Filiberta di Savoia
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in morte del marito Giuliano de’ Medici duca di Nemours
Del ciel fra le beate anime asceso,
Scarco del mortal peso,
Dove premio si rende a chi, con fede
5Vivendo, fu d’onesto amore acceso;
A me, che del tuo ben non già sospiro,
Ma di me che ancor spiro,
Poich’al dolor che nella mente siede,
Sopr’ogni altro crudel, non si concede
10Di metter fine all’angosciosa vita;
Gli occhi, che già mi fûr benigni tanto,
Volgi ora ai miei, che al pianto
Apron sì larga e sì continua uscita:
Vedi come mutati son da quelli
15Che ti soléan parer già così belli.
L’infinita ineffabile bellezza,
Che sempre miri in ciel, non ti distorni
Che gli occhi a me non torni;
A me, cui già mirando, ti credesti
20Di spender ben tutte le notti e i giorni:
E se ’l levargli alla superna altezza
Ti leva ogni vaghezza
Di quanto mai quaggiù più caro avesti,
La pietà almen cortese mi ti presti,
25Che ’n terra unqua non fu da te lontana;
Ed ora io n’ho d’aver più chiaro segno,
Quando nel divin regno,
Dove senza me sei, n’è la fontana.
S’amor non può, dunque pietà ti pieghi
30D’inchinar il bel guardo ai giusti preghi.
Io sono, io son ben dessa. Or vedi come
M’ha cangiato il dolor fiero ed atroce,
Che a fatica la voce
Può di me dar la conoscenza vera!
35Lassa! ch’al tuo partir partì veloce
Dalle guance, dagli occhi e dalle chiome,
Questa a cui davi nome
Tu di beltade, ed io ne andava altera,
Chè mel credéa, poichè in tal pregio t’era.
40Ch’ella da me partisse allora, ed anco
Non tornasse mai più, non mi dà noja;
Poichè tu, a cui sol gioia
Di lei dar intendéa, mi vieni manco.
Non voglio, no, s’anch’io non vengo dove
45Tu sei, che questo od altro ben mi giove.
Come possibil è, quando sovvièmme
Del bel guardo soave ad ora ad ora,
Che spento ha sì breve ora,
Ond’è quel dolce e lieto riso estinto,
50Che mille volte non sia morta o môra?
Perchè, pensando all’ostro ed alle gemme
Ch’avara tomba tiêmme,
Di ch’era il viso angelico distinto,
Non scoppia il duro cor dal dolor vinto?
55Com’è ch’io viva, quando mi rimembra
Ch’empio sepolcro e invidiosa polve
Contamina e dissolve
Le delicate alabastrine membra?
Dura condizïon, chè morte, e peggio
60Patir di morte, e insieme viver deggio!
Io sperai ben di questo carcer tetro
Che qui mi serra, ignuda anima sciôrme,
E correr dietro all’orme
Delli tuoi santi piedi, e teco farmi
65Delle belle una in ciel beate forme;
Ch’io crederei, quando ti fossi dietro,
E insieme udisse Pietro
E di fede e d’amor da te lodarmi,
Che le sue porte non potría negarmi.
70Deh! perchè tanto è questo corpo forte,
Che nè la lunga febbre, nè il tormento
Che maggior nel cor sento,
Potesse trarlo a desïata morte?
Sicchè lasciato avessi il mondo teco,
75Che senza te, ch’eri suo lume, è cieco.
La cortesia e ’l valor che stati ascosi,
Non so in quali antri e latebrosi lustri,
Eran molti anni e lustri,
E che poi teco apparvero; e la speme
80Che ’n più matura etade all’opre illustri
Pareggiassero i Publi e Gnei famosi
Tuoi fatti gloriosi,
Sicchè a sentire avessero l’estreme
Genti ch’ancor viva di Marte il seme;
85Or più non veggio: nè da quella notte
Ch’agli occhi mi lasciasti un lume oscuro,
Mai più veduti fûro;
Chè ritornaro a loro antiche grotte,
E per disdegno congiuraron, quando
90Del mondo uscîr, tôrne perpetuo bando.
Del danno suo Roma infelice accorta,
Dice: ‘ Poichè costui, Morte, mi tolli?
Non mai più i sette colli
Duce vedran che trionfando possa
95Per sacra via trâr catenati i colli.
Dell’altre piaghe ond’io son quasi morta,
Forse sarei risorta;
Ma questa è in mezzo ’l cor quella percossa
Che da me ogni speranza n’ha rimossa. ’
100Turbato corse il Tebro alla marina,
E ne diè annunzio ad Ilia sua, che mesta
Gridò piangendo: ‘ Or questa
Di mia progenie è l’ultima ruina. ’
Le sante Ninfe e i boscarecci Dei
105Trassero al grido, e lagrimâr con lei.
E si sentir nell’una e l’altra riva
Pianger donne, donzelle e figlie e matri;
E da’ purpurei patri
Alla più bassa plebe il popol tutto;
110E dire: ‘ O patria, questo dì fra gli altri
D’Allia e di Canne ai posteri si scriva.
Quei giorni che captiva
Restasti, e che ’l tuo imperio fu distrutto,
Non più di questo son degni di lutto. ’
115Il desiderio, Signor mio, e ’l ricordo
Che di te in tutti gli animi è rimaso,
Non trarrà già all’occaso
Sì presto il vïolente fato ingordo;
Nè potrà far che, mentre voce e lingua
120Formin parole, il tuo nome s’estingua.
Pon questa appresso all’altre pene mie,
Chè di salir al mio signor, Canzone,
Sì ch’oda tua ragione,
D’ogni intorno ti son chiuse le vie.
125Piacesse a’ venti almen di rapportarli
Ch’io di lui sempre pensi, o pianga o parli!