i delirj, che sul grigio uniforme orizzonte della realtà furono un giorno favilla d’affascinanti trasfigurazioni poetiche.
Lirico per eccellenza, il Prati possedette in sommo grado la facoltà di astrarre da tutto l’universo visibile gli spiriti dell’armonia e della bellezza, che nascosti nel profondo cuore d’ogni cosa creata, parlano di là all’anima del poeta misteriose parole che intende egli solo, e ch’egli solo sa rivelare nel verso; parole che sono al tempo stesso pittura e musica, raggio fiammante e volo eccelso, volo magnifico, levantesi dritto verso il sole, e che lanciato negli altissimi spazj, non ricade in terra giammai. Nella storia dell’arte poetica non vediamo concesso da natura che ben di rado questo volo lirico veemente e gagliardo, che sospeso nell’azzurro, più s’inalza e più s’inebria di luce, e mai non precipita, ma ascende roteando sempre più sublime, finchè pare s’arresti in grembo alla nube sfolgorante, che cel toglie di vista come una divinità che s’inciela. Guai a chi volle cimentarsi a tal volo con ala inadeguata! Guai a chi si ostinò a tentar l’oceano del l’infinito con nervi d’acrofobo, che pochi palmi sopra il suolo vien preso dalle vertigini! Finchè duri al mondo la storia dell’arte, varrà ai poeti l’avviso del maggior lirico di Roma latina agli emulatori di Pindaro. Or bene, il Prati ebbe questo dono miracoloso delle ali canore aperte e ferme, che volan per l’aer, ma non già dal voler portate; poichè la volontà e la ragione sembrano quanto mai si possa immaginare estranee all’ineffabile impulso di quel canto, ch’egli possiede come l’augello possiede il suo, ch’egli espande come espande la rosa le sue fragranze, ch’egli non medita, non elabora, non perfeziona applicando ad esso i canoni dell’arte; ma lascia traboccar dal suo labbro in tutta la sovrabbondanza della vena, quale natura gliel’ha data, limpida e freschissima, brillante e sonora come le cascate che balzan giù deliziose pe’ verdi fianchi di quei suoi monti, ch’egli ha sempre negli occhi e nell’anima. La sua lingua è bene spesso quella che Orazio chiamò lingua magniloquente; il suo estro ha in verità qualcosa del divino, che si adora e non si spiega. Ho chiamato il dono del suo canto miracoloso. Non è una iperbole. Ma gli è che realmente, quand’io mi ripeto alcuna delle più belle liriche del Prati, non so levarmi di mente l’idea d’una qualche potenza sovrumana, la quale invada con l’impetuosità d’una corrente d’elettro il sensorio del poeta, sicchè egli è fatto quasi uno strumento inconscio, donde vibrano sotto una percussione arcana tutte le corde della umana psiche.
Sì, è un dono miracoloso il suo canto. Ed ora mi sovviene come anche il Carducci abbia chiamato un “miracolo di poesia” quella bellissima lirica intitolata Incantesimo, che è tra le gemme dell’Iside. Miracolo di poesia davvero! magica ricreazione di panteismo ellenico, dove tutte le musiche, tutti i profumi e i sospiri di primavera, il chiaror delle notti lunari e la carezza degli zeffiri, le iridescenze della farfalla e gli sfolgorii de’ rubini e degli smeraldi, si mescono in una fantasmagoria di sogno, ventilata da’ molli fiati dell’aura melica.
Infatti, io sento l’onde |
Ma pure in quest’armonica danza d’immagini vestite di nugolette d’oro e d’ambre impalpabili, non v’è solo una folleggiante ridda di fantasmi bizzarri; il lirico movimento dell’ode non nasce solo da un’inconsapevole e irriflessiva concitazione dell’estro, no. V’è un pensiero, che balza fuori improvviso da impensate profondità mentali, quasi ripercotendo la voce dell’eterno Spirito, che dal sommo de’ cieli echeggia nelle viscere dell’abisso. Il poeta che sognava immortali abitacoli in grembo alle stelle, all’acque, ai venti, cogliendo nell’oblio della terra una sovrumana gioia d’amore, trapassa di repente dall’inebriata canzone al sospiro pensoso d’una solenne tristezza antica. Egli medita col savio:
La scïenza è dolore, |
La filosofia pessimista, che dall’India sacra scende pei secoli ad amareggiare perennemente il pensiero dell’umanità, non potrebbe trovare espressione più austera in più concettosa e scultoria armonia di verso. E quanti nelle liriche del Prati non ne incontriamo di questi impensati subitanei trapassi, onde l’idea dalle vaporose chimere folleggianti pe’ ceruli laghi del sogno, può trasvolar d’un attimo alle eccelse vette della sapienza, e assumere la forma di prismatica densità dell’aforismo filosofico!
Quella facoltà visiva strapotente, capace d’abbracciare con un giro d’occhio il poema dell’universo, facoltà propria solo de’ più grandi artefici della poesia, raggiunge qualche volta nel Prati una grandiosità di descrizione ariostesca. E certo anche sotto quest’aspetto ebbe ragione il Nencioni di scrivere, che “nessuno in Italia, dopo l’Ariosto, è nato poeta come il Prati.” In tutta la lirica moderna d’Italia, io confesso di non trovare, per esempio, una levata di strofe che mi rappresenti, no, che mi spalanchi dentro nell’anima l’ideal maravigliosa veduta del mare, come quell’inno, che dall’anima stessa del mare par levarsi inaspettatamente nel secondo canto del poema Rodolfo.
Ed io voglio citarlo, per dimostrare qual rarità di perle vere si trovino mescolate alle false, in questo poema del Rodolfo; come non poche se ne trovano e nel Conte di Riga e nell’Armando e nell’Ariberto; poemi, questi ultimi, che il poeta volle ragionare, e che perciò non gli riuscirono, e furono condannati dalla critica, non a torto, come genere falso. Ma a torto la critica trascurò di sceverare in essi dall’ibrida accozzaglia metafisica e psicologica gli squarci di lirica che vi sono sparsi, e che rivaleggiano con le più belle liriche che il Goethe ha sparse nel suo Fausto.
Ah, la critica! qualche volta è proprio quella che avrebbe il maggior bisogno d’essere criticata! E bisogna badar bene a non fidarsi di lei, quando mena troppo in fretta la sua falce fienaia. Troppe volte le accade di far fascio dell’erba e dei fiori: e quanti fiori immortali avrebber dovuto disseccare così alla rinfusa, se il buon gusto, inerudito e sincero, non avesse fatta la scelta!
Ma ecco le strofe, delle quali nessun critico del passato, forse, ha mai intravveduto lo splendore; e che cantano il mare come nessun poeta del presente, forse, saprebbe cantarlo:
O mar, gloria di Dio, su cui la danza
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Ah, signori, lasciamo che i critici d’arte giudichino quanto si distacchi, quanto s’assomigli il poeta nostro, nella spontaneità e nell’armonia pittrice del canto, al Lamartine, all’Heine, al Moore, allo Swinburne, al Tennyson. Rimarrà sempre per l’equazione dei rapporti qualcosa d’irriducibile, che il cielo d’Italia e la lingua di Dante dettero al canto del Prati: gli rimarrà sempre la magnifica semplicità delle cose che in natura nascono belle.
Un grande poeta lirico è un veggente dall’occhio divinatore e dalla parola profetica, il quale vede di là dai tempi le cose che verranno, e spesso annunzia ciò che si nasconde ancora in grembo al destino. Nè questo altissimo dono d’ispirazione mancò al genio del Prati; il quale, accompagnando col suo canto trentacinque anni di storia del risorgimento nazionale, fu talvolta verace profeta; e ben disse un suo illustratore, che ne’ suoi Canti politici egli ebbe per la patria “ammonimenti terribili e presagi stupefacenti.”
I grandi poeti lirici delle età sociali creative, portaron sempre con sè un raggio di fede, vita dell’anima; ebbero sempre dominante nel fondo della loro natura e inestinguibile il sentimento religioso, fonte d’ispirazioni sublimi; possedettero la coscienza morale dell’uomo retto, che è il principio del decoro dell’arte; possedettero l’in genuità dell’eterno fanciullo, che sola fa mirabile l’universo; e possedettero tenerissimo quel senso di pietà e d’amore, che tutto l’universo abbracciando, converte l’io del poeta nel tempio dell’umanità: ora tempio votivo di lacrime e d’inni e di consolati dolori, ora paradiso di sogni natanti per oceani di delizie alle rive della bellezza e della gioia. Or bene, tutto questo mondo, tutta questa vita interiore, grandeggia luminosissima sempre nella credente, amante, ingenua e schietta anima del Prati. Ed è ben questo il principio creativo sovrano, da cui nascerà la sua poesia originale più bella. Nascerà il canto patriottico, perchè l’ideale della patria è nell’essenza sua più pura un ideale evangelico: carità verso il passato, sacrifizio del presente, fede nell’avvenire. E nascerà l’idillio vero, la poesia della famiglia, la più intimamente sentita, la più altamente umana, casta e serena, tenera e veneranda: quella che meglio d’ogni altra fa manifesta tutta la delicatezza e tutta la sensibilità, onde par che mille cuori battano nel cuore del vate. E voi, quanti nasceste capaci di sentire questa poesia abbellitrice dei domestici affetti, dite, dite se un tripudio pensoso di madre che stringesi al petto il suo figliolino, potrebbe trovare un accento più carezzevole e più soave, più materno di questo, che udiamo commossi ricercarci l’anima dal commosso labbro del poeta. Egli canta il fanciullo:
Primavera dell’uom, quanto sei breve!
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La poesia lirica è poesia universale, che tutte abbraccia e s’incorpora le varie specie e forme della poetica creazione, dall’inno al dramma, dall’elegia all’epopea. Esempio unico e perfettissimo nella letteratura nostra, il carme dei Sepolcri. Ma esempio da citarsi tra’ più cospicui anch’esso, il canto del Prati: non per la sovranità dell’arte, bensì per la polifonica varietà d’un gamma melico, che quanti sono i sorrisi e le lacrime ogni dì rinascenti sotto il sole, a tutti ha dato una nota; e di tutte le voci intime delle cose fece risonar l’accordo con incomparabil ricchezza di metri e di rime, con tale una fecondità d’ispirazioni e di melodie, da poterla paragonare alla poetica facondia d’Ovidio: del quale si dice, che qualunque cosa gli uscisse di bocca, avea naturalmente la forma del verso.
Il mero poeta lirico è un primogenito favoloso, senza agnazione, senza successione, generato da inconcepibil seme, come nel greco mito la dea che nasce dalle spume del mare. Egli non ha padri, egli non ha maestri; non deriva che da se stesso. Sua genitrice è la vergine natura; suo animatore è Dio. Quando osservo il poeta drammatico o il poeta epico, la sua parentela, le sue derivazioni mi sono palesi; ma quando osservo un originale poeta lirico, dond’egli derivi io non veggo. E la non è cosa da poter qui pertrattare come si farebbe in una lezione di critica letteraria; ma chi voglia studiarci sopra, vedrà facilmente da sè (e forse l’ha già veduto), che un sommo poeta lirico, nel suo innato ed essenzial dono, che è l’ispirazione, mai non presenta un anello di concatenamento, anzi rompe la catena tradizionale, onde si perpetua nella letteratura una data varietà della specie poetica.
Così è del genio lirico del Prati, che nè di ereditario, nè di composito, nè di amalgamato, come genio lirico inventivo — si badi bene, dico come genio lirico inventivo, non come artefice del verso — non presenta in sè alcun segno. Di tutte le cose ch’egli mira e intende, non assorbe se non quello che viene spontaneo dal mar palpitante dell’essere ad accarezzare i suoi occhi e l’anima sua armoniosa. Egli non ha bisogno d’andare in cerca della bellezza; la bellezza dell’universo corre a lui da sè, desiosa ch’ei la contempli e le dia una loquela. E in questo egli, per la sua orfica virtù, ha nell’universo della sua fantasia un impero ben più felice che non i grandi poeti pensatori e gl’inarrivabili artisti della melopea, quali un Foscolo, un Leopardi, un Monti; ben più felice che non l’avesse la stessa incommensurabil mente filosofica di un Manzoni, poeta dell’infinito. Io non ardirei mai di cercar le ragioni dell’arte pratiana, la quale fuori del suo magico cerchio non conserva più il suo prestigio, paragonando il tridentino aedo a questi sovrani epigoni della famiglia dantesca. Ma bensì ardirò dire, che in questi e in altri poeti sovrani, attentamente cercando, trovo le affinità ereditarie, in ciò ch’essi hanno derivato alla propria natura, ai proprio genio, dai loro predecessori; in ciò che si sono dalle opere di questi assimilato, non nell’attitudine solo dell’elaborazione materiale, ma altresì nell’attitudine del concepire, nelle stesse forme embrionali del pensiero. Scorgo in que ste famiglie di poeti il filone atavico; ho sott’occhio, pur nelle singolarità originali onde ciascuno si differenzia, il costante riprodursi d’una plasma, nella quale certe affinità elettive della ragione e della fantasia costantemente ricompariscono. Mi ricorrono in mente e i poeti greci e i latini e i caledonj, gl’innografi medievali della Chiesa e la Bibbia, il mito e la storia, la classica paganità e il neogentilesimo del rinascimento; ho insomma davanti a me quasi un prezioso antifonario custodito da mille anni, nel quale i poeti pensatori hanno decifrato il corale, per cantare con voce nuova gl’inni della terra e del cielo.
Ma dite, o signori, chi ha insegnato al fanciullo di Dasindo, errante per boschi e pascoli, fra gli echeggiati tintinni delle mandre e il tripudio delle cacce, chi gli ha insegnato a tender così le intatte e gagliarde sue fibre di poeta, che a guisa d’un organo sonante, bevendo la grand’aria di montagna, s’apprestasse l’anima sua a sinfoneggiare e tutta nella pienezza de’ suoi accordi rendere la sublime poesia del monte? Chi gli ha insegnato ad armonizzare in un concento etereo il mugghio dei turbini e i fragori degli abissi con le canzoni pastorali e i trepidi belati delle agnelle e lo stormir de’ faggi e l’aliar di celestiali piume? sì che tu odi in questa nuova musica, non mai prima cantata, fondersi in una sinfonia maravigliosa le sampogne teocritee e le virgiliane, la cetra dei bardi e le arpe ossianiche, e il corno di Roncisvalle, e le avene boscherecce e il canto dei tre fanciulli, che nell’amenità del mattutino svegliarsi in riva al chiaro fiume, riconfortò la smarrita dolente Erminia?
Chi mai ha insegnato al bardo ventenne, che con Elina al cembalo riprendeva i motivi schilleriani di Laura alla spinetta, chi gli ha insegnato a scostarsi del tutto, fin da que’ primi passi, dalla scuola de’ maestri nordici, attraendo in sè col gran calor del suo cuore tutti gl’idoli della fantasia, dopo che per inseguirli i nordici maestri avean dovuto spandere il cuore e la fantasia per tutto quanto l’universo?
Chi ha insegnato a Giovanni Prati, poeta civile e politico, che non avea in Italia predecessori fuor de’ petrarchisti, a cantare l’indipendenza italiana così disimpacciato dagli ostri regi del Filicaia, come inetto a’ vezzi chiabrereschi, e pur di tanto vincendo il Fiorentino e il Savonese, quanto i tesori di natura vincono la ricchezza dell’arte? e facendo dimenticare qual copia esuberante di melodia e qual novità di ritmi ed eleganza di flessuose modulazioni era decorsa pe’ chiari fiumi arcadici, garruli e gonfi di pindariche e anacreontiche linfe?
E chi mai finalmente ha insegnato al tridentino Orfeo quello che seppe egli solo: con la musica dipingere il sogno?
Vollero ch’egli byroneggiasse, vollero che pigliasse a prestanza nelle ballate il plettro dell’Hugo e del Bürger. Ed è vero. Egli s’è fatto prestare quanto gli occorreva anche dal Foscolo, anche dal Leopardi, anche dal Lamartine, anche dal Carrer, anche, oh quanto! dal Manzoni. Ma che vuol dire? Il plettro sarà d’altri, ma le corde, ma tutte quante le corde son sue. Ed egli può ben lasciare che qualche volta un coro d’estranee voci si alterni ai suoi assoli; tanto, quella che domina, quella che sola sentiamo andarci al cuore, sarà sempre la voce sua. Del resto bisogna pur dire, che se talvolta egli s’atteggiò alla Byron, l’aria poteva darsela, ma l’aria sola. E a spiegare quanto poco di congenere in fatto di temperamento potesse avervi tra il romantico inglese e l’italiano, basti questo: che i cantore di Childe Harold andò a morire per l’indipendenza greca, e il cantore d’Armando, una notte ch’era a Campo, e corsero a dirgli che a Dasindo — pochi passi lontano — la casa de’ suoi bruciava, nemmen si mosse per alzarsi da letto.
Ma tornando al poeta, nulla sembrami più evidente a provare l’originalità schietta, sto per dire esclusiva della sua ispirazione, del fatto ch’egli, romantico, ha potuto essere anche originalmente classico, nello stupendo Canto d’Igea — “un’eco d’Esiodo o di Lucrezio, nel secolo decimonono,” ha scritto il Nencioni, e non so propriamente che cosa intendesse dire. — Or bene, io non cercherò un paragone così lontano, e con due poeti de’ quali il critico non avea forse sott’occhio il testo; ma piglierò per esempio un’altra ode stupenda, La vita rustica del Parini, con la quale il paragone posso farlo io e lo possono fare tutti. E dico: chi mai, tranne un Prati, avrebbe saputo creare sullo stesso tema greco o latino, come latino o greco potrebb’essere l’ercole dei campi, che mentre io scrivo ara la terra sotto la mia finestra, chi mai, dico, tranne un Prati, avrebbe potuto cantare su questo tema stesso, che fu prima pariniano e sembrò insuperabile, un canto così nuovo, così unico, e che nessuno mai imiterà?
Si ponga mente a questa originalità maravigliosa del lirico di Trento, a questa originale facoltà d’ispirazione, genuina e pretta fontana aperta a lui nella mente da quella mano medesima che aperse la fonte del latte nel seno materno, e per comprendere che cosa voglia dire esser poeta a questo modo, si faccia un altro confronto. Si legga nel Prati, nei suoi Canti politici, la lirica ispirata che canta l’Anniversario di Curtatone, e poi si passi a un’al tra lirica, che pare le risponda com’eco anche con le sue strofe binate di settenarj sdruccioli e piani: la lirica Per il quinto anniversario della battaglia di Mentana, che volò come saetta liberata dal pugno di Enotrio Romano, efebo arciero della nuova trionfale giornata classica.
Ma chi mai oggi si trova ad avere a mano i Canti politici del Prati? Sarà meglio porlo qui sottocchio a chi scorre queste pagine tutto intero il Coro marziale. Anche per ricordare, che se il risorgimento italiano avrà la sua Tragedia epica, solo nelle rapsodie pratiane sarà dato al poeta avvenire intender le misteriose voci del Coro accompagnante nell’ascesi spirituale tutto ciò che dal mortale dramma sale ad eternarsi nell’Idea, che mai non muore.
Anniversario di Curtatone
Quando la fredda luna
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Da questo epinicio romantico e cristiano, si passi ora agli Epodi del vate, le cui strofe al ciel vibrarono “come rugghianti spade,” sbaragliando per sempre le pallide nebbie dell’ultima fase del romanticismo italiano. Giosuè Carducci, già grande, s’avanzava superbo titano a dardeggiare il libero campo paganamente riconsacrato alla dea natura. Ma per quel libero campo, l’onda sonora delle melodie pratiane dovea tuttavia oscillar ben possente, se il classico autore delle odi barbare non potè sottrarsi alla sua vibrazione, che viva ritorna nelle strofe dell’inno Per il quinto anniversario della battaglia di Mentana:
Ogni anno, allor che lugubre |
E se i carducciani nervi d’acciaio, sotto al sorvolante soffio lirico romantico, mandarono ancora sì veemente suono, convien dire tenesse quel soffio alcun che della vitale aura divina, la quale, dovunque spira, infonde l’anima e crea.
Quando una stagione letteraria produce un frutto opulento e copioso quale nell’ultima stagione romantica il Prati, non è a sperare null’altro dalla sua feracità; le sue energie sono emunte, i suoi succhi sono esausti. E chi ne vuole la prova, vegga se gli riesce di risuscitare accanto ai versi vivi del Prati, i versi morti dell’Aleardi. La vita di quei versi è nel cuore del romanticismo, nell’infocato palpito della ideal verità, che incarnandosi inviscerò nell’arte la natura, e divenne passione.
Dal vario clima e dal vario suolo in cui avea poste le sue secolari radici, la pianta del romanticismo ricevette quel vigor vario d’umori, che produsse nelle letterature europee la fioritura più moltiplice, strana e brillante: dalle fantasie sentimentali del Young all’eclettismo pan-romantico di Augusto Schlegel, dall’eslege naturalismo iperboreo, che compì la sua rivoluzione nei Masnadieri, nel Manfredo e nel Werther, alla rivendicazione del buon senso e della realtà oggettiva nell’opera dello Scott. In Italia, e segnatamente nella Lombardia, il romanticismo si radicò nel terreno suo più felice, più sano, dove in tutti gli elementi buoni di natura e nelle libere forze erano originariamente compenetrati i germi immortali della verità e della libertà cristiana. Per questo la feconda passione romantica si elevò qui ad ideali divini. Per questo il libero ingegno, che vedea abbattute intorno a sè tutte quante le barriere di scuola, di accademia, di convenzione, e dato alla fantasia il dominio del mondo, potè abbracciare in una stupenda esaltazione d’amore la vocazion sua più eccelsa di banditore del vero e rivelatore del buono e del bello, di educatore della società e consolator della vita. Il Goethe sanciva implicitamente questa letteraria e storica verità, quando sentenziò: il romanticismo essere un genere morboso fuori che nel Manzoni. La sentenza, nondimeno, esclude troppo; e basterebbero due nomi a confutarla: il Porta e il Grossi.
Il Prati, ricca e magnifica palma signoreggiante sulla flora estiva e autunnale del romanticismo italiano, aduna in sè con una sincerità ch’io non saprei fra i poeti dove trovar la più schietta, e con tale pienezza di energia e tal calore intimo, che poche volte nella storia letteraria ha riscontro, tutte le qualità di natura volute perchè l’arte romantica avesse a dar frutto sano e vitale.
Quale la stagion sua e il suolo lo doveano produrre, tale egli fu; e con la sopraffacente padronanza della sua indole, della sua tempra indomita di natura, egli tenne il campo a lui sortito, e inviolabilmente rimase fedele a sè stesso, alle sue virtù e a’ suoi difetti, per quanto cangiare di gusti e rovesciar d’idoli e tempestar di critica s’andasse facendo intorno a lui.
Chi rimproverò al Prati la troppa mestizia, non pensò che egli, nato poeta romantico, non potea essere il cantor della gioia. La gioia è dell’arte pagana classica e della cortigiana; nell’età di Pericle e nel cinquecento è la gioia dei marmi, de’ colori, delle rime; ma le catacombe e il medioevo non conoscono il riso ellenico; e nè Dante, nè i romantici sono gioiosi. E chi rimproverò al Prati troppi dolori, potea rimproverare a Dante troppa ira, troppa cupezza, troppi tormenti. O che forse è il poeta che va in cerca del dolore? No. È il dolore, è tutto il dolore dell’universo che va in cerca del poeta, che vuol concentrarsi nel suo cuore, perchè ivi solo il sospiro diventa idea, e le lacrime delle cose parlano umana favella. Che se questo non fosse, come mai avverrebbe sia così mesto il Foscolo, vate greco? come mai troverebbe il lutto degli eventi voci di desolazione davidica nel Monti, poeta classico? come mai l’odiata tristezza della vita pur prevarrebbe nel Carducci, poeta pagano?
Nato romantico, il Prati fu pure un grande innamorato della morte. Quale festa di sole e di rose, quanta ricchezza di gemmati monili, e che soavi canzoni e dolcissimi inviti d’amante, quand’egli muove incontro a questa principessa de’ pallidi regni, a questa bellissima vergine, che di là dal sepolcro lo aspetta agli eterni imenei!
Dea circondata di tristi larve |
E rinnoverà con lei le rimembranze gioconde, e rivivrà i sogni della giovinezza, tutto il fervido e trionfal sogno della vita:
Sognar le verdi mie primavere, |
L’amorosa morte, la signora de’ vaghissimi sogni, raggiante d’immortal giovinezza, è la musa sua. Ed egli con questo antico nome saluta l’ispiratrice. Poichè il Prati è romantico a tal segno, che nemmen si curò di ripudiare l’antica musa — quella che il Manzoni ripudiò, ma che fu più forte di lui, perchè, mentre volea sopprimerla, non riuscì che a cangiarle il nome. — Il Prati fu più franco, e ruppe meglio la convenzione. Non cangiò alla musa l’antico nome, ma lo dette a una bellissima fanciulla; e questa, ch’era la musa sua, sua e non d’altri, questa sola egli amò, e sempre a lei rimase fedele. Che faceva mai s’essa portava un nome antico? era come una fresca e leggiadra giovanetta, che nella famiglia porta per un caro tradizional ricordo il nome dell’avola sua.
La poesia e l’amore della morte, il bisogno quasi d’avvezzarsi a vivere insieme col suo pensiero, d’allontanarne ogni pauroso e freddo senso, sparpagliando le vivide rose e i gigli sui prati del mesto asfodelo, camminando verso le tombe come a un talamo di delizie, non era solo una fantastica vaghezza, una simpatia di moda, diremo così, o un vezzo prediletto del poeta. No; era prima che del poeta, un sentito bisogno dei tempi. I tempi dimandavano la poesia e l’amore della morte. La patria chiamava, la patria chiedeva a drappelli, a legioni, i figli giovanetti, la speranza delle madri, il sospiro delle fidanzate, per guidarli incontro al nero fato sui campi di battaglia, dove gli aspettavano le gelide notti senz’alba, gli amari viaggi senza ritorno. E le fidanzate e le madri non potean più ripetere senza un tremito nè una lacrima, cingendo la spada ai partenti: Vi rivedremo o vincitori o morti. Non erano spartane viragini, non erano greche statue, le eroine d’Italia cristiana.
Bisognava dunque che la morte cessasse d’impaurire, cessasse di dimorar sotterra co’ lemuri e co’ fantasmi. Bisognava ch’essa entrasse nella vita a convivere familiarmente co’ giovani ardenti e belli, con le floride fanciulle; lasciasse l’ombre de’ cimiteri per assidersi alle mense convivali coronata di mirto, e venisse a danzare vestita di candidi veli ne’ balli della vigilia. Perciò il poeta era nato ad amare di amor costante e a cantare bellissima fra le belle la Morte. — Oh lui felice, che potea dare ai tempi ciò che i tempi gli chiedevano! — Poichè, o signori, c’è questa differenza immensa fra i tempi nostri e i tempi del Prati: oggi è il poeta che ha bisogno della società; allora era la società che avea bisogno del poeta. Quella società, quegli uomini chiedevano speranze e illusioni, oblio del reale e fantasie, tripudio di conviti e d’armi, estasi di amore, gioia di vivere e gioia di morire. Credevano nell’avvenire, nella gloria, nell’immortalità, nella patria e in Dio. Sapevano gustare così un impeto di furore, come la carezza d’un sogno; la sanguinosa vendetta di un’ingiuria, quanto il conforto della preghiera e la pia tenerezza della benedizione materna.
E quella società così giovane e balda, così entusiastica, spensierata e appassionata, che con gli occhi fissi in una meta, invasa da un’eroica follia di martirio e di gloria, correva anelando e palpitando alle cruente agonie quasi a festa nuziale, voleva che tutto quanto questo goliardico poema fervente nel suo petto, risonasse come un gran coro universale sotto il cielo azzurro, dall’alpi alle marine, per tutta la sacra terra cui gli eventi approssimando mattinavan sull’alba del dì fatale il divin nome di Patria.
Ai morituri dell’italico Antela non giovavano le cetre appese ai salici; ma dardeggiati in fronte da quell’astro medesimo che illuminò un giorno dietro la fuga de’ barbari cavalli tutto il francato Ellesponto, essi voleano che Simonide risalisse il colle trionfale, e dalla lira tremante sull’infiammato petto liberasse la foga degl’inni, già palpitanti in ogni cuore, già incalzati dalla piena d’unanimi sentimenti a prorompere in coro nell’istesso punto da mille bocche, prima ancora che il verso del poeta li vestisse d’un pensiero sonante.
Beatissimo il vate che in tal giorno comparve! Egli è veramente l’aspettato e il profeta. Egli è l’antelucano raggio e la primavera de’ tempi. — Anche l’ottobre ha talvolta notti dolcissime di luna sulle montane convalli odoranti di madreselve e di ginepri. E il viandante solitario che cammina nel silenzio della chiara notte, tende senz’accorgersi l’orecchio, quasi debba udir tutt’a un tratto dal folto d’una macchia ombrosa scaturire la soave nota dell’usignuolo. Ma quella nota non s’ode; il silenzio si mantiene profondo, non interrotto; è vano aspettare un gorgheggio che risponda alle stelle. E il viandante che sen va silenzioso verso la pianura, si ricorda che è autunno, e che lunghi e lunghi mesi di triste inverno dovran passare prima ch’ei possa udir di nuovo nella placida notte spandersi soavemente il canto dell’usignuolo. — Tale la primavera ultima di nostra gente. Ebbe il suo canto d’usignuolo; poi non lo udimmo più. Altre stagioni vennero; venne la bollente estate rivoluzionaria in filosofia, in politica, in arte; ed anch’essa ebbe i suoi canti. Ebbe i carmi fallici sortiti agli orgiasti della ribellione e dell’odio; ebbe i febei canti dei Iuvenilia e dei Levia Gravia; intese sussurrar voluttuosi ne’ mirteti gli autunnali idillj delle Primavere elleniche, e assistette al trionfo delle Odi barbare; ma più non udì, ma non ricordò più le note dolci di primavera. E se ancora una dolce ingenua nota levavasi qua e là, quasi eco solitario della gran maggiolata popolare romantica, somigliava essa al canto del vago augelletto, che il Petrarca udì sull’autunno cantare o piangere il bel tempo passato. Levavasi dal panteismo classico instaurato nella natura, una vasta nota di poesia morente; e via pel cielo freddo migravan gli ultimi sogni, bianco stormo di cicogne tardive, sopraggiunte dall’inverno glaciale.
“Oggi una pallida |
Così s’intonava con le nebbie plumbee della maremma la lucreziana monodia, che coperse con le sue note possenti gli ultimi echi delle lire romantiche.
Ma ne’ canti che dettero la nota dell’usignuolo alla primavera d’Italia, ma negli agili e melodiosi gorgheggi della lirica pratiana, il tedio e lo sconforto, la stanchezza pessimista e negatrice non aggreva la voce del poeta giammai. Bensì egli, l’antico fanciullo sempre innamorato de’ suoi fantasmi, canterà nel suo pallido tramonto, accigliato in disparte e solo:
Sul vecchio mondo la faccenda nova |
Bensì quando vedrà fatta intorno a sè, in un mondo che più nol capiva, la tetra solitudine e l’abbandono, e vedrà tutta la schiera folleggiante delle sue canzoni dileguarsi in silenzio via per le verdi plaghe già rifiorenti d’allori invidiati ai nuovi corifei del classicismo trionfante, l’antico trovatore delle Alpi, preso da uno strano e malinconico desiderio d’esulare anch’egli alle beate sponde di Citera e d’Amatunta, sospirerà:
Oh quando |
L’amaro verno coi dì solinghi, |
Di false glorie, di falsa pace, |
“Sarò quel giorno biancovestita |
Io dovrei toccare alquanto di ciò che v’ebbe di men sodo e men nobile nella tempra di Giovanni Prati artista — dico artista e non voglio dire virtuoso, perchè questo termine fu rimesso in uso al tempo che i celliniani virtuosi del verso non conoscevano che se stessi, e dell’arte del Prati più non comprendevano la virtù vera, che fu l’amore e la sincerità. —
Quando i maestri d’estetica, che sapevano tutto quello che si facevano, salirono ad addottrinar dalla cattedra le nuove generazioni già avviate a perder del tutto l’ingenuità del gusto poetico naturale; e agli entusiasmi del popolo poeta tennero dietro le sofistiche di scuola e le polemiche rivoluzionarie, dove i letterati deboli impararono una volta di più in che consista il diritto del più forte, e gl’ignoranti impararono come la letteratura si presti anche a tutte le villanie e a tutte le impudenze; quando cominciarono i lunghi studj per venire a conoscere se la poesia sia di fatto qualche cosa, e se l’arte possa realmente avere uno scopo, allora anche la musa del Prati cominciò ad essere sottoposta a serio esame. Vennero gli occhiuti critici armati de’ lor ferri, e cominciarono a lavorare di bisturì e di specillo. E una delle lor prime scoperte si fu quella, che la musa del Prati non reggeva ai lunghi poemi nè ai filosofici. Scoperta ingegnosa davvero, e sottile da quanto quella, dovuta a non so chi, che il Cinque Maggio, composto in una notte, sia da considerarsi come un parto d’ispirazione alquanto men laborioso della Messiade del Klopstock, che a nascere impiegò trent’anni.
Poi si scoperse che la musa del Prati era troppo fantastica, troppo ghiribizzosa. Ma c’era chi pensava tutto l’opposto. E al Camerini, che pure avea sostenuto da buon cavaliere il duello della critica in difesa del poeta trentino, ma forse non avea udito mai il grido degli uomini scender giù dai monti di Bezzecca, saltò un giorno il grillo d’attaccare alla musa del Prati una certa proboscide di elefante, fabbricata tutta di suo genio, perchè gli pareva che così fosse più naturale; essendoché una musa che dagli animali nulla togliesse a prestito, non era ammissibile, secondo il ragionamento ch’egli faceva, potesse venir giù da quei monti medesimi “donde non solevano venire che gli orsi.”
Troppo fantastica, secondo alcuni, troppo vaga, troppo vaporosa, la musa del Prati. Egli si dipartiva troppo dalla realtà delle cose, era un allucinato, un visionario. Gli vantavano al paragone un’arte più solida, più incarnata di fatti positivi, di scientifici veri, di storia, di letteratura, di fisica e di metafisica. Erano a quel tempo venuti a piacere i manuali di mitologia messi in versi; e a quelli che non poteano capire come la Conchiglia fossile era una bellezza appunto perchè non era precisamente una conchiglia fossile, pareva una gran novità il rimario applicato alla mineralogia e alla botanica. Ora, io sono ben lontana dal dire che non avesse anche quest’arte nuova tutto il diritto di farsi largo. Ma dico pure, che oggi di quest’arte s’è ormai veduta co’ nostri occhi una gran decomposizione. La mitologia è tornata ne’ manuali; la mineralogia e la botanica si amano meglio in prosa schietta; non sono rimasti che de’ versi preziosissimi, e delle rime un po’ lambiccate.
Ma della lirica di Giovanni Prati, no, che non la si è veduta fare la decomposizione. E colui che ne tentasse l’esperimento, tenterebbe ancor oggi d’uccidere una cosa viva. Poichè, nè un cuore che palpita, nè un’anima che arde, nè il pianto, nè l’estasi del vate, no, non è dato, o signori, nè sarà dato mai alla critica di decomporli.
Io non saprei nemmeno se si possa dire assolutamente con qualche altro critico più assennato, che il Prati abbandonava troppo gli uomini per i fantasmi. C’è tanta umanità, sempre, in lui! Vi sentiamo così frequente la consapevolezza d’un cuore che ha amato, e fors’anche sofferto, di un’anima tutta intesa ad accogliere in se le voci fraterne, presente a sentirne il gaudio e lo spasimo, pronta a vibrare ad ogni commozione che agiti i petti umani, ad ogni onda di pensiero e d’affetto, di gioia o di dolore, che sollevi l’anima del popolo!
Finalmente i maestri lo avrebbero voluto più colto. Gli consigliavano di studiare, di rifarsi a’ classici modelli, di addottrinarsi alla grande scuola de’ filosofi. Nè, secondo la loro vista, avean torto. Ma, secondo la natura delle cose, che qualche volta sfugge alla critica, bisognerebbe sapere se il mero poeta lirico possa di fatto mettersi a scuola presso i maestri di filosofia. Ed io vorrei anzi mi si dicesse, se si può affermare che per il mero poeta lirico vi sieno mai stati maestri. Virgilio ha ben potuto cominciare imitando e anche copiando Teocrito, come il Monti cominciò imitando il Varano, e il Manzoni ormeggiandosi sul verso del Monti. Ma Orazio sa che non è concesso batter l’ale un’altra volta per le nubi ove altissimo vola il cigno dirceo; e piuttosto che cimentarsi dietro quell’unico signore dell’aria, si contenta di rivelare da sè al mondo, attendendo agli operosi carmi, una nuova grandezza.
Guai se il Prati avesse dato troppo retta a chi lo mandava a studiare. Quando si ostinò a lavorar di cerebro, le psicologie de’ suoi poemi drammatici e simbolici dicono che, pensando, egli cessava di cantare. Un poeta nato così, non ha le cellule del cervello organizzate come quelle del matematico, che in tutta quiete e a tutte l’ore può mettersi dietro alle sue operazioni. E non ha nemmen sempre le pulsazioni del cuore così regolari come quelle di un uomo normale che riposa nel suo letto. Un poeta nato così, somiglia a un estatico; quando il nume agitante, il demone armonioso lo invade, allora comincia il suo rapimento. Alienato dal mondo, alienato da se stesso, egli entra nel superno regno della visione.
Tale, quando poetava d’ispirazione, il poeta nostro. Con un arpeggio facea palpitar d’amore tutto il creato; e avrebbe dovuto confondersi e decifrare i neumi della logica e dell’estetica? Ora egli canta sveglio, ora addormentato, sì; ma canta sempre; e la sua bocca è un favo colante di belliniana dolcezza.
Chi fosse stato presente mentr’egli così cantava, dovea stupirsi, io credo, che dalla sua bocca uscissero sensate parole. Poichè il suono del verso era dapprima nella sua voce come un sordo mugghio: sì, se ben ricordo, lo dice proprio stronfiare e mugghiare il Dupré, nella sua lingua d’oro. Il ritmo lo sentiva venir più facile col moto del suo passo, camminando, o gliel davano i rumori de’ quali andava in cerca quando componeva: il via vai delle strade, l’intronamento d’una filanda, il rombo d’una macchina. E la voce, ritmata così, prendea forma di parola; e nella parola ecco lampeggiar come fulminea scintilla in grembo alla nube tonante, l’idea rivelatrice, l’idea fatidica; ecco traboccar nella strofe, com’onda infocata, il fiotto della passione, scaturiente su dagli abissi dell’universo concentrato in un cuore.
Chi indagherà un fenomeno tale con la semplice scorta della critica letteraria? Io ascolterei più volentieri l’antropologo e l’alienista, che mi parla di stupefacenti fenomeni nervosi e psichici; ascolterei perfino colui che mi parla di misteriose ipnotiche suggestioni. Ma il Prati non era nè un debole di nervi, nè un infermo di cervello; era una tarchiata complessione di alpigiano giudicariese; e se qualche pazzia ha fatta, la fece altrove che ne’ versi. Signori, ringraziamo i nostri monti, che alle sante muse non danno nè de’ nevrastenici, nè degli epilettici, nè de’ paranoici.
Ma non furon solo le grammatiche e i vocabolarj a scagliarsi contro il poeta. Le critiche stolte e maligne di chi avrebbe potuto capirlo, e le critiche ragionevoli di chi nol potea capire, furono il rovello della sua vita; e, tossico peggiore, l’indifferenza, i calunniosi sospetti, l’aperto disprezzo e anche le derisioni della colta gioventù, ch’egli, nel suo dechino, non poteva ormai più nè interessare nè divertire. Tutto ciò gli venne amareggiando nell’età sconfortata l’animo orgogliosissimo e assetato di plausi e di fama, l’animo sempre giovanilmente entusiasta del poeta romantico, al quale sempre furono raffinamenti di spirito ignoti lo scetticismo e l’apatia e lo stupido riso di chi sa tutto schernire.
Pure, anche questo rovescio d’amaro non fu per lui, generoso, la trista onda che soffoca e smorza; fu tanta pece e zolfo gittato sulla fiamma, che con guizzi e crepiti divampò vie più tremenda. E ne divampan tuttora que’ versi fieri a’ suoi mevj e detrattori, in La mia cronaca di poeta, il calunniatore, Dolori e giustizie, e in altre liriche, dove freme un nobile corruccio e fuma la bile di Archiloco. Gli amici suoi auguravano ch’ei si fosse potuto abbattere in critici amorevoli e temperati. Può tuttavia venire anche il dubbio: gli avrebbero giovato gran che? Bensì gli giovarono i rivali astiosi, i critici falsi, i sopracciò presuntuosi e sciocchi; gli servirono come Marsia ad Apollo: a inventare qualcosa di nuovo, affinchè imparassero i mortali come un nume si vendica d’un satiro.
Dissi da principio, che dopo aver osservato il Prati come poeta che appartiene alla letteratura e alla storia della nazione, avremmo finalmente osservato l’aspetto più caratteristico, e per noi Trentini più glorioso, ch’egli presenta come poeta regionale, come figlio della terra nostra.
Le onoranze che Trento oggi gli rende, hanno un alto significato civile che ognuno di noi sente parlarsi in cuore, e che forse solo una tacita commozione può esprimere appieno.
Noi onoriamo il patrio poeta, gloria delle lettere italiane, le cui sembianze, come l’èrma sacro d’un Indigete tutelare, speriamo si adergano tra breve a perennare la presenza di lui sulle rive dell’Adige che Virgilio cantò, presso il glorioso monumento di Dante: presso questo supremo simbolo civile, che l’inviolabile ideale della patria armonizzando con l’amore universale dell’umanità, dice, che fra l’italiano e lo straniero baluardi non sorgono, quando reciproci mallevadori e liberi custodi de’ proprj diritti, veracemente la giustizia faccia sì che i popoli possano chiamarsi e sentirsi fratelli.
Ma noi onoriamo altresì nel patrio poeta il tipo eminente, in cui più cospicue risplendono alla luce del genio le caratteristiche etniche e psicologiche della nostra stirpe; una glorificata sintesi di quelle impronte di razza, che la santa natura sigillò nell’anima nostra, perchè non possa smentirsi in eterno la genesi nazionale della gente trentina. L’intera opera poetica del Prati è quasi uno sfavillante cristallo, donde tutta la nobiltà e la genialità del nostro popolo traluce con iridescenti scintille di gemma.
Nè io temo che questa mia affermazione possa sembrare a nessuno frivola o vanagloriosa. I veri figli della terra trentina non possono essere vanagloriosi; le patrie sorti hanno provveduto a dar loro l’austera educazione della lotta e dei sacrifizj. I veri figli della terra trentina non possono essere frivoli; hanno sofferto troppo.
Ma in mezzo a tutte le nostre iatture, abbiamo avuto in retaggio da Dio una corona più invidiabile d’ogni prosperità, più preziosa ancora del genio: il carattere; e tutti i colpi della sfortuna non sono serviti che a renderlo più forte, più adamantino. Or bene, si aprano i volumi del Prati, si osservi la sua mente poetica, il suo animo patriottico, la sua fede religiosa. Quale incrollabil fermezza ne’ suoi principj! Qual felice coerenza ne’ suoi sentimenti! Quale indomita fedeltà a tutti i suoi ideali!
Egli non mutò bandiera giammai. Dal ’43, quando sciolse il primo canto politico con la poesia ordinatagli da Carlo Alberto per una fanfara militare, al ’78, quando
divinando i prodi |
Giammai egli non dimenticò di essere figlio d’Italia; giammai non ebbe paura di confessarsi credente in Dio. Dalla prima all’ultima nota, sempre fe’ risonar nei multanimi inesausti concenti della sua lira, l’accordo di questa triade armonica: la religione de’ suoi padri, l’amore della sua patria, l’italianità del suo genio.
E, non vergognarsi d’adorare Iddio, quando il positivismo e il naturalismo ateo dappertutto trionfava; serbar libera da qualsivoglia asservimento alla moda la propria arte, quando il classicismo e tutte le imitazioni falsificavano l’arte italiana, e il realismo dappertutto la esibiva vituperosamente ne’ suoi voluttabri; non cessar mai di poetare un unico supremo ideale patriottico, anche quando Padova non italiana, Firenze democratica e Venezia repubblicana cacciavano in esilio e in prigione il poeta, tutto ciò, o signori, è prova d’innata fermezza d’animo, di strenuo coraggio civile, di grande lealtà di carattere.
Si conceda pure che in un’ode, che in una ballata manchi il Prati di unità organica e di logica concordanza nello stile e nella condotta. Ma non si potrà mai dire che manchi d’unità morale e di coerenza ideale la sua ispirazione.
E questa immutabilità di pensiero, questa integrità di sentimenti, di carattere, ammirabile sempre in un uomo, mirabilissima in un poeta, lasciate, o signori, ch’io mi vanti di poterlo proclamare ad alta voce: questa integrità di carattere, che brilla nell’artista, è l’integrità che natura ha coniata nell’onesto e sano carattere trentino. Il poeta nostro respirò questa salute morale con le prime gagliarde aure de’ monti ov’egli nacque; e forse quella stessa innata asperità, quella naturalezza selvaggia, ch’è in lui, ribelle agli ammorbidimenti dell’arte, può fornirne anch’essa un indizio.
Che se a temprargli il carattere potè contribuire il rude clima dell’alpi native, ancor più dalle verdi solitudini montane, dalla malinconica bellezza de’ tramonti sulle cime che il taciturno abete corona, venne all’anima sua quel senso di pensosa mestizia, che dà l’intonazione a tutto il suo canto. Egli porta con sè nell’agitata e travagliata sua peregrinazione per le città magnifiche, sotto il cielo ampio e ridente del Bel Paese, fra il tripudio altisonante e le amarezze di trent’anni di gloria, egli porta con sè dappertutto una poetica nostalgia, che in tutte le cose, anche le più amene e gioiose, gli vien di continuo destando meste e soavi rispondenze d’anima.
Egli può cantare di tutto, la sua patria terra non la dimentica mai!
E quest’intima segreta armonia di rimembranze, di rimpianto, di desiderio, che noi tutti conosciamo, che ha in noi voci così profonde e ritorni così costanti quando siamo lontani dal nostro paese; quest’appassionato amore del luogo ove siamo nati, con le commozioni che suscita, con gli affetti che sostituisce agli egoismi, e con la sublime poesia che ispira, è assai più che non sembri, un’intima sorgente di bontà educatrice e di quella gentilezza del cuore, ch’è insieme cagione efficacissima e termine sommo di civiltà.
Sì, dalla carità dal natìo loco emana un’altissima bontà educatrice, che ha veramente in sè qualcosa di materno. E per questo si comprende come gli uomini abbian potuto venerare la patria, dandole un nome sacro, chiamandola — madre.
E altresì per questo si comprende, e con ferma fede si sente, che l’ideale di patria non potrà distruggersi nelle umane generazioni giammai; perchè esso ha il suo propugnacolo nel cuore stesso della natura; perchè esso ha per tempio e per focolare la vita stessa della civiltà; perchè esso ha per suoi difensori quanti uomini nascono quaggiù d’animo sì grande, da gloriarsi d’aggiungere alla somma degli umani doveri i magnanimi sacrifizj del patriottismo; quanti uomini sono, e sempre saranno, di cuore così benfatto e così pio, da non poter rinunziare all’amor della patria, come non si rinunzia all’amor della madre.
Signori, quest’è la più alta e benefica eredità civile che a noi deriva dal genio e dalle opere del poeta nostro, Giovanni Prati.
Noi gli dobbiamo il titolo di benefattore della patria. Per questo titolo soprattutto ei ben meritava che i suoi concittadini, richiamando oggi a nuova vita la sua memoria, dimostrassero solennemente ch’essi non l’hanno mai dimenticato.
L’evoluzione dell’arte, i tramutamenti de’ gusti letterarj e della moda, e più d’ogni altra cosa il materialismo storico, che oggigiorno prevale, scettico e negatore di tutti quegl’ideali ch’ebbero sì gran parte nell’eroica azione dell’età patriottiche, tutto ciò dovea condannare necessariamente, come tanti altri, anche il nome del Prati a un immeritato oblìo.
E v’ha egli un nome, e v’ebbe mai cosa al mondo, per quanto grande e bella, che gli uomini non l’abbiano un tempo obliata?
Ma vi sono oblii, che portano con sè la decadenza e la morte, e seppellendo nel silenzio gli esempj illustri del passato, tornerebbero solo a danno dell’anima d’un popolo. Ma questi oblii non possono durare, perchè l’anima di un popolo può assopirsi talvolta, morire non mai. E tutto ciò che è suo, ha come la primavera rinascite perenni.
Così dovea essere del nome di Giovanni Prati. L’immagine del poeta di Trento, che noi oggi nei voti risalutiamo, rappresenta una fede, un carattere: il carattere e la fede nostra.
Parli in quell’immagine l’anima trentina, quell’anima che nei canti del Prati non mutò mai colore, non dubitò mai de’ suoi splendidi ideali, gli amò, li venerò, li difese strenuamente fino all’ultimo giorno. Non sia un marmo, no, quell’immagine, sia un pensiero; sia il nostro pensiero vivente, che dalle memorie vede sorgere i presagi, e confortando con la gloria dei dì che furono i dì che verranno, leva animoso l’àncora verso quell’avvenire, che il poeta di Trento, inneggiando alla patria sua, così mirava da lontano risplendere:
Ferver di genti, silenzio d’armi, |