Er terramoto de venardí

Giuseppe Gioachino Belli

1832 Indice:Sonetti romaneschi II.djvu corone di sonetti letteratura Er terramoto de venardí Intestazione 3 marzo 2024 100% Da definire

L'ommini der Monno novo Er teremoto
Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1832

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ER TERRAMOTO DE VENARDÌ.1

1.

     Rimonno2 ha scritto da Fuligno ar nonno
Ch’un trave che ccascò dar primo piano,
Mentre lui stava a ppranzo in ner siconno,
L’acchiappò in testa e jje stroncò le mano.

     E sséguita la lettra de Rimonno
Che nun c’è bbarba-d’omo de cristiano
Che ss’aricordi da che mmonno è mmonno
Un antro terramoto meno piano.

     E ddisce ch’è un miracolo chi ccampi,
Perché la scossa venne a l’improviso,
Peggio de cuer che vièngheno li lampi.

     E mmo, pe nnun fà er fine de li sorci,
E nnun annà, Ddio guardi, in paradiso,
Stanno tutti in campagna com’e pporci.

19 gennaio 1832.


Note

  1. Il terribile tremuoto di Fuligno, del venerdì 13 gennaio 1832, alle due pomeridiane, che si sentì leggermente anche a Roma.
  2. Raimondo.
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ER MEDÉMO.1

2.

     Io stavo in piede avanti der cammino
Posanno la marmitta sur fornello,
Quanto sento uno scrocchio ar tavolino,
E ddà ddu’ o ttre ttocchetti er campanello!

     M’arivorto, e tte vedo er credenzino,
Tu ttu ttu ttù, ttremajje lo sportello.
Arzo l’occhi ar zolaro, e ppare infino
Fà de questo2 la gabbia de l’uscello.

     Tratanto er gatto, fsc, zompa tant’arto,3
Er campanello ricomincia er zono,
E una luscerna me va ggiù de cuarto.4

     Io mo ddunque te dico, e nnun cojjono,
Che sti tocchi, sto trittico e sto sarto5
Vònno6 dì tterramoto bbell’e bbono.

19 gennaio 1832.


Note

  1. Vedi la nota 1 dell’antecedente.
  2. Accompagnando le parole col moto d’un braccio a pendolo.
  3. Misurando colla mano tesa un’altezza da terra.
  4. [Annà o cascà giù de quarto, dicesi propriamente del cavallo, quando, cadendo di fianco, va tutto in terra.]
  5. Salto.
  6. [Vogliono.]
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ER MEDÉMO.

3.

     E io? pe’ sscegne1 in chiesa, propio allora
M’ero appuntata in testa la bbautta,
Quanno che mme sentii cunnolà2 ttutta,
E ccome una smanietta de dà ffòra.3

     Nun te so ddì ccome arimasi bbrutta:
So cche ccurzi a bbussà a la doratora:
“Sora Lionora mia, sora Lionora,
Uprite, oh Dio, che lla luscerna bbutta.„

     Tra ttutto sce4 poté ccurre er divario
D’un par de crèdi, c’uscì mmezza morta
Da la stanzia der letto cór vicario.

     E llì un zuttumpresidio;5 e, a ffàlla corta,
Su ddu’ piedi intonassimo er rosario,
Tutt’e ttre ssott’er vano de la porta.6

19 gennaio 1832.


Note

  1. Scendere.
  2. Cunnare, tentennare.
  3. Recere.
  4. Ci.
  5. Sub tuum praesidium, antifona che precede il rosario.
  6. È opinione del volgo che nel vano di una porta si sia salvi e sicuri.
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ER MEDÉMO.

4.

     C’ha cche ffà er terramoto de Fuligno
Co’ la commedia der teatro Pasce?!1
C’entra come ch’er fischio e la bbammasce,2
Come la fr.... e ’r domminumzuddigno.3

     E cquì ha rraggione lui Mastro Grespigno,
Cuer ch’abbòtta4 li fiaschi a la fornasce,
Ch’er terramoto è un spirito maligno,
Che ttanto5 fa cquer che jje pare e ppiasce.

     Nun ze pò6 ppregà Iddio matin’ e ggiorno
E annassene la sera a la commedia?
Cuesto che gguasta ar terramoto, un corno?

     Bella raggion der c....! propio bbella!
Perché ar Papa je trittica7 la ssedia,
Se mette la mordacchia8 a Ppurcinella!

19 gennaio 1832Fonte/commento: Sonetti romaneschi/Correzioni e Aggiunte.


Note

  1. Correva voce che si dovesse celebrare un triduo di penitenza con sospensione di recite nei teatri di Roma.
  2. Bambagia.
  3. Domine non sum dignus.
  4. [Gonfia. Donde il modo proverbiale: nun zo’ ffiaschi, che s’abbòttano, per dire che una data cosa non si può fare in un momento.]
  5. Ad ogni modo.
  6. Non si può.
  7. Trema. Può anche riguardarsi come allusione politica.
  8. Strumento da serrare la lingua. [Si metteva ai condannati a morte, nel condurli al supplizio, quando si sospettava che potessero dir cose da eccitare scandalo o tumulto; e perciò la misero anche a Giordano Bruno. “Giovedì fu abbrugiato vivo in Campo di Fiore quel frate di S. Domenico di Nola, heretico pertinace, con la lingua in giova, per le bruttissime parole che diceva, senza voler ascoltare nè confortatori nè altri.„ Così dice uno degli Avvisi di Roma, sotto la data del 19 febbraio 1600, pubblicato per la prima volta dal Bongi, poi dal Berti e da altri; e glova o gióa è precisamente (cosa non avvertita fin qui) il corrispondente veneziano di mordacchia. — Si metteva altresì a’ bestemmiatori, allorchè, frustandoli, si portavano in berlina sull’asino; ed eccone un esempio, raccontato dall’abate Benedetti nel suo Diario, dal quale lo ha gentilmente trascritto per me il cav. Silvagni, che ne è possessore: “Prima Domenica di Novembre 1774:... mentre succedeva questo fracasso, s’è sentito il rumore d’un tamburro. Era la Corte che portava due malfattori in berlina sopra un somaro. Venivano dal Governo Vecchio e andavano a Piazza di Campo de Fiori. Il primo pareva un facchino tutto scamisciato, colla Mitra e li diavoli, perchè era bestemmiatore. L’Aguzzino li dava le frustate, ma lui bestemmiava coll’occhi, perchè aveva la mordacchia.„ — Esempi poi di bestemmiatori esposti alla berlina con la mordacchia sulle porte delle chiese, ma senz’asino e senza fustigazione, se ne ebbero fin verso il 1840. E tutto questo non era molto, a confronto di quanto ordinava il cardinal Giustiniani arcivescovo d’Imola, nella Notificazione del 3 giugno 1828, la quale diceva testualmente cosi: “Se„ il bestemmiatore “fosse povero plebeo, la prima volta stia un giorno legato alla porta della Chiesa, la seconda frustato, la terza forata la lingua e posto in galera.„]