Gazzetta Musicale di Milano, 1843/N. 3
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GAZZETTA MUSICALE | ||
ANNO II. |
DOMENICA |
DI MILANO |
J. J. Rousseau.
SOMMARIO
I. Critica Melodrammatica. Lucrezia Borgia. -II. Critica
Musicale. Di un libro intitolato: Lezioni d’Armonia,
ecc. - III. I. R. Teatro alla Scala. Luisa
Strozzi, Ballo storico, ecc. - IV. Carteggio. V. Bibliografia Musicale. Cenni su diverse opere.- VI. Pratica d’Accompagnamento. Del padre maestro Stanislao
Mattei. - VII. Notizie Musicali Italiane. Verona, ecc.
CRITICA MELODRAMMATICA
LUCREZIA BORGIA (1).
OSSERVAZIONI
Delle bellezze molte e delle poche
mende di questa tanto pregiata
Opera di Donizetti si è
già moltissimo parlato dai giornali
nostri, e più specialmente
e con maggiore imparzialità e dottrina dai
francesi e dai tedeschi; noi quindi non
faremo che aggiugnere alcune poche osservazioni,
quale appendice a que’ giudizii.
La musica della Lucrezia Borgia risente assai bene del fare disinvolto, cavalleresco e passionato di che il valente poeta Romani, sulle orme di Hugo, seppe improntare opportunamente il dramma.
E codesto in fatto uno dei migliori libretti e de’ più acconci agli effetti musicali che siansi prodotti a questi ultimi anni. In esso molto movimento e vivezza d’azione, molto contrasto di affetti e varietà di quadri; bello, quantunque eccezionale, e forse un pochin strano, il carattere della protagonista; ben marcate le degradazioni e i passaggi dei caratteri secondarii, dal generoso e romanzesco Gennaro, il leale e sventato uffizial di ventura, fino ai due vili ministri di arcani delitti, il Gubetta e il Rustigliello, modificazioni diverse di un medesimo tipo. Il compositore s’è trovata insomma alla mano una ricca e molto bene assortita tavolozza, e da quel valente che egli è, seppe ottenere un effetto teatrale vivissimo e crescente, benché forse non sempre ponderato nei limiti dell’alta ragione artistica.
E ci spieghiamo
In quasi tutti i pezzi di quest’Opera appare molta ricchezza di fantasia; leggiadria e in parte anche novità di canti; un fraseggiare geniale, vivo, animato; uno stromentale elegante, colorito; ma lo spirito delle situazioni drammatiche non emerge tanto dall’intero e compiuto sviluppo della composizione musicale delle diverse scene e dal concorso di tutte le forme che la costituiscono, e dalla piena coerenza di esse, quanto da alcuni slanci staccati di ispirazione gittati là, quasi direi, colla sbadataggine di un ricco che profonde il suo oro senza ben curarsi che sia speso con buon profitto, ma solo contento di averlo l’atto lampeggiare agli occhi della turba che lo osserva abbarbagliata della sua prodigalità.
Prendiamo un primo esempio nel Prologo ove i compagni di Gennaro con parole di scherno e di imprecazione svergognano la Borgia e la opprimono dei ripetuti strazii di un meritalo ma non aspettato vitupero. Questo importante punto drammatico fu vestilo dal compositore di un canto oltre ogni dire espressivo, energicamente caratteristico, intinto di tutta l’amarezza sarcastica di che son pieni quegli animi irosi ed imprudenti. Ma tutto il maggior pregio di questo tanto applaudito pezzo può dirsi limitato al valore della prima ispirazione melodica affacciatasi alla mente del maestro; dell’arte di avvigorire il primo concetto, con sapiente alternativa di tinte e di passaggi, e di svilupparlo nella sua pienezza onde ne risultasse un disegno intero e compiuto, di quest’arte che tanto si ammira ne’ grandi maestri, ben poco ei si curò. E in fatto veggasi come il Donizetti si compiaccia della ripetizione insistente delle medesime frasi, le quali or passano dal canto all’orchestra, or dall’orchestra al canto, or si mettono all’unissono, e in fine, piombando dall’alto della più vigorosa significazione drammatica, vanno a perdersi in una cadenza poco men che volgare.
Nel famoso terzetto tra Lucrezia, Alfonso e Gennaro, altri poco dissimili difetti di trascuratezza di composizione si rilevano, mal celati sotto una ricca e brillante ammantatura di bellezze di canto e di colorito. Il compositore si è molto ben curato di esprimere nel patetico e nel passionato delle frasi rotte e risentite lo stato angoscioso dell’animo di Lucrezia; la atroce determinazione del Duca è molto bene dipinta in certe locuzioni musicali severe e fredde, direi quasi come la lama di un pugnale; in poche sortite melodiche, leggiadre e soavi si manifesta mirabilmente la ingenua e cavalleresca fidanza del giovine uffiziale di ventura; tutto questo però non riguarda che la pittura speciale delle situazioni varie dei tre personaggi. Ma di ritrarre con una conveniente tinta generale il carattere della scena tanto evidente e marcato, nessun pensiero ei si diede. E questa una scena tutta intima, misteriosa, e tanto intima e misteriosa che in essa si tratta nientemeno che di consumare, con arcano tradimento, il più nero degli assassinii. Ora perché il compositore non seppe o non si curò di colpire e di rendere, colla maggior possibile evidenza de’ mezzi dati alla sua magica arte, l’intenzione marcatissima del drammaturgo? Perché nel bellissimo adagio sulle parole «Guai se ti sfugge un motto» che Alfonso con satanica durezza susurra all’orecchio di Lucrezia, uscire di tratto in tratto con alcuni scoppii d’orchestra al tutto comunali e con certi tutti di riempitivo e in perfetta contraddizione colla natura cupamente dimessa del colloquio, sulle prime molto opportunamente accennata con frasi staccate e con rattenuto accento? Non avremmo certo tenuto conto di questa mancanza di fina riflessione estetica e di verità imitativa, se essa non si offrisse ripetuta in altri punti interessanti e caratteristici del dramma. Ci si dirà che le sono sofisticherie e piccolezze, ma a noi non pajono tali dacché si tratta di giudicare un’Opera che vuolsi additare conte un capolavoro. Ora nei capolavori delle arti non è solo da tener conto della maggiore o minor abbondanza di vena inventiva, del maggiore o minor sfoggio di bellezze geniali, ma si anche del più o men sapiente criterio col quale son queste avvalorate, del più o men fino gusto e discernimento con che sono messe a giusto sito e convenientemente spese.
Torniamo a riperterlo. Nella Lucrezia Borgia del Donizetti non é la povertà d’invenzione, non la freddezza del sentimento, non la deficienza del così detto effetto che si ha a notare: tutt’al contrario; ma sì vuolsi biasimare una tal qual trascuranza nell’arte di ben sviluppare e ben incarnare nell’insieme della composizione i felici pensieri di che è sparso a larga mano lo spartito, una tal qual negligente fretta di compire i disegni proposti senza troppo dispendio di lavoro e di meditazione.
La vigorosa e incalzante stretta a due, tra Lucrezia e Gennaro, colla quale si chiude il primo atto sia un’altra prova delle verità di quanto asseriamo. L’ordito di quelle frasi veementi e passionate ò tutto quel mai che si possa dire felice e berte appropriato... Ma chi oserà affermare che la ragione filosofica di un interessantissimo punto scenico non venne sagrificata ad una pratica convenzionale d’effetto, che consigliò al maestro di far ripetere quella fortunata cantilena perfino tre volte, all’uopo, non già di servire alla evidenza del concetto drammatico, il quale richiedeva ben diverso sviluppo, ma al bisogno di lasciar fortemente impresso nell’orecchio dell’uditore un motivo ben trovato, onde, calando subito dopo la tela, non mancasse la tanto ambita chiamata sul proscenio? E che quella doppia, anzi tripla ripetizione del medesimo passo sia al tutto incongruente, appare tosto a chi rifletta ch’esso passo è replicato per la terza volta all’unisono, con rinforzo d’orchestra, da due personaggi invasi da alletti opposti al tutto: adunque o per l’uno o per l’altro di quei due personaggi quel motivo sì caratteristico, anziché conveniente, riesce appropriato a rovescio, e quindi assurdo. - Ma un tal quale effetto teatrale non manca... E in oltre lo spettatore è affascinato dal tutt’insieme delle impressioni incalzanti, affastellate non ha tempo di occuparsi della verità drammatica e della finezza psicologica! E rapito in estasi, e batte le mani a gran romore! Ciò basta.
Ma non più delia musica. Alcune parole dell’esecuzione. La signora Frezzolini-Poggi è senza forse la più valente tra le cantanti drammatiche, apparse sulle nostre scene dacché la Pasta e la Malibran cessarono di illustrarle colla potenza del loro ingegno e della loro arte. In lei forza di sentire temperata dalla riflessione, in lei ricchezza di mezzi vocali, felice organizzazione e intelligenza musicale, perizia di scena, buone ed elette maniere drammatiche, eleganza di forme teatrali. Abbiamo date troppe prove di essere poco complimentosi, e forse troppo schietti coi virtuosi che ingombrano attualmente il teatro lirico italiano, perché possa cader dubbio che queste nostre parole di lode in genere sul conto della signora Frezzolini sieno dettate dal menomo spirito di parzialità. Nella attuale povertà di vere illustrazioni artistiche crediamo giusto e necessario aggrapparci, come ad unica àncora di salvezza, alle poche che pur addimostrano di potere e di voler bastare a modello della turba delle mediocrità. L’appalto della Scala ha diritto a farsi perdonar qualche torto, non foss’altro per averci procurata questa distintissima cantante e con lei la brava e zelante e tanto applaudita De Giuli.
Ma in proposito della signora Frezzolini, particolarmente osservata nella parte di Lucrezia, aggiugniamo che con molta finezza di sentire e scenica perizia ella ha compresa la natura in parte paradossale, ma pure vigorosamente drammatica di questo tipo della feminile corruzione redenta dall’entusiasmo dell’amor materno, quale uscì primamente dalla sbrigliata fantasia dell’autore di Nôtre-Dame, per informarsi poscia in più giusta misura sotto la gastigata penna del poeta italiano.
Ma ci si permettano alcuni rilievi. Forse la signora Frezzolini, ubbediente in ciò alle istintive sue ispirazioni, trovasi molto più a suo agio e riesce quindi d’assai meglio nell’espressione dei più generosi alletti ond’è agitala Lucrezia, quelli di madre, che non nella significazione più difficile, perché meno conforme al bello morale, dei sentimenti di moglie sdegnata e fremente, di duchessa insultata e bramosa di vendetta.
Nella scena del primo atto con Alfonso, ove questo freddo e tirannico suo consorte la vuole ad ogni costo serva e complice al suo iniquo attentato, la giovine artista non è tanto valente a pingere negli atti e nel vigore conciso e vibrato degli accenti l’ira e il ribrezzo della infame proposta, e l’arcana lotta che si agita nel suo cuore, quanto appare davvero passionata e palpitante alloraché, allontanato il Duca, tutta si abbandona alla foga de’ sovverchianti affetti di madre, e alla brama di salvar da morte lini prudenti! che osò far insulto al temuto nome de’ Borgia.
Un altro esempio: nell’ultimo atto, al suo presentarsi nella infame sala del banchetto della Negroni, la signora Frezzolini non sa di certo simulare con arte maestra la superba e violenta natura della donna potente che, con sogghigno feroce sulle labbra, si reca ad esultare dell’indubitato esterminio de’ suoi nemici... Un non so che di esitante, d’incerto, di fiacco si osserva in que’ suoi moti del volto, in que’ suoi gesti, in que’ suoi intercalari poco vibrati e decisi... Ma poi tosto che ode essere tra gli avvelenati anche il figlio suo diletto, quanto non è evidente e lodevole il cambiamento che si opera in tutti i suoi modi di esprimere i violenti ma nobili affetti che la agitano! Quanto non è passionato e penetrante ogni menomo accento del suo canto, cui è rado che venga meno la finezza e la gastigatezza del gusto! Che se ella manca della forza necessaria alla prima e più difficile delle due or accennate interpretazioni, è forse a dirsi a sua scusa che il medesimo compositore venne meno in parte nella pittura del carattere della Borgia, preso dal suo punto di vista odioso; e questo perché probabilmente la natura tutta italiana di lui ribellavasi alla profonda e evidente manifestazione di una morale deformità troppo eccentrica. Non possiamo però a meno di venir qui osservando che i sommi poeti ed artisti sanno far forza alla loro indole naturale, e che Gluck e Mozart, al pari di Dante e di Shakspeare, di Corneille e di Alfieri valsero a tratteggiare con eguale vigore e finezza di pennello i tipi i più neri e le più angeliche immagini.
Come semplice cantante, (e sotto questo punto di vista la comune degli spettatori suol riguardare i nostri artisti, poco curandosi della più o meno fina ed elevata loro arte drammatica) la signora Frezzolini merita non pochi encomii; le migliori eleganze cromatiche, le notazioni più difficili per altezza di tessitura, le sfumature di voce, i passaggi più spontanei dall’uno all’altro registro a lei riescono poco meno che famigliari, e in lei danno diletto e aiutano alla più marcata espressione perché non le costano troppo sforzo. Solo ne piacerebbe che taluna volta ella tenesse meglio inbrigliata la voce, né lasciasse troppo libero il freno a certi impeti di note acutissime lanciati forse con una foga che guai se è abusata! Vorremmo anche consigliarla a far il possibile di meglio nascondere certi atti affannosi coi quali ella adopera a riprender fiato, ecc. Sono lievi vizii e meri difetti di artifizio tecnico, ma
gli artisti della sua portata debbono o tosto o tardi trovar modo a liberarsene. (Degli altri cantanti, principali attori più o meno largamente encomiati in quest'Opera, diremo alcune cose nel prossimo foglio).B.
CRITICA MUSICALE
Di un libro intitolato: Lezioni d'Armonia scritte da Domenico Quadri vicentino, per facilitare lo studio del Contrappunto. Terza edizione. Roma dai tipi di Angelo Ajani. 1841.
Continuazione. V. il foglio N. 52 dell’annata decorsa
Nelle sei lezioni che tengon dietro alla
quarta, il signor Quadri espone la teoria
degli accordi e dell’armonia propriamente
detta.
Cominciando a leggere, io trovo questa definizione dell’armonia: «La parola Armonia applicata alla Musica, altro non significa che: Unione simultanea di più suoni con certa legge combinati fra loro».
Già l’autore, senz’avvedersene, volendo definire l’armonia, ha definito l’accordo. E in vero, niuno mi negherà che la semplice unione simultanea di più suoni non può costituire che un accordo, ossia un elemento dell’armonia, non già l’armonia medesima; la quale, secondo l’accezione generale, risulta da una successione di accordi. Mi si opporrà che la parola armonia si prende talvolta per sinonimo di accordo. In buon’ora. Ma qui l’autore ha voluto definire veramente l’armonia, perciocché indi a poco dà anche la definizione dell’accordo. La quale, poiché siamo in materia, sia messa subito in disamina. «Accordo», dice il Quadri «significa Progressione di terze, sentite dall’udito nello stesso tempo. Poi seguita a dire: «dunque una sola terza non è accordo, ma soltanto intervallo; dunque ogni progressione di terze contemporanee può passare sotto il nome generale di accordo.»
Ed io soggiungo: dunque mi-sol-do, sol-do-mi, si-re-fa-sol ecc., non sono accordi; dunque una progressione di cinque o sei terze contemporanee è un accordo (2). Per conseguenza logica bisogna venirne assolutamente a questa conclusione. E tanto più che quella storta definizione non è un semplice lapsus calami dell’autore: giacché più sotto egli dice: «Per avere un accordo sono dunque necessarie tre condizioni, cioè: 1.° Almeno due terze di seguito; 2.° Tre suoni; 3.°I numeri 1, 3, 5» e più tardi: «progressione di terze, vera caratteristica di ogni accordo»; e infine: «più deve (l’Accordo) conservarne la forma esteriore, cioè la progressione delle terze, ed i numeri 1, 3, 5, ecc.» E per conclusione paragona i detti numeri alla Base, al Fusto e al Capitello di una colonna. State a vedere l’ordine che avranno queste tre parti della colonna, dove questa sia paragonata con gli accordi rivoltati!
Tornando a quel punto onde mi sono discosto, l’autore, per anticipare sull’origine dell’accordo, propone l’osservazione di un fenomeno fornito, secondo lui, dall’Arpa; la quale, accordata tutto all’unisono, o all’ottava di una nota qualunque, come sarebbe un do, ed esposta al vento vibrerà nelle sue corde, e farà conoscere che invece dell’unisono, la risonanza di tutte quelle corde percosse in massa, tramanda all’udito diverse armonie, delle quali la seguente (do-mi-sol-do) presenta minori differenze. Quindi, escluso il do 8a siccome replica della nota fondamentale, egli deduce la definizione dell’accordo riportato di sopra; la quale, sebbene erronea, è tuttavia in qualche maniera ben dedotta.
Contuttociò io osservo in primo luogo che in vece dell’ arpa, bisogna intendere l' arpa eolia, così detta, perciocché nell’arpa comune, non potendosi ella accordare tutta all’unisono, od all’ottava, il fenomeno non può aver luogo. Il detto fenomeno poi non si limita a far sentire i soli suoni do-mi-sol; bensì si estende al si bemolle, al re e ad altre noie, le quali o sono repliche delle già prodotte, o sono talmente false in riguardo al nostro sistema musicale, che non vi si possono in niuna maniera ammettere. Certo che il signor Quadri non ha fatto a dovere l’esperienza, anzi dal contesto del suo discorso mi pare che se ne possa inferire che non l’ha punto fatta. Che che ne sia, s’egli avesse tenuto in maggior conto la scienza dell’acustica, avrebbe conosciuto che, sebbene ella sia affatto inutile per comporre della musica, è tuttavia molto atta a disvelare la ragione di alcuni punti di teoria: conciossiachè, dal sapere che una corda vibrante vibra non solo nella sua totalità, ma si divide ancora a vibrare nelle sue parti aliquote, e che il numero di queste è illimitato, avrebbe dedotto che i suoni da essa prodotti non si limitano ad essere la fondamentale, la terza e la quinta, ma si estendono a quelli che ho detto dianzi. Onde avrebbe potuto trarre molto vantaggio, estendendo la definizione dell’accordo almeno a tutti i fondamentali, rendendo una ragione plausibile del basso fondamentale assegnato agli accordi ch'ei chiama sensibili, e schivando alcuni errori che andrò notando nel decorso di questo scritto.
E per accennarne subitamente uno, avvertirò che il signor Quadri considera i tre accordi, chiamati, secondo la nomenclatura del Reicha, accordo perfetto maggiore (do-mi-sol), accordo perfetto minore (re-fa-la) e accordo diminuito (si-re-fa), siccome la radice di tutti gli altri, e come l’origine primitiva di qualunque armonica combinazione. E per dare ogni possibile prova di questa, ch’ei chiama verità, lascia all’arbitrio del suo lettore bene istrutto dell'armonia, l’esame di qualunque musicale componimento; nel quale, egli soggiunge, si vedrà costantemente che spogliandone l’armonia da tutto l’accessorio, la loro parte essenziale si riduce ai tre accordi fissati come elemento radicale di tutti gli altri, e conchiude che ciò è tanto vero, che ogni pezzo di musica rimane intatto accompagnandone la cantilena anche con essi soli, lo che non si potrebbe fare omettendoli. Per iscorgere l’erroneità di questa specie di ragionamenti, bastarmi pare, il riflettere che se per radice primitiva di una cosa si vuol intendere la base su cui essa è fondata, come, verbigrazia, le fondamenta sono la radice di un palazzo, ragionevolmente si dovrebbe dire, non che l’accordo di terza e quinta sia la radice degli accordi di settima e di nona, ma che la radice primitiva di tutti quanti gli accordi fondamentali è l’intervallo di terza. Ma attenendoci alla prova di che l’autore tenta di avvalorare la sua proposizione, chi è che non veda che spogliando l’armonia di tutto l’accessorio, gli accordi di settima e di nona rimarranno sempre? Chi ha detto al signor Quadri che gli accordi di settima e di nona sieno un accessorio in armonia? Come farà a provarlo? forse col dire che ogni pezzo di musica rimane intatto accompagnandone la cantilena coi soli accordi di terza e quinta? Se questa ragione ha qualche peso, io sostengo del pari che ogni pezzo di musica rimane intatto accompagnandone la cantilena, non con accordi, ma col solo Basso. Quindi ne emerge che assegnando a tutti gli accordi fondamentali una comune origine nella risonanza dell’arpa di eolo, o di altro corpo sonoro (tranne l’arpa comune, nella maniera da lui descritta), il sig. Quadri non sarebbe incorso nell’errore dimostrato.
Comunque siasi, dedotto l’accordo di terza e quinta nel modo che ho detto, egli prende a collocarlo sui diversi gradi della scala, e ne fa quindi nascere le tre specie enunciate di sopra. E qui tralascierò di buon grado alcune riflessioni sulla maniera onde si deduce la formazione delle tre specie di accordi, perché da un lato ella è cosa di poco momento, e dall’altro mi porterei, a grande prolissità. Mi contenterò solo di accennare che, nel definire i gradi della scala su cui ognuna di queste tre specie di accordi può aver luogo, della sola scala di modo maggiore si occupa, quasi che la scala di modo minore sia un nonnulla nella teoria degli accordi. Questo cenno debb’estendersi ancora alle lezioni che trattano di tutti gli altri accordi.
La lezione sesta verte su quegli accordi che il nostro autore chiama sensibili; cioè su tutti gli accordi di settima e di nona in cui la terza della nota fondamentale è maggiore, e la settima è minore, qualunque del resto sieno gli altri intervalli. Se si eccettua L'ommissione testé accennata, un’altra che accenneremo più tardi, un errore che mi propongo di svelare fra momenti, ed un punto che mi riservo di discutere quando sarò pervenuto alla lezione degli accordi dissonanti, questa lezione è bene svolta, e merita elogio, avvegnaché io trovi fuor di proposito l’entrare in materia di modulazione qui dove non s’era proposto di trattare se non di accordi. Ma questa è leggiera menda. Una gravissima sta in questa parola: «Finalmente adoperando la (l’accordo di) sesta alterata si deve prendere per basso la nota che fa seconda minore della nuova scala a cui si fa il passaggio». Qui l’autore si è dimenticato ch’egli stesso diceva (pag. 10): «La natura prescrive un tono intero in questo punto» (cioè fra il primo ed il secondo grado)» «della scala;» e nella ricapitolazione della pagina 13: «Nessuna di queste distanze può essere cambiata senza distruggere l’idea di scala». Se dunque, secondo i medesimi precetti dell’autore, dal primo al secondo grado dee correre necessariamente un tono intero, cioè una seconda maggiore, di quale scala intende egli parlare dove s’ha da prendere la seconda minore? Ha egli mai trovato un accordo di sesta eccedente posto sul secondo grado di una scala? forse sì, quando un tono è stabilito, non mai nell’atto di farvi passaggio. Del resto non v’ha forse, principiante (se già non è alunno del Quadri) nello studio dell’armonia, il quale non sappia che il seggio principale dell’accordo di sesta eccedente è sul sesto grado della scala di modo minore.
(Sarà continuato).
L. Rossi.
I. R. TEATRO ALLA SCALA.
Luisa Strozzi, Ballo storico composto e diretto da A. Huss.
Poiché questo ballo continua a rappresentarsi
e non venne ancora surrogato da
altro migliore spettacolo mimico, non crediamo
sconveniente dirne anche noi qualche
parola.
Il signor A. Huss ebbe forse il torto di scegliere un poco felice soggetto drammatico, ovvero ebbe la malavventura di non poter mostrare l’ardimento necessario a svolgerlo nei modi più atti per farne l’opportuno argomento di una mimica azione. E nondimeno il tragico fatto della Luisa Strozzi o com'è narrato dal Varchi, dal Segni e da altri contemporanei firentini, od anche modificato con quella libertà, che la sola pretenziosa pedanteria di alcuni dotti di storia si ostina a negare alle esigenze dell’arte, offri vasi tema opportuno a un variato contrasto di bellissimi e animatissimi quadri, ne’ quali, lasciate da un lato le lungaggini del linguaggio mimico, si venisse pingendo a rapidi tratti il carattere di un’epoca agitata dalle più calde passioni civili e politiche. Ma il signor Huss amò meglio attenersi stretto stretto ad uno scheletro di coreografica finzione e non osò invadere il vasto campo che gli stava aperto innanzi; epperò il suo ballo Luisa Strozzi ebbe quell’esito discreto che tutti sanno.
A non dubitarne il signor Huss può addurre molte scuse a sua discolpa e tra le altre la ristrettezza del tempo, che, per imprevedibili circostanze, gli fu lasciato ad ideare ed eseguire il suo lavoro.
Pur sarebbe ingiusto il non ripetere, quel che già fu detto da altri, che cioè alcune scene del nuovo saggio coreografico del sig. Huss destarono sufficente interesse, e ciò torna ad onore di lui che seppe comporle bene, e degli attori principali, la valentissima Muratori, e il degno suo collega il Catte, i quali non mancarono di interpretarle con molto sentimento artistico. Il signor Pratesi, e l'esordiente signora Mazzarelli, se non ebbero abbondantemente gli applausi del pubblico, ottennero quelli di alcuni nostri giornali teatrali: agli articoli di codesti ultimi rimandiamo coloro che bramassero ancora più particolari notizie.
Sebbene questa nostra Gazzetta per massima non si occupi di danzatori, pure trattandosi di una Taglioni, una eccezione alla regola può darci diritto ad una congratulazione. Diremo quindi che nei due passi fin’ora eseguiti ella si addimostrò quella grande maestra che fu salutata dai primi teatri d’Europa. Aspettiamo di rivederla nel ballo fantastico ch’ella ci prepara, ed ove avremo ad ammirarla anche quale attrice
mimica.V.
CARTEGGIO.
Parigi... Li... 1843.
Eccovi fresche fresche quattro notizie che non vi riesciranno
sgradite. Comincieremo dalle meno importanti
per salire a quelle di maggior rilievo, e faremo cosi come
i contadini nelle feste di campagna che da prima danno
fuoco ai mortaretti più piccoli, poi pumf, pumf, fanno
saltare i più grossi e lasciano sbalordita la turba degli
spettatori.
Prima notizia: Duprez, quel bravo cantante della nostra reale Accademia di musica che s’è buscata tanta celebrità coi validi sforzi della gola, ha voluto provarsi a dar assalto al tempio della gloria anche a colpi di penna, e ci ha regalate quattro Cantilene le quali vi assicuro, sono quattro graziose composizioncine come non saprebbero farne di eguali per grazia, semplicità ed espressione, molti de’ vostri barbassori autori di Opere teatrali.
Altra notizia: Un certo signor Martin, artista meccanico ingegnosissimo, cui forse non sembra abbastanza fitta la turba de’ suonatori pianisti onde sono ingombre le nostre sale d’accademie, (tanto che a’ di nostri non v’è meschina o semistupida zitella da marito la quale o male o bene non vi pretenda strimpellare sul chiavicembalo qualche fantasia di Thalberg, di Liszt o di Döhler in modo da farvi bestemmiare il povero genio della musica che davvero non ce n’ha nè colpa nè peccato) il signor Martin, vi dicevo, s’è martellato il cervello per inventare un congegno che valga a render agevole lo studio del monarca degli stromenti, anche alle più dure ed asinine nature filarmoniche. Che cosa ha fatto il brav’uomo? Ha inventato un certo nonsochè al quale ha dato il nome di chirogimnaste, ed è un congegno che si pone sulle dita di chi vuol imparare a tormentare il pianoforte, e le dita in fatto apprendono in poco tempo a moversi come da é sugli avorii e sugli ebani, e il dilettante, sia pure una vera zucca per sentimento e gusto, quasi senza saperselo, si trova diventato suonatore. Io vi dico che se proseguiamo di questo passo il talento delle crome e dello biscrome ha da diventar merce cosi comune che saranno bravi soli coloro che non sapranno punto di musica.
Or comincia a venir il buono della mia lettera.
Non ricordo bene se nell’ultima che vi scrissi v’ho detto che la nostra Accademia delle belle arti aveva a nominare diversi socii corrispondenti destinati ad occupare alcuni seggi vacanti. Una commissione composta di membri delle diverse sezioni, tra quali Delaroche, il celebre pittore romantico, ed Halevy l’autore della Juive e della Reine de Cypre, venne incaricato di proporre i candidati. Uno tra costoro fu il vostro illustre Donizetti, e, come ben potete immaginare, le nobili sue brame furono senza contrasti soddisfatte.
Ma un diploma accademico di più odi meno, a’ generosi tempi che corrono, non attribuisce punto un maggiore o minor diritto all’immortalità per gli attuali concorrenti alla gloria... Quante gigantesche celebri là letterarie e artistiche da dieci soldi al pajo hanno pieni i portafogli di accademiche pergamene, e se le guardate dappresso con occhiali non appannati dall’alito cortigianesco, le trovate cosi piccine da non meritar neppure il grado di tamburini nel reggimento degli immortali! Ma Donizetti in questo reggimento s’è già guadagnato il grado di Capitano, o anche di Colonnello e di Generale se volete; e se l’è guadagnato con delle buone e brave battaglie valorosamente combattute e gloriosamente vinte! Niente altro ch’ei vien fresco fresco d’aver preso d’assalto una fortezza di primo ordine, voglio dire (ridete delle mie metafore alla Victor Hugo) il voto del pubblico del nostro Teatro Italiano; e con che cosa lo ha debellato questo terribile nemico delle mediocrità, e severo dispensatore della vera gloria?... col Don Pasquale, quell’opera che, già ve lo scrissi, ci stava preparando per Parigi, e che gli venne giù filata da quella inesauribile sua penna con una spontaneità di estro comico-musicale da non potervisi descrivere cosi su due piedi senza rischio di uno scappuccio, come direbbe il vostro Manzoni!
In breve il Don Pasquale è nientemeno che un nuovo trionfo per Donizetti! - Dirò anch’io con Delécluze (Vedi il Debats, del 6 corrente) che dai Puritani di Bellini in poi verun’opera scritta appositamente pel R. Teatro Italiano non ebbe più clamoroso esito. - Quattro o cinque pezzi ripetuti, chiamate dei cantanti, chiamate del maestro, insomma un ovazione di quelle che in Italia si prodigano a dozzine anche a’ più mezzani compositorelli, ma che a Parigi si rischiano pei soli veri grandi.
- La stima profonda che ho dell’egregio autore della Lucia e dell' Elisir, non mi vieta di dirvi che in codesta occasione ei deve molto al valore e allo zelo dei cantanti, i quali lo trattarono da vero camerata compatriotta. Lablache nella parte protagonista fu sommo; Tamburini carissimo in quella del dottore; la Grisi, piccante, animata, squisitamente amabile nella parte di una sposina civettuola che mette alla disperazione un buon vecchio di marito (Lablache). Peccato che il grosso spirito comico di questa farsa in cui non è fatto risparmio delle solite sguajataggini del vecchio genere buffo (3) (e tra le altre finezze c’è un potente schiaffo che Norina misura gentilmente sulla larga guancia dell’ottimo don Pasquale) non sia punto in accordo col costume adottato dagli attori, al tutto nel gusto de’ giorni nostri... Ciò produce un disgustoso contrasto tra le maniere e gli abiti, tra la natura degli incidenti comici totalmente fuor di data, e lo spirito della raffinata società in mezzo alla quale siam costretti supporre accada il comico fatto. Ma in questo guajo non c’entra per nulla il compositore della musica... solo potremmo farci meraviglia com’ei non prevedesse il cattivo effetto e lo impedisse coll’esigere che gli attori si acconciassero colla polvere di cipri, cogli abiti e colle giubbe ricamate che sono tanta parte dell’effetto comico nelle opere del genere di questo Don Pasquale, come il Matrimonio segreto, ecc.
Quanto al valor della musica al poco che v’ho detto aggiugnerò ben presto altri più minuti particolari, ed ho lusinga che troverò modo di fare sfoggio di acume critico, molto più per lodare che non per biasimare!
Il vostro C. G.
BIBLIOGRAFIA MUSICALE
CENNI SU DIVERSE OPERE
Metodo per pianoforte di Giuseppe Novella, presso Ricordi.
Esiste un sì gran numero di metodi per pianoforte,
che un maestro il quale voglia presentarne qualcuno
agli allievi si trova più che mai imbarazzato nella scelta.
Lambert, il celebre Emanuele Bach, Marpurg, Despreau,
Turk, Löhlein furono de’ primi a raccogliere in ispeciali
trattati giuste norme per ben apprendere, o per ben insegnare
l’istromento, ora prediletto da ogni classe della
società. Poscia Dussek, Pleyel e il sommo Clementi con
varj melodi riuscirono di grande incremento all’esecuzione
del pianoforte: quindi vennero quelli di Steibelt, madama
Mongeroult, Cramer, Müller, Adam e Pollini; equesti
due ultimi ebbero in Italia maggior fortuna. Più recentemente
Hummel, il maestro per eccellenza, dotò il pianoforte
di una grande opera didascalica da tenersi quale
indispensabile dizionario pianistico alla portata più degli
artisti clic degli apprendenti. Ne’ loro melodi Kalkbrenner,
ad esempio di Logier, prescrisse il Guidamano
e Herz volle adottato il Dactylion, mezzi meccanici
oggidì già pressoché dimenticati; Hunten e Berlini indicarono
utili e chiari insegnamenti; e la prolissità nell’esposizione
impedì che quello di Czernv divenisse popolare.
Per non dire dei Metodo de’ Metodi di Fétis e Moschelcs
che ognuno dovrebbe consultare, Zimmermann
finalmente nella sua Enciclopedia del pianista-compositore,
nulla ha ommesso che potesse istruire, non solo
nell’esecuzione, ma ben anco nella composizione: risultato,
a cui mirò pure molto tempo prima anche il
nostro Asioli.
Questa moltiplicità di Metodi per pianoforte di autori rinomati avrebbe potuto distogliere qualunque meno conosciuto maestro dal pensare alla pubblicazione diavoli simili. Chi però non curasi che del proprio onore e non si lascia sì presto sgomentare dalle difficoltà, fermo nello stabilito proposito si spinge innanzi. Sotto un tal riguardo il genovese Novella, distinto allievo dell esimio Mirecki meritasi lode. Nel suo Metodo dopo gli elementi musicali, un paragrafo sulla scelta dell’istromento, e 25 esercizj quasi tutti sulle cinque note, viensi alle Scale, che segnansi dapprima dell’estensione di una sola ottava. Indi trattasi del tempo, de’ movimenti (ove all’allegretto vien attribuito un movimento più animato e brillante dell’allegro c ciò senza dubbio per sbaglio di scritturazione o di stampa, come rilevasi alla dilinizione del moderato) del modo di articolare le note, delle abbreviazioni, degli abbellimenti, degli accordi, dell’accento, del ritornello, e della corona. 18 Sonatine facili e progressive precedono le Scale di due ottave, alle quali fan seguito N.° 1O pezzetti sopra motivi favoriti di Bellini, Donizetti, Merendante ecc., ed una sonatina a quattro mani. Alcuni precetti, ed esercizii sulle ottave, sui passi saltati, sugli arpeggi, sul trillo, sull’incrocicchiare le mani; N. 30 altre sonatine come sopra e tre pezzetti a 4 mani (un dei quali di un certo Chol, che e forse una abbreviazione di Chotek), un rondò pure a quattro mani, il cui autore è marcato come Diab. che noi completeremo con un elli, formandone Diabelli, sono frapposti a molti proficui esercizi la maggior parte sulle Scale semplici, cromatiche, di terza, di sesta, ed oliava, a moto contrario ecc. ecc. Il trattato assai bene compiesi con sei bagattelle in forma di Studj onde lo scolare acquisti un’idea della musica moderna. Anche il compositore di questi pezzi non venne posto per intiero, ma chi conosce le opere del bravissimo Gambini non può sbagliare attribuendoli a lui che con tanto amore si consacra alla bell'arte.
Il metodo del Novella avvedutamente sembra a preferenza calcolato onde l’allievo col continuo esercizio delle scale, ognora necessarie ad ogni grande o piccolo esecutore, possa progressivamente arrivare fino a! più alto grado di velocita c scioltezza. In quanto alla quantità e qualità di frammenti di pezzettini estratti da opere teatrali, da cantilene popolari, da motivi da ballo, di cui soglionsi sopraccaricare i metodi moderni, nell’eccellente prefazione del Metodo di Bertini leggesi una ben ponderata critica; ad essa può rivolgersi il lettore.
Collezione completa delle Sinfonie di Beethoven trascritte per pianoforte solo da F. Kalkbrenner.
Tanto di rado in Italia si pubblicano opere di questo immortale creatore, che bisogna gridare al miracolo quando co’ tipi ne viene offerto qualche saggio dell’incomparabile genio di lui. Ricordi già acquitossi cncomj per le recenti pubblicazioni del Setlimino c delle Melodie sacre superbamente piano-trascritte da Liszt; il Canti ora accolga le nostre sincere congratulazioni, per aver animoso affrontato di riprodurre fra noi l’intiera collezione delle nove Sinfonie dell’alemanno capo-scuola, con non comune magistero trascritte da Kalkbrcnncr, il quale nello scabroso suo lavoro, in pieno riuscito non soverchiamente difficile, per quanto ci poteva si studiò U di conservare la grandézza c sublimità clic rendono al fi più alto grado elevati gli originali componimenti. Ili Germania ed in Francia forse non vi è un solo cultore della musica veramente degno di un tal nome, che non conosca a fondo e non apprezzi con ogni possa le Sinfonie di Beethoven ivi venerate siccome le più prodigiose epopee musico-istromcntali. De limiti di questo articolo, c più, per non averle mai potuto udire in orchestra, non ci viene acconsentito di ragionare di ciascuna d’esse. Il Canti finora pubblicò quella in do di stile mozartiano; la seconda in re, piena di nobiltà, di fierezza c d’energia, e la terza delta eroica. In proposito di quest’ultima non possiamo a meno di citare un interessante aneddoto. La sinfonia eroica era stata cominciata sotto il consolalo ed avea per titolo il semplice molto - Bonaparle. Una mattina Iìies, mentre il suo maestro era tutto intento al travaglio della stessa, venne ad interromperlo per annunciargli col giornale alla mano il primo console essersi fatto proclamare imperatore. Beethoven sorpreso, c non potendo persuadersi della realtà di quanto gli veniva riferito, stette un istante in (silenzio, poi fuori di sé per lo sdegno, fatto in brani lo sciagurato primitivo frontispizio, proruppe nella seguente concitata esclamazione. Anche costui dunque non è che un uomo come gli altri, e non pensando che a soddisfarj, la jtropria ambizione vorrà porsi in cima di tutti per tiranneggiare. E ciò dello sostituì al primo titolo le parole italiane: Sinfonia eroica per celebrare l’anniversario della morte di un grande uomo: intendendo dire che, invece di un canto di vittoria, era uopo pensare ad un inno di dolore, giacché per lui Napoleone era come fosse morto. Nel primo allegro di questa sinfonia i varj sentimenti di bollore che si spesso agitavano l’animo di Beethoven sono espressi in modo mirabile. La marcia funebre ò un dramma il più evidente. Nello scherzo egli seppe conservare il colore grave e misterioso che domina in tutta l’omerica composizione, il cui allegro finale ridonda di fuoco e di originalità Facciamo ardenti voli onde le opere istromentali di Beethoven non abbiano a continuar ad esser fra noi con sì grande nostro disdoro trascurale, esse, per adoperare un’espressione di Berlioz, potranno servire di scala metrica per misurare lo sviluppo della nostra intelligenza musicale. _________ Js. C.. PRATICA R’ACCOMPAGjSAMEAT© «lei Padre M°. Statismo Mimi minore Conventuale. Gli è col massimo piacere che nella Gazzetta Piemontese, dei 26 novembre p. p. abbiam letto un manifesto dell’avveduto e zelante editore Magrini di Torino, col quale propone di dare in luce per via di associazione la Pratica d’accompagnamento del Padre Stanislao Mattel minor Conventuale. Un’Opera di sì gran maestro, del quale fra gli altri sommi fu allievo il Genio Pesarese, meritava di essere per ogni dove conosciuta; che l’Edizione del Cipriani (Bologna IS25), comecché trascurata ne’ tipi e nella correzione, fu tosto esaurita nel circuito di poche miglia d onde usciva. Utilissima quest’opera non tanto agli studiosi dell’armonia, ma agli Organisti altresì per le risorse infinite che offre per le circolazioni c i Versetti, può alla mancanza sopperire di esercizi per Contrabbasso, Violoncello, Fagotto, e di altri sillatti stranienti, c ben disse il Dc-la-Fago «quanta energia vi ha nel concetto! quanto felice, naturale, c talvolta inattesa la concatenazione degli accordi! quanti mezzi per variare le condotte armoniche! quale sfoggio di ricchezza prima di far risolvere una cadenza finale! Clic felicità nella modulazione! Quanta saviezza nella condotta!» L’editore Giuseppe Magrini è conosciuto per diligenza, c accuratezza di sue edizioni, e questa promette più che mai rigorosa nell’Opera che annunzia, la quale raccomandata alla cura c valentia dell’egregio maestro Luigi Rossi, allievo pur desso del Malici’, non potrà non corrispondere ai desiderj de’più difficili. L’Opera suddetta di t30 (facciale circa conterrà ritratto c biografia dell’insigne maestro, il catalogo dell# sue opere, c de’ suoi allievi. Nel congratularci del saggio divisamente dell’editore Magrini, che con tanto coraggio offre agli studiosi opera di tanta importanza, speriamo di cuore che l’esito vi corrisponda e clic l’Italia tutta, di cui si rende cosi benemerito, unisca i suoi ai caldi nostri voti. (Artìcolo comunicalo). NOTIZIE MUSICALI ITALIANE — Vkiiona.’JII celebre Boclisa c madama Bishop, nella sera 30 scorso dicembre, diedero un’accademia al teatro filarmonico nella quale il sommo arpista a pieni voli fu dichiarato insuperabile sul proprio isti omento. Inquanto alla signora Bishop il nostro corrispondente adopera espressioni del più sentito entusiasmo c giudica questa avvenente cantante straniera meritevole di esser accolta in Italia con ogni distinzione. — Trieste. Il maestro Vincenzo Colla, da varj anni stabilito m questa città per dare lezioni di canto, di pianoforte, di contrappunto c di accompagnamento, venne testé annoverato fra i membri onorari della insigne Accademia di S. Cecilia in Roma. — Napoli. Il giovane pianista Golinclli superò nelle società particolari l’aspettazione che di lui qui si aveva. Al Dohler, onore di Napoli non meno che di tutta Italia, ora a diritto si può far succedere il nome del bolognese Golinclli quale altro degno rappresentante della forte esecuzione sul pianoforte c brillante composizione per questo islromento. Tra i suoi pezzi nelle società i nostri dilettanti c maestri accolsero con più manifesta approvazione il Capriccio sulla Lucrezia Borgia, e gli altri tuttora inediti sopra temi de’ Puritani c del Guglielmo Teli Qui trovasi pure il pianista Coop di Messina, il quale tanto come esecutore, quanto nella specialità di compositore, merita distinti clogj. GIOVANXI RICORDI EDItOItE-PROPHIETABIO. Dall’I. K. §tal»ilin»cnto Nazionale Privilegiato «li Calcografia, Copisteria e Tipografia Musicale «li GIOVAMI RICORDI Contrada degli Omenoni If. 1728.
- ↑ Riprodotta sulle scene dell’I. R. teatro alla Scala, dalla signora Frezzolini, e Alboni, e col sig. Guasco, De Bassini, ecc.
- ↑ Una progressione di cinque o sei terze può essere un accordo, secondo il sistema di Albrechtsberger, P.e Vallotti, di Asioli ecc., ma non secondo quello del Quadri, che ò un imperfetto simulacro di quello del Reicha
- ↑ (I) E in fatto il soggetto comico di quest’Opera è tratto, se non erriamo, dal libretto il Ser Marcantonio, dell’Anelli, musicato a Milano dal maestro Pavesi, nell'anno 1812