Elogio catodico del quotidiano/Cap. 2

Cap.2

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Cap. 1.1 Cap. 2.1

Cap. 2 – Con Portobello la tv locale arriva sul nazionale: “Dall’Alpi a Sicilia, ovunque è Legnano”

Come ricorda infatti Enrico Menduni [2003, 68]

la rappresentazione più luccicante di questo mondo, e delle subculture che per suo tramite venivano alla luce, si trova in una trasmissione televisiva che curiosamente va in onda proprio sulla Rai, “Portobello”, inventata e condotta da Enzo Tortora [….]che conosceva bene le tv private perché aveva collaborato al lancio di Telealtomilanese e Antenna3. Per sei stagioni, dal 1977 al 1983, “Portobello, mercatino del venerdì” rappresentò una straordinaria galleria di ritratti di provincia: inventori strampalati, pensionati beffati, spose abbandonate, venditori, inserzionisti, rabdomanti, poeti e parolieri, autodidatti, disoccupati.[..] E’ stato una forma di spettacolarizzazione del quotidiano molto simile al tessuto narrativo, ai sapori, all’emotività di una emittente locale.

A sottolineare il continuum tra la partecipazione del pubblico alle esperienze di televisioni libere di provincia e Portobello pensa anche Pettinati [1988, 283] ricordandoci in particolare il ruolo di Fil Rouge tra i due mondi operato da Enzo Tortora.

Era al fianco di Peppo Sacchi quando Sacchi presentava ricorso ai giudici per la sua Telebiella. Poi è approdato a Telealtomilanese e qui, nel clima euforico del pionierismo televisivo locale, il presentatore genovese, ha avuto l’idea di trasportare in televisione, assieme alla sorella Anna, ha avuto la semplice idea («semplice» vista dopo) di trasportare in televisione gli annunci economici dei giornali facendo intervenire e parlare gli stessi inserzionisti. Portobello, che prende il nome dal mercatino di Londra in cui secondo la leggenda, si può trovare veramente di tutto, è semplicemente questo. Un programma necessariamente in diretta con tre o quattro persone comuni alla ribalta, ciascuna delle quali interessata a vendere o a comprare qualcosa di possibilmente un po’insolito. Tortora riesce a far passare una curiosa rubrica di annunci matrimoniali, in cui l’aspirante marito o l’aspirante moglie si presentano alle telecamere parlando di sé stessi, e una seconda rubrica, intitolata “Dove sei?” aperta a chiunque abbia voglia di rintracciare persone che in qualche modo abbiano avuto un ruolo importante nella loro vita e siano poi sparite nel nulla [Pettinati 1988, 283].

Freccero [1985, 208] propone sul punto un’interessante riflessione che aiuta a comprendere l’iter della contaminatio della Rai da parte dei linguaggi televisivi delle prime esperienze di emittenza locale.

Il modello di televisione americana, il network […] pone fine al disordine dell’etere selvaggio e trasforma un’attività spontanea, creativa, in certi casi addirittura trasgressiva, in un fenomeno commerciale disciplinato dalle leggi della domanda e dell’offerta. La Tv diventa un “business”. Il “locale” passa in Rai:lo spettacolo delle tv interregionali (l’Italia sommersa del”treno popolare” lo strapaese, il modello della provincia) viene messa in vetrina con Portobello..

Eco [1981, 29] interviene direttamente anche sulla trasmissione Portobello:

Il programma di Tortora presenta una forma di intrattenimento in cui si può parlare di alcuni aspetti della vita quotidiana di personaggi comuni e accessibili, dalle stranezze e curiosità più inaspettate, ma reali ai sentimenti più patetici e condividibili; in questo tipo di intrattenimento allo sfarzo artificiale e lontano del varietà si sostituisce la concretezza immediata e magari un po’ folle del piccolo scambio delle rubriche sui settimanali femminili.

«L’idea di partenza del “Mercatino del Venerdì” è semplice, quasi banale: gli inserzionisti si presentano in scena con gli oggetti più svariati; il conduttore li accoglie, annunciandoli e “promuovendoli” uno per uno, mediante un breve colloquio o intervista che ha lo scopo di far emergere il lato macchiettistico, peculiare dell’individuo facilmente trasformabile in personaggio da circo» [Fond. Agnelli, 921].

Nelle parole di Maria Pia Pozzato [1992, 90] in “Dal gentile pubblico all’auditel, quarant’anni di rappresentazione televisiva dello spettatore” «Lo spettatore non assume ancora ruoli di conduzione ma ruoli di già spiccatamente spettacolari in Portobello dove non gli si richiede solo di partecipare al “mercatino del Venerdì”, ma di farlo da personaggio». Nello stesso saggio la professoressa Pozzato rincara la dose, ricordando che

Alla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, l’introduzione dell’uomo comune nello spettacolo costituiva una certa novità, molti spettacoli ruotavano attorno a questa presenza che si cercava di rendere interessante e spettacolare con procedure più o meno semplici di “personaggizzazione” [Pozzato 1990, 42]

Aldo Grasso in “Storia della televisione italiana” osserva:

Il mezzo televisivo fa sì che sovente i modi della messa in scena siano spietati, svuotino il povero inserzionista di ogni parvenza umana, annullino la sua personalità in favore del simulacro dell’esibizione: il gelato antisgocciolo, la scheda elettorale circolare, il progetto di spianare il colle del Turchino per fare uscire la nebbia dalla Val Padana, sono solo alcune delle tante idee di un’Italia irreale che Portobello rinchiude in claustrofobiche cabine provviste di telefono per la poco entusiasmante pratica del «chi offre di più». Succede così che i personaggi non si pongano tanto come modelli antropologici di una società disordinata ma geniale e «sana» (secondo il noto luogo comune sugli italiani), ma solo come caricature e macchiette presentate «in diretta» dalla televisione attraverso la luciferina maschera di commozione di Enzo Tortora [Grasso 2002, 322].

Pozzato [1992, 39] in un paragrafo significativamente intitolato “Spettatore o macchietta?” puntualizza:

Una elaborazione parodica di alto livello vale uno studio semiotico e sociologico […].C’è invece una costruzione di macchiette e di stereotipi che obbedisce a una logica semmai di semplificazione: si rende il prodotto più omogeneo rispetto ai modelli vigenti e quindi più direttamente fruibile perché già conosciuto. Inoltre, ci si orienta nella confezione del personaggio in modo da renderlo “adeguato” rispetto a certi parametri assodati del gusto. Paradossalmente, questo eccesso di conformismo spettacolare si spaccia spesso per un allontanamento dal banale, dal quotidiano, verso l’eccezionale, l’inusitato, il curioso.

La professoressa Pozzato individua una logica più complessa nella “costruzione dei personaggi” delle trasmissioni di Enzo Tortora

Questo conduttore dei buoni sentimenti, “dalla parte della gente” fin dai tempi di Telematch, Duecento al secondo, Campanile sera, è in realtà uno dei più coerenti cultori dell’artificiale televisivo. Le persone che invita a Portobello sembrano uscite dalla penna dei più veterani autori Rai. Sono quadri a tutto tondo, storie raccontate con dovizia di particolari e messe abilmente in contesto dal conduttore che partecipa di volta in volta svolgendo il ruolo appropriato di comprimario: confessore, consolatore ma anche, se occorre, pazzo scatenato che finge di credere ai marziani quanto la signora che gli sta di fronte e gli racconta quante volte ha preso l’astronave. Ne escono storie di genere, da Domenica del Corriere, e non a caso Walter Molino è chiamato a illustrarle: orfanelle malaticce che cercano marito; veterani con episodi di gloria e di guerra; transessuali, inventori deliranti e chi più ne ha più ne metta.

Anche Mimmo Lombezzi interviene sul punto con due interessanti riflessioni:

nel suo conservare e togliere qualcosa che riguarda l’intera persona/personaggio degli inserzionisti, Portobello attua una dimensione dell’umorismo totalitaria, poiché investa la persona nella sua globalità antropologica di tipo umano. Effetto del mezzo forse più che del genere, discreta e impalpabile al libello della enunciazione della trasmissione (salvo alcuni abilissimi interventi di Tortora) questa espropriazione emerge alla fine di un processo automatico come autodegradazione dei personaggi stessi, come nemesi naturale del loro stesso esibizionismo del loro proporsi a modelli. La loro esemplarità si capovolge in caricatura. [Lombezzi 1979, 501]

«Lo sguardo fisso che accompagna l’illustrazione di consimili progetti, ha un guizzo di paranoia, e su questo terreno la ripresa non perde un colpo, esplicita e spietata come una condanna. I primi piani iperrealisti-vera e propria “gogna visiva” dedicati allo Spianatore del Turchino, il tranviere metereopatico Jacono, il nemico della Nebbiainvalpadana, non mentono, quasi a voler fissare il ritratto del primo Ju Kung all’italiana, del braccio violento di Bernacca [Lombezzi 1979, 499].

Alla fine degli anni ’70, ad esempio a Portobello, si va per cercare marito, per vendere dei prodotti, per protestare, per puro esibizionismo, per vincere dei soldi o per promuovere la propria attività lavorativa. Man mano che aumenta la consapevolezza circa la forza pubblicitaria della televisione, le persone vedono la partecipazione ai programmi sempre più come un mezzo per migliorare in qualche modo la loro vita futura, individuale o collettiva [Pozzato 1992, 170]. Su questa questione, interviene anche Walter Veltroni [1992, 196]

Dunque la galleria di tipi umani, di storie e di problemi che sfila a Portobello si trasformerebbe in una squadra parossistica di caricature che cercano in tv di trovare qualcosa che riempia la loro vita. E’ un’analisi vera, che coglie una dinamica delle attese del pubblico. Stasera ridiamo o piangiamo (che in fondo è lo stesso meccanismo) con i tic o i dolori dei poveri, di tasca o di spirito, di turno in questa puntata.

«Big Ben ha detto stop!» e gli inserzionisti, veri «animali» da fiera, tornano a casa con i loro bottini inebriati per aver conseguito lo status di «personaggi pubblici» ricorda Grasso [2002, 323] sottolineando quale sia, a suo parere, il vero obiettivo, nonché vero premio ambito dagli inserzionisti di Portobello. Veltroni [1992, 197] sembra spingersi anche a considerazioni di natura quasi etica sulle motivazioni che spingevano i c.d. “inserzionisti” a partecipare a Portobello, “Non volevano sposarsi, far dei figli, fare affari. Volevano solo riconoscersi ritrovarsi, ritrovare, e usavano la tv come l’unico cerca-persone infallibile. Non ci vedo, in questo caso nulla di male.”

In questo senso, una trasmissione come Portobello, con le sue aste, i suoi piccoli mercati, le sue microstorie del quotidiano, i suoi ospiti, le sue uscite dallo studio per incontrare la gente comune, le problematiche ecologiche e sociali, con l’uso del telefono come mezzo ulteriore di contatto col pubblico, con il suo ciclico raccontarsi, è stata il paradigma di un nuovo modo di fare televisione: la neotelevisione, che, in un gioco di rovesciamento avvenuto negli ultimi anni, mentre si è costruita appunto secondo questo paradigma, ha decretato fra l’altro l’invecchiamento precoce e la perdita di interesse proprio per questa trasmissione. Portobello non ha più avuto successo perché tutta la televisione è diventata Portobello [Casetti 1988, 107].

A Portobello si può vendere e acquistare di tutto, ma naturalmente le offerte vengono selezionate in base al criterio della singolarità e della spettacolarità: nella storia della televisione e del costume rimangono incise alcune singolari proposte: l’idea di spianare il colle del Turchino per far uscire la nebbia dalla Val Padana [Fondaz. Agnelli 921].