Enrico IV (1965)/Atto II
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ATTO SECONDO
Altra sala della villa, contigua a quella del trono, addobbata di mobili antichi e austeri. A destra, a circa due palmi dal suolo, è come un coretto, cinto da una ringhiera di legno a pilastrini, interterrotta lateralmente e sul davanti, ove sono i due gradini d’accesso. Su questo coretto sarà una tavola e cinque seggioloni di stile, uno a capo e due per lato. La comune in fondo. A sinistra due finestre che dànno sul giardino. A destra un uscio che dà nella sala del trono. Nel pomeriggio avanzato dello stesso giorno.
Sono in scena Donna Matilde, il Dottore e Tito Belcredi. Seguitano una conversazione; ma Donna Matilde si tiene appartata, fosca, evidentemente infastidita da ciò che dicono gli altri due, a cui tuttavia non può fare a meno di prestare orecchio, perché nello stato d’irrequietezza in cui si trova, ogni cosa la interessa suo malgrado, impedendole di concentrarsi a maturare un proposito piú forte di lei, che le balena e la tenta. Le parole che ode degli altri due attraggono la sua attenzione, perché istintivamente sente come il bisogno d’esser trattenuta in quel momento.
Belcredi. Sarà, sarà come lei dice, caro dottore, ma questa è la mia impressione.
Dottore. Non dico di no; ma creda che è soltanto... cosí, un’impressione.
Belcredi. Scusi: però l’ha perfino detto, e chiaramente!
Voltandosi alla Marchesa:
Donna Matilde (frastornata, voltandosi). Che ha detto?
Poi, non consentendo
Dottore. Intendeva dei nostri abiti soprammessi: il suo manto indica la Marchesa le nostre tonache da benedettini. E tutto questo è puerile.
Donna Matilde (di scatto, voltandosi di nuovo sdegnata). Puerile? Che dice, dottore?
Dottore. Da un canto, sí! Prego; mi lasci dire, Marchesa. Ma dall’altro, molto piú complicato di quanto possiate immaginare.
Donna Matilde. Per me è chiarissimo, invece.
Dottore (col sorriso di compatimento d’un competente verso gli incompetenti). Eh sí! Bisogna intendere questa speciale psicologia dei pazzi, per cui guardi si può essere anche sicuri che un pazzo nota, può notare benissimo un travestimento davanti a lui; e assumerlo come tale; e sissignori, tuttavia, crederci; proprio come fanno i bambini, per cui è insieme giuoco e realtà. Ho detto perciò puerile. Ma è poi complicatissimo in questo senso, ecco: che egli ha, deve avere perfettamente coscienza di essere per sé, davanti a se stesso, una Immagine: quella sua immagine là!
Allude al ritratto nella sala del trono, indicando perciò alla sua sinistra.
Belcredi. L’ha detto!
Dottore. Ecco, benissimo! — Un’immagine, a cui si sono fatte innanzi altre immagini: le nostre, mi spiego? Ora egli, nel suo delirio acuto e lucidissimo ha potuto avvertire subito una differenza tra la sua e le nostre: cioè, che c’era in noi, nelle nostre immagini, una finzione. E ne ha diffidato. Tutti i pazzi sono sempre armati d’una continua vigile diffidenza. Ma questo è tutto! A lui naturalmente non è potuto sembrare pietoso questo nostro giuoco, fatto attorno al suo. E il suo a noi s’è mostrato tanto piú tragico, quanto piú egli, quasi a sfida mi spiego? indotto dalla diffidenza, ce l’ha voluto scoprire appunto come un giuoco; anche il suo, sissignori, venendoci avanti con un po’ di tintura sulle tempie e sulle guance, e dicendoci che se l’era data apposta, per ridere!
Donna Matilde (scattando di nuovo). No. Non è questo, dottore! Non è questo! non è questo!
Dottore. Ma come non è questo?
Donna Matilde (recisa, vibrante). Io sono sicurissima ch’egli m’ha riconosciuta!
Dottore. Non è possibile... non è possibile...
Belcredi (contemporaneamente). Ma che!
Donna Matilde (ancora piú recisa, quasi convulsa). M’ha riconosciuta, vi dico. Quand’è venuto a parlarmi da vicino, guardandomi negli occhi, proprio dentro gli occhi m’ha riconosciuta!
Belcredi. Ma se parlava di vostra figlia...
Donna Matilde. Non è vero! Di me! Parlava di me!
Belcredi. Sí, forse, quando disse...
Donna Matilde (subito, senza ritegno). Dei miei capelli tinti! Ma non avete notato che aggiunse subito: «oppure il ricordo del vostro color bruno, se eravate bruna»? — S’è ricordato perfettamente che io, «allora», ero bruna.
Belcredi. Ma che! Ma che!
Donna Matilde (senza dargli retta, rivolgendosi al Dottore). I miei capelli, dottore, sono difatti bruni come quelli di mia figlia. E perciò s’è messo a parlare di lei!
Belcredi. Ma se non la conosce, vostra figlia! Se non l’ha mai veduta!
Donna Matilde. Appunto! Non capite nulla! Per mia figlia intendeva me; me com’ero allora!
Belcredi. Ah, questo è contagio! Questo è contagio!
Donna Matilde (piano, con sprezzo). Ma che contagio! Sciocco!
Belcredi. Scusate, siete stata mai sua moglie, voi? Vostra figlia, nel suo delirio, è sua moglie: Berta di Susa.
Donna Matilde. Ma perfettamente! Perché io, non piú bruna — com’egli mi ricordava — ma «cosí», bionda, mi sono presentata a lui come «Adelaide» la madre. Mia figlia per lui non esiste non l’ha mai veduta l’avete detto voi stesso. Che ne sa perciò, se sia bionda o bruna?
Belcredi. Ma ha detto bruna, cosí, in generale, Dio mio! di chi vuol fissare, comunque, sia bionda sia bruna, il ricordo della gioventú nel colore dei capelli! E voi al solito vi mettete a fantasticare! — Dottore, dice che non sarei dovuto venire io ma non sarebbe dovuta venire lei!
Donna Matilde (abbattuta per un momento dall’osservazione del Belcredi, e rimasta assorta, ora si riprende, ma smaniosa perché dubitante). No... no... parlava di me... Ha parlato sempre a me e con me e di me...
Belcredi. Alla grazia! Non m’ha lasciato un momento di respiro, e dite che ha parlato sempre di voi? Tranne che non vi sia parso che alludesse anche a voi, quando parlava con Pietro Damiani!
Donna Matilde (con aria di sfida, quasi rompendo ogni freno di convenienza). E chi lo sa? — Mi sapete dire perché subito, fin dal primo momento, ha sentito avversione per voi, soltanto per voi?
Dal tono della domanda deve risultare infatti, quasi esplicita, la risposta: «Perché ha capito che voi siete il mio amante!» — Il Belcredi lo avverte cosí bene, che li per lí resta come smarrito in un vano sorriso.
Dottore. La ragione, scusino, può essere anche nel fatto che gli fu annunziata soltanto la visita della Duchessa Adelaide e dell’Abate di Cluny. Trovandosi davanti un terzo, che non gli era stato annunziato, subito la diffidenza...
Belcredi. Ecco, benissimo, la diffidenza gli fece vedere in me un nemico: Pietro Damiani! — Ma se è intestata, che l’abbia riconosciuta...
Donna Matilde. Su questo non c’è dubbio! — Me l’hanno detto i suoi occhi, dottore: sapete quando si guarda in un modo che... che nessun dubbio è piú possibile! Forse fu un attimo, che volete che vi dica?
Dottore. Non è da escludere: un lucido momento...
Donna Matilde. Ecco forse! E allora il suo discorso m’è parso pieno, tutto, del rimpianto della mia e della sua gioventú per questa cosa orribile che gli è avvenuta, e che l’ha fermato lí, in quella maschera da cui non s’è potuto piú distaccare, e da cui si vuole, si vuole distaccare!
Belcredi. Già! Per potersi mettere ad amar vostra figlia. Ο voi, come credete intenerito dalla vostra pietà.
Donna Matilde. Che è tanta, vi prego di credere!
Belcredi. Si vede, Marchesa! Tanta che un taumaturgo vedrebbe piú che probabile il miracolo.
Dottore. Permettete che parli io adesso? Io non faccio miracoli, perché sono un medico e non un taumaturgo, io. Sono stato molto attento a tutto ciò che ha detto, e ripeto che quella certa elasticità analogica, propria di ogni delirio sistematizzato, è evidente che in lui è già molto... come vorrei dire? rilassata. Gli elementi, insomma, del suo delirio non si tengono piú saldi a vicenda. Mi pare che si riequilibri a stento, ormai, nella sua personalità soprammessa, per bruschi richiami che lo strappano — (e questo è molto confortante) — non da uno stato di incipiente apatia, ma piuttosto da un morbido adagiamento in uno stato di malinconia riflessiva, che dimostra una... sí, veramente considerevole attività cerebrale. Molto confortante, ripeto. Ora, ecco, se con questo trucco violento che abbiamo concertato...
Donna Matilde (voltandosi verso la finestra, col tono di una malata che si lamenti). Ma com’è che ancora non ritorna quest’automobile? In tre ore e mezzo...
Dottore (stordito). Come dice?
Donna Matilde. Quest’automobile, dottore! Sono piú di tre ore e mezzo!
Dottore (cavando e guardando l’orologio). Eh, piú di quattro per questo!
Donna Matilde. Potrebbe esser qua da mezz’ora, almeno. Ma, al solito...
Belcredi. Forse non trovano l’abito.
Donna Matilde. Ma se ho indicato con precisione dov’è riposto!
(È impazientissima)
Belcredi (sporgendosi un po’ dalla finestra). Sarà forse in giardino con Carlo.
Dottore. La persuaderà a vincere la paura...
Belcredi. Ma non è paura, dottore; non ci creda! È che si secca.
Donna Matilde. Fatemi il piacere di non pregarla affatto! Io so com’è!
Dottore. Aspettiamo, con pazienza. Tanto, si farà tutto in un momento e dev’esser di sera. Se riusciamo a scrollarlo, dicevo, a spezzare d’un colpo con questo strappo violento i fili già rallentati che lo legano ancora alla sua finzione, ridandogli quello che egli stesso chiede (l’ha detto: «Non si può aver sempre ventisei anni, Madonna!») la liberazione da questa condanna, che pare a lui stesso una condanna: ecco, insomma, se otteniamo che riacquisti d’un tratto la sensazione della distanza del tempo...
Belcredi (subito). Sarà guarito!
Poi sillabando con intenzione ironica:
Dottore. Potremo sperare di riaverlo, come un orologio che si sia arrestato a una cert’ora. Ecco, sí, quasi coi nostri orologi alla mano, aspettare che si rifaccia quell’ora — là, uno scrollo! — e speriamo che esso si rimetta a segnare il suo tempo, dopo un cosí lungo arresto.
Entra a questo punto dalla comune il marchese Carlo di Nolli.
Donna Matilde. Ah, Carlo... E Frida? Dove se n’è andata?
Di Nolli. Eccola, viene a momenti.
Dottore. L’automobile è arrivata?
Di Nolli. Sí.
Donna Matilde. Ah sí? E ha portato l’abito?
Di Nolli. È già qui da un pezzo.
Dottore. Oh, benissimo, allora!
Donna Matilde (fremente). E dov’è? Dov’è?
Di Nolli (stringendosi nelle spalle e sorridendo triste, come uno che si presti mal volentieri a uno scherzo fuor di luogo). Mah... Ora vedrete...
E indicando verso la comune:
Si presenta sulla soglia della comune Bertoldo che annuncia con solennità:
Bertoldo. Sua Altezza la Marchesa Matilde di Canossa!
E subito entra Frida magnifica e bellissima; parata con l’antico abito della madre da «Marchesa Matilde di Toscana» in modo da figurare, viva, l’immagine effigiata nel ritratto della sala del trono.
Frida (passando accanto a Bertoldo che s’inchina, gli dice con sussiego sprezzante): Di Toscana, di Toscana, prego. Canossa è un mio castello.
Belcredi (ammirandola). Ma guarda! Ma guarda! Pare un’altra!
Donna Matilde. Pare me! — Dio mio, vedete? — Ferma, Frida! — Vedete? È proprio il mio ritratto, vivo!
Dottore. Sí, sí... Perfetto! Perfetto! Il ritratto!
Belcredi. Eh sí, c’è poco da dire... È quello! Guarda, guarda! Che tipo!
Frida. Non mi fate ridere, che scoppio! Dico, ma che vitino avevi, mamma? Mi son dovuta succhiare tutta, per entrarci!
Donna Matilde (convulsa, rassettandola). Aspetta... Ferma... Queste pieghe... Ti va cosí stretto veramente?
Frida. Soffoco! Bisognerà far presto, per carità...
Dottore. Eh, ma dobbiamo prima aspettare che si faccia sera...
Frida. No no, non ci resisto, non ci resisto fino a sera!
Donna Matilde. Ma perché te lo sei indossato cosí subito?
Frida. Appena l’ho visto! La tentazione! Irresistibile...
Donna Matilde. Potevi almeno chiamarmi! Farti ajutare... È ancora tutto spiegazzato, Dio mio...
Frida. Ho visto, mamma. Ma, pieghe vecchie... Sarà difficile farle andar via.
Dottore. Non importa, Marchesa! L’illusione è perfetta.
Poi, accostandosi e invitandola a venire un po’ avanti allafiglia, senza tuttavia coprirla:
Belcredi. Per la sensazione della distanza del tempo!
Donna Matilde (voltandosi a lui, appena). Vent’anni dopo! Un disastro, eh?
Belcredi. Non esageriamo!
Dottore (imbarazzatissimo per rimediare). No, no! Dicevo anche... dico, dico per l’abito... dico per vedere...
Belcredi (ridendo). Ma per l’abito, dottore, altro che vent’anni! Sono ottocento! Un abisso! Glielo vuol far saltare davvero con un urtone?
Indicando prima Frida e poi la Marchesa:
indica Frida
il Dottore fa segno di no col dito
Dottore. No. Perché la vita, caro barone, riprende! Qua — questa nostra — diventerà subito reale anche per lui; e lo tratterrà subito, strappandogli a un tratto l’illusione e scoprendogli che sono appena venti gli ottocent’anni che lei dice! Sarà, guardi, come certi trucchi, quello del salto nel vuoto, per esempio, del rito massonico, che pare chi sa che cosa, e poi alla fine s’è sceso uno scalino.
Belcredi. Oh che scoperta! Ma sí! — Guardate Frida e la Marchesa, dottore! Chi è piú avanti? — Noi vecchi, dottore! Si credono piú avanti i giovani; non è vero: siamo piú avanti noi, di quanto il tempo è piú nostro che loro.
Dottore. Eh, se il passato non ci allontanasse!
Belcredi. Ma no! Da che? Se loro
indica Frida e Di Nolli
mostra Frida
E le si inchina profondamente.
Di Nolli. Ti prego, ti prego, Tito: non scherziamo.
Belcredi. Ah, se ti pare che io scherzi...
Di Nolli. Ma sí, Dio mio... da che sei venuto...
Belcredi. Come! Mi sono perfino vestito da benedettino...
Di Nolli. Già! Per fare una cosa seria...
Belcredi. Eh, dico... se è stato serio per gli altri... ecco, per Frida, ora, per esempio...
Poi, voltandosi al Dottore:
Dottore (seccato). Ma lo vedrà! Mi lasci fare... Sfido! Se lei vede la Marchesa ancora vestita cosí...
Belcredi. Ah, perché deve anche lei...?
Dottore. Sicuro! Sicuro! Con un altro abito che è di là, per quando a lui viene in mente di trovarsi davanti alla Marchesa Matilde di Canossa...
Frida (mentre conversa piano col Di Nolli, avvertendo che il Dottore sbaglia). Di Toscana! Di Toscana!
Dottore (c. s.). Ma è lo stesso!
Belcredi. Ah, ho capito! Se ne troverà davanti due...?
Dottore. Due, precisamente. E allora...
Frida (chiamandolo in disparte). Venga qua, dottore, senta!
Dottore. Eccomi!
Si accosta ai due giovani e finge di dar loro spiegazioni.
Belcredi (piano, a Donna Matilde). Eh, per Dio! Ma dunque...
Donna Matilde (rivoltandosi con viso fermo). Che cosa?
Belcredi. V’interessa tanto veramente? Tanto da prestarvi a questo? È enorme per una donna!
Donna Matilde. Per una donna qualunque!
Belcredi. Ah no, per tutte, cara, su questo punto! È una abnegazione...
Donna Matilde. Gliela devo!
Belcredi. Ma non mentite! Voi sapete di non avvilirvi.
Donna Matilde. E allora? Che abnegazione?
Belcredi. Quanto basta per non avvilire voi agli occhi degli altri, ma per offendere me.
Donna Matilde. Ma chi pensa a voi in questo momento!
Di Nolli (venendo avanti). Ecco, ecco, dunque, sí, sí, faremo cosí...
Rivolgendosi a Bertoldo
Bertoldo. Subito!
Esce per la comune.
Donna Matilde. Ma dobbiamo fingere prima di licenziarci!
Di Nolli. Appunto! Lo faccio chiamare per predisporre il vostro licenziamento.
A Belcredi:
Belcredi (tentennando il capo ironicamente). Ma sí, ne faccio a meno... ne faccio a meno...
Di Nolli. Anche per non metterlo di nuovo in diffidenza, capisci?
Belcredi. Ma sí! Quantité négligeable!
Dottore. Bisogna dargli assolutamente, assolutamente la certezza che ce ne siamo andati via.
Entra dall’uscio a destra Landolfo seguito da Bertoldo.
Landolfo. Permesso?
Di Nolli. Avanti, avanti! Ecco... — Vi chiamate Lolo, voi?
Landolfo. Lolo o Landolfo, come vuole!
Di Nolli. Bene, guardate. Adesso il dottore e la Marchesa si licenzieranno...
Landolfo. Benissimo. Basterà dire che hanno ottenuto dal Pontefice la grazia del ricevimento. È lí nelle sue stanze, che geme pentito di tutto ciò che ha detto, e disperato che la grazia non l’otterrà. Se vogliono favorire... Avranno la pazienza di indossare di nuovo gli abiti...
Dottore. Sí, sí, andiamo, andiamo...
Landolfo. Aspettino. Mi permetto di suggerir loro una cosa: d’aggiungere che anche la Marchesa Matilde di Toscana ha implorato con loro dal Pontefice la grazia, che sia ricevuto.
Donna Matilde. Ecco! Vedete se m’ha riconosciuta?
Landolfo. No. Mi perdoni. È che teme tanto l’avversione di quella Marchesa che ospitò il Papa nel suo Castello. È strano: nella storia, che io sappia — ma lor signori sono certo in grado di saperlo meglio di me — non è detto, è vero, che Enrico IV amasse segretamente la Marchesa di Toscana?
Donna Matilde (subito). No: affatto. Non è detto! Anzi, tutt’altro!
Landolfo. Ecco, mi pareva! Ma egli dice d’averla amata. — lo dice sempre... — E ora teme che lo sdegno di lei per questo amore segreto debba agire a suo danno sull’animo del Pontefice.
Belcredi. Bisogna fargli intendere che questa avversione non c’è piú!
Landolfo. Ecco! Benissimo!
Donna Matilde (a Landolfo). Benissimo, già!
Poi, a Belcredi
Belcredi. Ma allora, a meraviglia, cara Marchesa! Seguite, seguite la storia...
Landolfo. Ecco. Senz’altro, allora, la signora potrebbe risparmiarsi un doppio travestimento e presentarsi con Monsignore
indica il Dottore
Dottore (subito, con forza). No no! Questo no, per carità! Rovinerebbe tutto! L’impressione del confronto dev’esser subitanea, di colpo. No, no. Marchesa, andiamo, andiamo: lei si presenterà di nuovo come la duchessa Adelaide, madre dell’Imperatrice. E ci licenzieremo. Questo è soprattutto necessario: che egli sappia che ce ne siamo andati. Su, su: non perdiamo altro tempo, ché ci resta ancora tanto da preparare.
Via il Dottore, Donna Matilde e Landolfo per l’uscio di destra
Frida. Ma io comincio ad aver di nuovo una gran paura...
Di Nolli. Daccapo, Frida?
Frida. Era meglio, se lo vedevo prima...
Di Nolli. Ma credi che non ce n’è proprio di che!
Frida. Non è furioso?
Di Nolli. Ma no! È tranquillo.
Belcredi (con ironica affettazione sentimentale). Malinconico! Non hai sentito che ti ama?
Frida. Grazie tante! Giusto per questo!
Belcredi. Non ti vorrà far male...
Di Nolli. Ma sarà poi l’affare d’un momento...
Frida. Già, ma là al bujo! con lui...
Di Nolli. Per un solo momento, e io ti sarò accanto e gli altri saranno tutti dietro le porte, in agguato, pronti ad accorrere. Appena si vedrà davanti tua madre, capisci? per te, la tua parte sarà finita...
Belcredi. Il mio timore, piuttosto, è un altro: che si farà un buco nell’acqua.
Di Nolli. Non cominciare! A me il rimedio pare efficacissimo!
Frida. Anche a me, anche a me! Già lo avverto in me... Sono tutta un fremito!
Belcredi. Ma i pazzi, cari miei — (non lo sanno, purtroppo!) — ma hanno questa felicità di cui non teniamo conto...
Di Nolli (interrompendo, seccato). Ma che felicità, adesso! Fa’ il piacere!
Belcredi (con forza). Non ragionano!
Di Nolli. Ma che c’entra qua il ragionamento, scusa?
Belcredi. Come! Non ti pare tutto un ragionamento che secondo noi egli dovrebbe fare, vedendo lei,
indica Frida
Di Nolli. No, niente affatto: che ragionamento? Gli presentiamo una doppia immagine della sua stessa finzione, come ha detto il dottore!
Belcredi (con uno scatto improvviso). Senti: io non ho mai capito perché si laureino in medicina!
Di Nolli (stordito). Chi?
Belcredi. Gli alienisti.
Di Nolli. Oh bella, e in che vuoi che si laureino?
Frida. Se fanno gli alienisti!
Belcredi. Appunto! In legge, cara! Tutte chiacchiere! E chi piú sa chiacchierare, piú è bravo! «Elasticità analogica», «la sensazione della distanza del tempo!» E intanto la prima cosa che dicono è che non fanno miracoli — quando ci vorrebbe proprio un miracolo! Ma sanno che piú ti dicono che non sono taumaturghi, e piú gli altri credono alla loro serietà — non fanno miracoli — e cascano sempre in piedi, che è una bellezza!
Bertoldo (che se ne è stato a spiare dietro l’uscio a destra, guardando attraverso il buco della serratura). Eccoli! Eccoli! Accennano a venire qua...
Di Nolli. Ah sí?
Bertoldo. Pare che egli li voglia accompagnare... Sí, sí, eccolo, eccolo!
Di Nolli. Ritiriamoci allora! Ritiriamoci subito!
Voltandosi a Bertoldo prima di uscire:
Bertoldo. Debbo restare?
Senza dargli risposta, Di Nolli, Frida e Belcredi scappano per la comune, lasciando Bertoldo sospeso e smarrito. S’apre l’uscio a destra e Landolfo entra per primo, subito inchinandosi, entrano poi Donna Matilde col manto e la corona ducale, come nel primo atto e il Dottore con la tonaca di Abate di Cluny; Enrico IV è fra loro, in abito regale; entrano infine Ordulfo e Arialdo.
Enrico IV (seguitando il discorso che si suppone cominciato nella sala del trono). E io vi domando, come potrei essere astuto, se poi mi credono caparbio...
Dottore. Ma no, che caparbio, per carità!
Enrico IV (sorridendo, compiaciuto). Sarei per voi allora veramente astuto?
Dottore. No, no, né caparbio, né astuto!
Enrico IV (si ferma ed esclama col tono di chi vuol far notare benevolmente, ma anche ironicamente, che cosí non può stare): Monsignore! Se la caparbietà non è vizio che possa accompagnarsi con l’astuzia, speravo che, negandomela, almeno un po’ d’astuzia me la voleste concedere. V’assicuro che mi è molto necessaria! Ma se voi ve la volete tenere tutta per voi...
Dottore. Ah, come, io? Vi sembro astuto?
Enrico IV. No, Monsignore! Che dite! Non sembrate affatto!
Troncando per rivolgersi a Donna Matilde:
La conduce un po’ in disparte e le domanda con ansia in gran segreto:
Donna Matilde (smarrita). Ma sí, certo...
Enrico IV. E volete che la ricompensi con tutto il mio amore, con tutta la mia devozione dei gravi torti che ho verso di lei, benché non dobbiate credere alle dissolutezze di cui m’accusano i miei nemici?
Donna Matilde. No no: io non ci credo: non ci ho mai creduto...
Enrico IV. Ebbene, allora, volete?
Donna Matilde (c. s.). Che cosa?
Enrico IV. Che io ritorni all’amore di vostra figlia?
La guarda, e aggiunge subito in tono misterioso, d’ammonimento e di sgomento insieme:
Donna Matilde. Eppure vi ripeto che ella non ha pregato, non ha scongiurato meno di noi per ottenere la vostra grazia...
Enrico IV (subito, piano, fremente). Non me lo dite! Non me lo dite! Ma perdio, Madonna, non vedete che effetto mi fa?
Donna Matilde (lo guarda, poi pianissimo, come confidandosi). Voi l’amate ancora?
Enrico IV (sbigottito). Ancora? Come dite ancora? Voi forse, sapete? Nessuno lo sa! Nessuno deve saperlo!
Donna Matilde. Ma forse lei sí, lo sa, se ha tanto implorato per voi!
Enrico IV (la guarda un po’ e poi dice): E amate la vostra figliuola?
Breve pausa. Si volge al Dottore con un tono di riso:
Volgendosi al Dottore, con esasperazione:
Ed eccitandosi sempre piú:
Landolfo (umile). Forse per levarvi, Maestà, un’opinione contraria che abbiate potuto concepire della Marchesa di Toscana.
E sgomento di essersi permesso questa osservazione, aggiunge subito:
Enrico IV. Perché anche tu sostieni che mi sia stata amica?
Landolfo. Sí, in questo momento, sí, Maestà!
Donna Matilde. Ecco, sí, proprio per questo...
Enrico IV. Ho capito. Vuol dire allora che non credete che io la ami. Ho capito. Ho capito. Non l’ha mai creduto nessuno; nessuno mai sospettato. Tanto meglio cosí! Basta. Basta.
Tronca, rivolgendosi al Dottore con animo e viso del tutto diversi
Come in confidenza
E con altro tono, in confidenza al Dottore:
Davanti alla soglia della comune, fin dove li ha accompagnati, li licenzia, ricevendone l’inchino. Donna Matilde e il Dottore, via. Egli richiude la porta e si volta subito, cangiato.
Dirà questo con gaja prorompente frenesia, movendo di qua, di là i passi, gli occhi, finché all’improvviso non vede Bertoldo, piú che sbalordito, impaurito del repentino cambiamento. Gli si arresta davanti e additandolo ai tre compagni anch’essi come smarriti nello sbalordimento:
Lo scrolla per le spalle.
Landolfo Arialdo Ordulfo (sconvolti, trasecolati, guardandosi tra loro). Come! Che dice? Ma dunque?
Enrico IV (si volta subito alle loro esclamazioni e grida, imperioso): Basta! Finiamola! Mi sono seccato!
Poi subito, come se, a ripensarci, non se ne possa dar pace, e non sappia crederci:
S’arresta d’un tratto, notando i quattro che si agitano, piú che mai sgomenti e sbalorditi.
Rifà smorfiosamente i segni del loro stupore.
Ah! Eh! Che rivelazione? — Sono o non sono? Eh via, sí, sono pazzo!
Si fa terribile
Li forza a inginocchiarsi tutti a uno a uno:
Alla vista dei quattro inginocchiati si sente subito svaporare la feroce gajezza, e se ne sdegna.
Si para davanti a Bertoldo, ormai istupidito.
Bertoldo. Io?... Eh... Bertoldo...
Enrico IV. Ma che Bertoldo, sciocco! Qua a quattr’occhi: come ti chiami?
Bertoldo. Ve... veramente mi... mi chiamo Fino...
Enrico IV (a un atto di richiamo e di ammonimento degli altri tre, appena accennato, voltandosi subito per farli tacere). Fino?
Bertoldo. Fino Pagliuca, sissignore.
Enrico IV (volgendosi di nuovo agli altri). Ma se vi ho sentito chiamare tra voi, tante volte!
A Landolfo
Landolfo. Sissignore...
Poi con uno scatto di gioja:
Enrico IV (subito, brusco). Che cosa?
Landolfo (d’un tratto smorendo). No... dico...
Enrico IV. Non sono piú pazzo? Ma no! Non mi vedete?
— Scherziamo alle spalle di chi ci crede.
Ad Arialdo
A Ordulfo
Ordulfo. Momo!
Enrico IV. Ecco, Momo! Che bella cosa, eh?
Landolfo (c. s.). Ma dunque... oh Dio...
Enrico IV (c. s.). Che? Niente! Facciamoci tra noi una bella, lunga, grande risata...
E ride.
Landolfo Arialdo Ordulfo (guardandosi tra loro, incerti, smarriti, tra la gioja e lo sgomento). È guarito? Ma sarà vero? Com’è?
Enrico IV. Zitti! Zitti!
A Bertoldo:
Bertoldo. Ma perché... forse, credono che...
Enrico IV. No, caro... no, caro... Guardami bene negli occhi... — Non dico che sia vero, stai tranquillo! — Niente è vero! — Ma guardami negli occhi!
Bertoldo. Sí, ecco, ebbene?
Enrico IV. Ma lo vedi? lo vedi? Tu stesso! Lo hai anche tu, ora, lo spavento negli occhi! — Perché ti sto sembrando pazzo! — Ecco la prova! Ecco la prova!
E ride.
Landolfo (a nome degli altri, facendosi coraggio, esasperato). Ma che prova?
Enrico IV. Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto sembrando pazzo! — Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete creduto fino ad ora che sono pazzo! — È vero o no?
Li guarda un po’, li vede atterriti.
indica tre di loro
Pausa lungamente tenuta. L’ombra, nella sala, comincia ad addensarsi, accrescendo quel senso di smarrimento e di piú profonda costernazione da cui quei quattro mascherati sono compresi e sempre piú allontanati dal grande Mascherato, rimasto assorto a contemplare una spaventosa miseria che non è di lui solo, ma di tutti. Poi egli si riscuote, fa come per cercare i quattro che non sente piú attorno a sé e dice:
Ordulfo (subito, facendosi avanti). Vuole che vada a prendere la lampa?
Enrico IV (con ironia). La lampa, sí... Credete che non sappia che, appena volto le spalle con la mia lampa ad olio per andare a dormire, accendete la luce elettrica per voi qua e anche là nella sala del trono? — Fingo di non vederla...
Ordulfo. Ah! — Vuole allora...?
Enrico IV. No: m’accecherebbe. Voglio la mia lampa.
Ordulfo. Ecco, sarà già pronta, qua dietro la porta.
Si reca alla comune; la apre; ne esce appena e subito ritorna con una lampa antica, di quelle che si reggono con un anello in cima.
Enrico IV (prendendo la lampa e poi indicando la tavola sul coretto). Ecco, un po’ di luce. Sedete, lí attorno alla tavola. Ma non cosí! In belli e sciolti atteggiamenti...
Ad Arialdo:
lo atteggia, poi a Bertoldo:
lo atteggia:
Va a sedere anche lui.
Volgendo il capo verso una delle finestre:
Landolfo (piano ad Arialdo, come per non rompere l’incanto). Eh, capisci? A sapere che non era vero...
Enrico IV. Vero, che cosa?
Landolfo (titubante, come per scusarsi). No... ecco... perché a lui
indica Bertoldo
accenna alla sala del trono.
Enrico IV. Ebbene? Peccato, dici? Landolfo. Già... che non sapevamo...
Enrico IV. Di rappresentarla per burla, qua, questa commedia?
Landolfo. Perché credevamo che...
Arialdo (per venirgli in ajuto). Ecco... sí, che fosse sul serio!
Enrico IV. E com’è? Vi pare che non sia sul serio?
Landolfo. Eh, se dice che...
Enrico IV. Dico che siete sciocchi! Dovevate sapervelo fare per voi stessi, l’inganno; non per rappresentarlo davanti a me, davanti a chi viene qua in visita di tanto in tanto; ma cosí, per come siete naturalmente, tutti i giorni, davanti a nessuno
a Bertoldo, prendendolo per le braccia,
Landolfo. Ah, bello! bello!
Enrico IV. Bello, ma basta! Ora che lo sapete, non potrei farlo piú io!
Prende la lampa per andare a dormire.
Quasi tra sé, con violenta rabbia contenuta:
E mi portano con loro un medico per farmi studiare... E chi sa che non sperino di farmi guarire... Buffoni! Voglio avere il gusto di schiaffeggiargliene almeno uno: quello! — È un famoso spadaccino? M’infilzerà... Ma vedremo, vedremo...
Si sente picchiare alla comune.
Voce di Giovanni. Deo gratias!
Arialdo (contentissimo, come per uno scherzo che si potrebbe ancorafare). Ah, è Giovanni, è Giovanni, che viene come ogni sera a fare il monacello!
Ordulfo (c. s., stropicciandosi le mani). Sí, sí, facciamoglielo fare! facciamoglielo fare!
Enrico IV (subito, severo). Sciocco! Lo vedi? Perché? Per fare uno scherzo alle spalle di un povero vecchio, che lo fa per amor mio?
Landolfo (a Ordulfo). Dev’essere come vero! Non capisci?
Enrico IV. Appunto! Come vero! Perché solo cosí non è piú una burla la verità!
Si reca ad aprire la porta efa entrare Giovanni parato da umile fraticello, con un rotolo di cartapecora sotto il braccio.
Poi assumendo un tono di tragica gravità e di cupo risentimento:
Si rivolge amorosamente a Giovanni e lo invita a sedere davanti alla tavola:
Gli posa accanto la lampa che ha ancora in mano.
Giovanni (svolge il rotolo di cartapecora, e si dispone a scrivere sotto dettatura). Eccomi pronto, Maestà!
Enrico IV (dettando). Il decreto di pace emanato a Magonza giovò ai meschini ed ai buoni, quanto nocque ai cattivi e ai potenti.
Comincia a calare la tela.
TELA