Ecce Homo/f) Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno

f) Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno

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Friedrich Nietzsche - Ecce Homo (1888)
Traduzione dal tedesco di Aldo Oberdorfer (1922)
f) Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno
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f) Così parlò Zarathustra.

Un libro per tutti e per nessuno.



1.


Racconterò, ora, la storia del «Zarathustra». La concezione fondamentale dell’opera, il pensiero dell’eterno ritorno, questa formola d’affermazione ch’è là più alta che possa essere raggiunta, è dell’agosto 1881: è buttata giù su un foglietto di carta, con sotto scritto: «a 6000 piedi al di là dell’uomo e del tempo». Andavo, quel giorno, lungo il lago di Selvapiana, attraverso i boschi; presso un masso imponente che si ergeva a piramide non lungi da Surlei mi fermai. Lì mi venne quest’idea.

Se risalgo indietro di due mesi da quel giorno trovo, come segno precursore, un cambiamento improvviso e profondamente significativo dei miei gusti, sopra tutto nella musica. Forse, tutto il «Zarathustra» dev’essere considerato come una musica; certamente la rigenerazione dell’arte dell’ascoltare n’è una premessa necessaria. In una piccola stazione di bagni non lontana da Vicenza, a Recoaro, dove passai la primavera del 1881, scopersi insieme col mio maestro ed amico Pietro Gast — anch’egli un rigenerato — che la musica-fenice volava davanti a noi con penne più leggere e più splendenti che mai. Se invece conto da quel giorno in avanti, fino al parto avvenuto improvvisamente e nelle condizioni più [p. 94 modifica]inverosimili nel febbraio 1883 — la parte finale, quella di cui nella prefazione ho citato alcune frasi, fu terminata proprio nell’ora sacra in cui a Venezia moriva Riccardo Wagner — trovo che occorsero diciotto mesi per la gestazione. Questo numero di diciotto mesi potrebbe risvegliare il pensiero, almeno tra i buddisti, che io sia la femmina d’un elefante.

Al periodo intermedio appartiene la «Gaia scienza» che ha già cento indizi dell’avvicinarsi di qualche cosa d’incomparabile; infine essa contiene il principio del «Zarathustra» e nel penultimo brano del quarto libro essa ne dà il pensiero fondamentale. È pure di questo tempo quell’Inno alla vita (per coro misto ed orchestra) la cui partitura fu pubblicata due anni sono da E. W. Fritsch di Lipsia: un indice forse non senza importanza del mio stato d’animo in quest’anno in cui l’emozione affermativa per eccellenza, da me chiamata emozione tragica, era in me in grado superlativo. Lo si canterà, un giorno, in mia memoria. Il testo — lo noto espressamente perchè circola un errore su questo punto — non è mio: è la meravigliosa ispirazione d’una giovane russa di cui allora ero amico, della signorina Lou von Salomé. Chi è capace di trovare un significato nelle ultime parole della poesia, indovinerà perchè l’ho scelta ed ammirata: c’è, in essa, della Grandezza. Il dolore non è per essa un’obbiezione contro la vita: «Non hai più altra felicità da darmi, ebbene! hai ancora la tua pena...». Forse, anche la mia musica in questo punto ha della grandiosità. (L’ultima nota dell’oboe è un do diesis non do; è un refuso).

L’inverno seguente vissi in quel ridente seno di Rapallo, non lontano da Genova, che s’insinua fra Chiavari e il promontorio di Portofino. La mia salute non era ottima; l’inverno, freddo e straordinariamente piovoso; un piccolo albergo posto immediatamente al mare — sicchè la notte l’alta marea rendeva impossibile il dormire — era quasi in tutto e per tutto il contrario di ciò che si sarebbe potuto desiderare. Malgrado ciò, e quasi a dimostrare il mio asserto che ogni cosa decisiva nasce «malgrado» le circostanze, fu [p. 95 modifica]proprio in quest’inverno e in queste circostanze sfavorevoli che nacque il mio «Zarathustra». La mattina risalivo la splendida strada che va a Zoagli, lungo la pineta, dominando tutta l’immensità del mare; nel pomeriggio, quando la mia salute me lo permetteva, giravo tutto il golfo di Santa Margherita, fin dietro Portofino. Questo luogo e questo paesaggio sono diventati anche più cari al mio cuore per il grande amore che portò loro l’imperatore Federico III; nell’autunno 1886 ero, per caso, di nuovo su quella costa quand’egli visitò per l’ultima volta quel dimenticato angolo di felicità. Su queste due strade mi venne la prima idea di tutto il «Zarathustra» e sopratutto l’idea di Zarathustra come tipo; o, per meglio dire fu lui a prendermi di sorpresa....


2.


Per comprender questo tipo bisogna prima rendersi esatto conto della sua premessa fisiologica che è ciò ch’io chiamo la grande salute. Io non saprei spiegare questo concetto più chiaramente, più personalmente di quello che non abbia già fatto in uno degli ultimi brani del quinto libro della «Gaia scienza». «Noi» — vi è detto — «uomini nuovi, senza nome, ardui a comprendere, precursori d’un avvenire non ancora potuto dimostrare, abbiamo bisogno di nuovi mezzi per uno scopo nuovo, cioè d’una nuova salute, più gagliarda, più acuta, più tenace, più temeraria e più lieta di quello che mai sia stata alcun’altra salute. Quegli la cui anima aspira a saggiare tutti i valori già esistiti e tutti i desiderii sinora soddisfatti e ad esplorare tutte le spiaggie di questo «Mediterraneo» ideale della vita, quegli che vuole conoscere per mezzo delle avventure della propria esperienza quali sieno i sentimenti d’un conquistatore e d’un esploratore dell’ideale, e inoltre quali sieno i sentimenti d’un artista, d’un santo, d’un legislatore, d’un saggio, d’un dotto, d’un devoto, d’un indovino, d’un divino eremita di vecchio [p. 96 modifica]stampo: quegli avrà anzitutto bisogno della grande salute, d’una salute che non solo si possiede, ma che senza tregua si conquista e si deve conquistare, perchè senza tregua si sagrifica e si deve sagrificare!..... Ed ora, dopo essere stati così lungamente in via, noi, gli Argonauti dell’ideale, più coraggiosi, forse, che la prudenza non conceda, frequentemente naufraghi, ma più sani di quello che per avventura non si vorrebbe concederci, pericolosamente sani, sani sempre novellamente, crediamo di avere dinanzi a noi, quasi ricompensa, un paese sconosciuto del quale a nessuno ancora venne fatto di vedere i confini, un di là da tutti i paesi, da tutti i recessi dell’ideale finora conosciuti, un mondo così ricco di cose belle, strane, dubbiose, terribili e divine, che la nostra curiosità e la nostra sete di possesso ne sono rimaste perplesse! Ohimè! che più nulla è in grado, ora, di saziarci! Come potremmo noi, dunque, dopo tali spettacoli, e con una tale fame nella coscienza, con una tale bramosia di scienza, soddisfarci ancora degli uomini attuali? È triste, ma inevitabile: noi non consideriamo più i loro fini e le loro speranze più degne, che con una serietà mal frenata, e probabilmente non li consideriamo già più. Un altro ideale ci precede, un ideale singolare, tentatore, pieno di pericoli, un ideale che non ameremmo raccomandare a nessuno, perchè in nessuno noi riscontriamo agevolmente il diritto a questo ideale; esso è l’ideale d’uno spirito che ingenuamente, cioè senza intenzioni e per esuberanza di forza e di potenza giuoca con tutto ciò che finora era chiamato sacro, buono, intangibile, divino; per il quale le più alte cose, che servono quale misura al popolo, significherebbero già qualche cosa che assomiglia al pericolo, al decadimento, all’abbassamento, o meglio alla convalescenza, all’accecamento, alla dimenticanza di sè medesimo; esso è l’ideale d’un benessere e d’una benignità umani — superumani, un ideale che assai spesso sembrerà inumano, per esempio quando esso si ponga vicino a tutto ciò che sinora è stato serio e terreno, vicino a ogni specie di solennità nell’atteggiamento, nella parola, nel suono, nello sguardo, nella morale, nell’ufficio, come [p. 97 modifica]loro vivente ed involontaria parodia; e col quale, malgrado tutto ciò, la grande serietà appena incomincia, il vero problema è posto soltanto, il destino dell’anima si volge, la lancetta oscilla, e la tragedia ha principio.....».


3.


C’è qualcuno, alla fine del secolo decimonono, che abbia un concetto preciso di ciò che i poeti delle grandi epoche chiamavano ispirazione? Per quanto sia piccolo il resto di superstizione che rimane in noi, sarebbe difficile respingere l’idea che siamo soltanto l’incarnazione, il portavoce, i medium di potenze superiori. Il concetto della «rivelazione» nel senso che, improvvisamente, con sicurezza e finezza indicibili qualche cosa diventi visibile e udibile — qualche cosa che ci scuote e ci sconvolge profondamente — è la semplice espressione della verità. Si sente, non si cerca; si prende, non si domanda chi dà; come un lampo riluce improvviso un pensiero, necessariamente così, senza esitazioni nella forma: io non ho mai avuto da fare una scelta. Un rapimento in cui la enorme tensione d’animo si risolve talvolta in un torrente di lagrime, in cui il passo involontariamente ora precipita, ora rallenta; un essere completamente fuor di sè stessi, con la percezione distinta d’una infinità di sottili brividi che ci scuotono fino alla punta dei piedi; una felicità profonda in cui il dolore e l’orrore non agiscono per ragione di contrasto ma sono parti integranti, indispensabili, sono come una nota di colore necessaria in quest’oceano di luce; un istinto del ritmo, che comprende tutto un mondo di forme; la lunghezza, il bisogno d’un ritmo ampio è, quasi, la misura per la potenza dell’ispirazione, una specie di compenso alla sua oppressione e tensione.

Tutto ciò avviene affatto indipendentemente dalla nostra volontà, quasi in un turbine del sentimento di libertà, d’indipendenza [p. 98 modifica]di potenza, di divinità.... Il modo come l’immagine, il paragone s’impongono, è stranissimo; non si ha più nessun concetto di ciò che sia immagine, di ciò che sia paragone, e l’una e l’altro si offrono come l’espressione più comoda, più precisa, più semplice. Pare proprio, per ricordare una parola di Zarathustra, che le cose stesse ci vengano incontro e si offrano al paragone — «qui tutte le cose accorrono, carezzando, al tuo discorso, e ti adulano: chè esse vogliono cavalcare sulla tua schiena. A cavalcioni di ogni paragone tu cavalchi qui verso ogni verità. Qui ti si spalancano tutte le parole e tutti i tesori di parole dell’Essere; tutto l’Essere vuole diventare qui parola, tutto il Divenire vuole imparar a parlare da te — ». Quest’è la mia esperienza dell’ispirazione: non dubito che si debba tornare indietro di migliaia d’anni per trovare uno che possa dirmi: «È anche la mia».


4.


Fui malato, a Genova, un paio di settimane. Poi seguì una triste primavera, a Roma, dove accettai la vita; e non mi fu facile. In fondo, questa città ch’è la meno adatta della terra per il poeta di Zarathustra e ch’io non avevo scelto di mia volontà, mi spiacque straordinariamente; tentai di liberarmene; volevo andare ad Aquila, che rappresenta l’idea contraria a quella di Roma e che fu fondata per inimicizia contro Roma, precisamente come io fonderò un giorno un luogo in memoria d’un ateo e nemico della chiesa «comme il faut», d’uno dei miei più stretti parenti, del grande imperatore di casa Hohenstaufen, Federico secondo. Ma c’era una fatalità, in tutto ciò: dovetti ritornare. In fine, mi accontentai della piazza Barberini, dopo essermi stancato per la fatica durata a cercare un posto anticristiano. Temo d’aver domandato una volta — per sfuggire possibilmente ai cattivi odori — perfino al «palazzo del Quirinale» se non avevano per caso una cameretta tranquilla [p. 99 modifica]per un filosofo. So di una loggia alta sulla piazza suddetta, da cui si domina Roma e, sotto, si sente il mormorìo della fontana fu composto quel canto solitario fra quanti mai furono composti, il Canto notturno, in quest’epoca aleggiava sempre intorno a me una melodia d’una melanconia indicibile, di cui ritrovai il ritornello nelle parole: «morto d’immortalità....».

L’estate, tornato nel luogo sacro in cui m’era balenato il primo pensiero di Zarathustra, trovai il secondo Zarathustra. Dieci giorni bastarono; per nessuno degli altri, nè per il primo nè per il terzo ed ultimo, me ne occorsero di più. L’inverno seguente, sotto l’alcionico cielo di Nizza, che allora per la prima volta splendeva sulla mia vita, trovai il terzo Zarathustra; e avevo finito. Un anno appena, tutto compreso. Molti recessi nascosti, molte alture dei dintorni di Nizza mi sono sacri per istanti indimenticabili ch’io vi passai; quella parte decisiva che s’intitola: «Vecchie e nuove tabelle» fu composta nella faticosissima salita dalla stazione al meraviglioso maurico nido di rocce: a Eza; l’agilità muscolare fu sempre in me maggiore quando la forza creatrice fluiva più abbondante. Il corpo è entusiasmo: non ci occupiamo dell’«anima».... Spesso, mi s’è potuto veder danzare; allora potevo benissimo, senz’ombra di stanchezza, camminare sui monti per sette o otto ore. Dormivo bene, ridevo molto; ero d’un vigore e d’una pazienza perfetti.


5.


Astrazion fatta da questi lavori di dieci giorni, gli anni della composizione del «Zarathustra», e specialmente quelli che seguirono, furono una miseria senza pari. Si paga cara l’immortalità: si muore parecchie volte mentre si è in vita. C’è qualche cosa ch’io chiamo «la rancune» della Grandezza: tutto ciò ch’è grande, un’opera o un fatto, dopo compiuto si rivolge immediatamente contro chi l’ha fatto. Appunto perchè l’ha fatta, ora egli è debole, [p. 100 modifica]non può più sopportare la sua opera, non può guardarla in faccia. Avere dietro di sè qualche cosa che non s’è mai potuto volere, qualche cosa in cui è legato il nodo del destino dell’umanità, e sentirsene tutto il peso addosso!..... Quasi si finisce per rimanere schiacciati.... La «rancune» della Grandezza!

Un’altra cosa è la quiete spaventosa che si sente intorno a sè. La solitudine ha sette pelli; nulla può passarvi oltre. Si viene fra gli uomini, si salutano degli amici: nuovo deserto, nessuno sguardo vi saluta più. Nel caso migliore, una specie di rivolta. Una tale rivolta constatai, in grado molto diverso, in tutti coloro che mi stavano vicini; pare che nulla offenda di più che il far sentire improvvisamente le distanze; le nature nobili, che non sanno vivere senza onorare, sono rare.

Una terza cosa è l’assurda irritabilità della pelle per le piccole punture, una specie d’impotenza a difendersi da tutte le cose piccole. Questa mi sembra originata da quell’enorme spreco di tutte le energie difensive ch’è una delle condizioni di ogni azione creatrice d’ogni azione che derivi da ciò che v’ha di più particolare, di più intimo, di più profondo. Le piccole facoltà difensive sono così, in certo modo, sospese; non sono più alimentate da nessuna forza. Mi permetto anche d’accennare che si digerisce più male, che si fatica a muoversi, che si è troppo esposti alle sensazioni di gelo; ed anche alla diffidenza; alla diffidenza che in molti casi è semplicemente un errore eziologico. Trovandomi in un tale stato, una volta io sentii la vicinanza d’una mandra di buoi in grazia d’un ritorno a pensieri più miti, più umani, prima ancora ch’io la vedessi: ciò ha in sè del calore....


6.


Quest’opera sta completamente a sè. Lasciamo da parte i poeti; mai, forse, è stata creata qualche cosa con tale sovrabbondanza di forze. Il mio concetto di «dionisiaco» diventò qui atto supremo; [p. 101 modifica]confrontato con esso tutto il resto dell’attività umana appare povero e limitato. Che un Goethe, uno Shakespeare non potrebbero vivere un momento in quest’atmosfera di passione immane e a una simile altezza, che Dante, confrontato con Zarathustra, appare soltanto un credente e non un creatore della verità, uno spirito dominatore, un destino, che i poeti del «Veda» sono dei preti, e neppur degni di sciogliere i lacci delle scarpe a Zarathustra, tutto ciò è il meno che si possa dire e non vale a dare un concetto della distanza, dell’azzurra solitudine in cui vive quest’opera. Zarathustra ha un eterno diritto di dire: «Io segno intorno a me dei circoli e dei confini sacri; sempre minor numero di gente m’accompagna nella mia salita su monti sempre più alti; io costruisco una montagna di monti sempre più sacri». S’immaginino, raccolti in uno, lo spirito e la bontà di tutte le grandi anime: tutte insieme non sarebbero in grado di fare un discorso di Zarathustra. È immensa la scala per cui egli sale e scende; egli ha veduto più lontano, ha voluto più lontano, ha potuto più lontano che qualunque altro uomo.

Questo spirito ch’è il più affermativo che ci sia contraddice con ogni sua parola; in esso, tutte contraddizioni sono legate in una unità novella. Le forze più alte e le più basse della natura umana, ciò che v’ha di più dolce, di più leggero, di più terribile sgorga da una sola fonte con immortale sicurezza. Fino ad ora non si sa che cosa sia altezza, che cosa sia profondità: anche meno si sa che cosa sia verità. Non c’è neppur un attimo, in questa rivelazione della verità, che sia già stato preveduto, indovinato da qualcuno dei più grandi. Non c’è saggezza, non c’è analisi dell’anima, non c’è arte della parola, prima di Zarathustra; ciò ch’è più vicino a noi, più volgare, parla qui di cose inaudite. La sentenza trema di passione; l’eloquenza è divenuta una musica; dei lampi sono lanciati a illuminare un avvenire non ancora eliminato. La più possente forza immaginativa che mai sia esistita è povera cosa, è un gioco, al confronto con questo ritorno della lingua alla natura dell’immagine.

E come Zarathustra scende dalla montagna, e dice a ciascuno [p. 102 modifica]le cose più buone! Come tocca delicatamente anche i suoi oppositori, i preti, e, con loro, soffre di loro stessi! Qui, ad ogni istante l’uomo è superato, il concetto di «superuomo» diventa qui la più alta realtà; tutto ciò che finora fu grande nell’uomo sta ad un’infinita distanza sotto di lui. Il carattere alcionico, i piedi leggeri, l’onnipresenza della cattiveria e della baldanza, e tutto ciò ch’è tipico per il tipo di Zarathustra, non è mai stato sognato come attributo essenziale della grandezza. Zarathustra si considera appunto per quest’ampiezza d’orizzonti, quest’accessibilità alle cose più contraddittorie come la più alta specie di tutto ciò che esiste; e, se si vuol sentire come egli la definisce, si rinuncierà a cercarne l’uguale.

«.... l’anima che ha la scala più lunga e può scendere più in fondo»,

«l’anima più vasta, quella che più d’ogni altra può correre, aggirarsi, spaziare in sè stessa; la più necessaria, che, per piacere, si precipita nel Caso»,

«l’anima che è, e vuole tuffarsi nel divenire; l’anima che ha, e vuole entrare nella volontà e nel desiderio»,

«l’anima che fugge da sè stessa e raggiunge sè stessa nelle più vaste cerchie»,

«l’anima più saggia, cui la pazzia sussurra le parole più dolci»,

«l’anima che più ama sè stessa, in cui tutte le cose salgono e scendono, hanno il loro flusso e il loro riflusso....».

Ma questo è il concetto stesso di «Dioniso».

A questa stessa idea conduce un’altra considerazione. Il lato psicologico nel problema di Zarathustra è trovare come colui che in modo inaudito risponde negativamente, agisce negativamente, di fronte a tutto ciò che finora è stato affermato, possa tuttavia essere il contrario d’uno spirito negativo; come uno spirito che porta il peso del più grave destino, d’un còmpito fatale, possa tuttavia essere il più leggero e lontano (Zarathustra è un danzatore); in che modo colui che ha la più dura, la più spaventosa [p. 103 modifica]visione della realtà, che ha il «pensiero più profondo» non trovi tuttavia in ciò alcuna obbiezione contro l’esistenza e nemmeno contro l’eterno ritorno di questa, ma vi trovi anzi una ragione per essere egli stesso l’eterna affermazione di tutte le cose, «il dire e amen, all’infinito...». «In tutti gli abissi io porto ancora la mia affermazione benedicente....». Ma quest’è, ancora una volta, il concetto di «Dioniso».


7.


Che lingua parlerà un tale spirito quando parlerà con sè solo? Il linguaggio del ditirambo. Io sono l’inventore del ditirambo. Si ascolti come Zarathustra parla con sè stesso Avanti il levar del sole (III, 18), una tale smeraldina felicità, una divina tenerezza simile a questa, non l’ha avuta nessuno prima di me. Anche la più profonda malinconia d’un tale Dioniso diventa un ditirambo; per provarlo, voglio citare il Canto notturno, l’immortale lamento di colui che per eccesso di luce e di potenza, per la sua propria natura di sole, è condannato a non amare.

«È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. Ed anche la mia anima è una fontana zampillante.

«È notte: ora soltanto si destano tutte le canzoni degli amanti. Ed anche la mia anima è la canzone d’un amante.

«C’è in me qualche cosa di non appagato e di non appagabile, che vuol farsi sentire. C’è in me un desiderio d’amore che parla, esso stesso, il linguaggio dell’amore.

«Io sono luce; ah, foss’io notte! Ma questa è la mia solitudine ch’io sono cinto di luce.

«Ah! foss’io scuro e simile alla notte: come vorrei suggere dalle mammelle della luce!

«E benedirei anche voi, piccole stelle scintillanti, lucciolette del cielo; e sarei beato del dono della vostra luce. [p. 104 modifica]

«Ma io vivo nella mia propria luce, io mi ribevo le fiamme che erompono da me.

«Io non conosco la felicità di chi prende; e più volte sognai che il rubare dev’essere molto più dolce del prendere.

«La mia povertà sta in questo, che la mia mano non si stanca mai di donare; la mia invidia è di vedere occhi che attendono e notti illuminate dal desiderio.

«Oh sventura di tutti quelli che donano! Oh oscuramento del mio sole! Oh cupidigia del desiderare! Oh fame atroce nella sazietà!

«Essi prendono da me: ma son io ancora in contatto con la loro anima? C’è un abisso fra il dare e il ricevere; e l’abisso più stretto è il più difficile da passare.

«Un appetito nasce dalla mia bellezza: vorrei fare del male a coloro per cui risplendo, vorrei derubare coloro cui faccio doni; tale è in me la fame di malvagità.

«Ritirare la mano quando già un’altra mano si tende verso di lei, simile alla cascata che, nel precipitare, indugia; tanta è la mia fame di malvagità.

«Tale vendetta inventa la mia pienezza; tali perfidie scaturiscono dalla mia solitudine.

«La mia felicità nel donare svanì col donare; la mia virtù si stancò di sè stessa per la sua abbondanza!

«Chi dona sempre corre pericolo di perdere il pudore; chi distribuisce sempre ha mano e cuore incalliti per il troppo distribuire.

«Il mio occhio non ha più lagrime per la vergogna dei supplicanti; la mia mano è troppo indurita per sentire il tremito di mani ricolme.

«Donde venne la lagrima al mio occhio, e il callo al mio cuore? Oh, solitudine di tutti coloro che donano! Oh, silenzio di tutti coloro che splendono!

«Molti soli ruotano nello spazio deserto: a tutto ciò ch’è oscuro essi parlano, con la loro luce; con me, tacciono. [p. 105 modifica]

«Ah, quest’è l’inimicizia della luce contro tutto ciò che splende: spietata, essa prosegue il suo cammino.

«Ingiusto nel più profondo del core contro tutto ciò che risplende, freddo verso i soli; così ogni sole segue il suo cammino.

«Simili all’uragano i soli proseguono il loro cammino. Seguono la loro volontà inesorabile: quest’è la loro freddezza.

«Oh siete soltanto voi, voi oscuri, voi notturni, che create calore dalla luce. Voi soli suggete latte e ristoro dalle mammelle della luce!

«Ahimè! intorno a me è ghiaccio; la mia mano brucia al contatto del ghiaccio! Ahimè, io ho una sete che anela alla vostra sete.

«È notte: ed io devo essere luce! E desiderio della notte! E solitudine!

«È notte: come uno zampillo prorompe ora da me il mio desiderio: il desiderio di parlare.

«È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. Ed anche la mia anima è una fontana zampillante.

«È notte: ora si destano tutte le canzoni degli amanti. Ed anche la mia anima è il canto d’un amante».


8.


Cose simili a questa non sono mai state scritte, mai sentite, mai sofferte: così soffre un Dio, un Dioniso. La risposta a un tale ditirambo che celebra l’isolamento del sole nella luce, sarebbe Ariadne.... Chi sa, all’infuori di me, che cos’è Ariadne?.... Di tutti questi enigmi nessuno aveva finora avuto la soluzione; e dubito anzi che qualcuno abbia mai intravisto qui degli enigmi.

Zarathustra determina una volta, con precisione, il suo còmpito — ch’è anche il mio — sicchè non ci si può sbagliare sul [p. 106 modifica]significato di esso: è affermativo fino alla giustificazione, fino alla redenzione anche di tutto il passato.

«Io vado tra gli uomini come tra frammenti del futuro; di quel futuro ch’io vedo.

«E a ciò tende tutta la mia poesia, tutti i miei sforzi, a mettere insieme e a riunire in uno tutto ciò ch’è frammento, problema, caso, crudele.

«E come sopporterei d’essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta, e solutore d’enigmi, e salvatore del caso?

«Salvare il passato e cambiare tutto «ciò che fu» in «ciò che avrebbe dovuto essere», questo soltanto sarebbe per me redenzione».

In un altro passo Zarathustra determina con la maggior precisione possibile quello che, per lui, può solo essere «l’uomo»; non un oggetto d’amore o di pietà; Zarathustra ha dominato anche il grande schifo dell’uomo: per lui, l’uomo è una cosa informe, una materia prima, una rozza pietra che ha bisogno dell’artefice.

«Non volere più, non valutare più, non creare più; ah! che questa grande stanchezza resti per sempre lontana da me.

«Anche nella conoscenza sento solamente la gioia di generare e di divenire della mia volontà; e se nella mia conoscenza c’è dell’innocenza, ciò succede perchè c’è in essa la «volontà di generare».

«Questa volontà m’attirò lontano da Dio e dagli dèi; che cosa si dovrebbe dunque creare se gli dèi.... ci fossero?

«Ma essa mi risospinge sempre verso gli uomini, questa mia ardente volontà di creare; così, essa spinge il martello verso la pietra.

«O uomini, nella pietra dorme, per me, una statua, la statua delle statue! Ahimè! Essa deve dormire nella più dura, nella più brutta delle pietre!

«Ora, il mio martello infuria crudelmente contro la prigione che la racchiude. Volano schegge di pietra; che m’importa di ciò!

«Voglio compierla, perchè venne a me un’ombra; la più silente e leggera di tutte le cose venne una volta a me. [p. 107 modifica]

«La beltà del Superuomo venne a me come un’ombra: che m’importa, ormai.... degli dèi!....».

Faccio notare ancora un ultimo punto di vista; il verso sottolineato me ne dà l’occasione. Per un còmpito dionisiaco, la durezza del martello, la gioia stessa della distruzione, sono premesse assolutamente necessarie. L’imperativo «diventate duri!», la profonda certezza che tutti coloro che creano sono duri, sono il vero segno caratteristico d’una natura dionisiaca.