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Madama Roland

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MADAMA ROLAND







CCarie Jeanne Phlipon, moglie di Roland, ex ministro, d’età di trentanove anni, nativa di Parigi, abitante via della Harpe numero 5, statura cinque piedi, capelli e sopracciglia castagno cupo, occhi neri, naso medio, bocca ordinaria, viso ovale, mento tondo, fronte larga.» Questi sono i connotati presi dal carceriere di Santa Pelagia quand’ella vi entrò, e che lasciano nella loro rozzezza tralucere tuttavia i segni della bella fisonomia dell’eroina, che da sè stessa si dipinse così:

«A quattordici anni io era già indonnita, alta intorno a cinque piedi, gamba ben fatta, piede ben piantato, i fianchi baldanzosi, il seno largo e superbamente ricco, le spalle belle, [p. 138 modifica] l’attitudine ferma e graziosa, l’andare rapido e lieve: ecco quel che appariva alla prima occhiata; vago incarnato; freschezza; volto assai dolce, espressivo, ma nulla che avventasse; a guardare i lineamenti uno per uno si può chiedere: Ma dov’è questa bellezza? Neppur uno è regolare, e tutti piacciono. La bocca è un po’ grande; ve n’ha mille più graziose: ma ve n’ha alcuna il cui sorriso sia più tenero e più seducente? L’occhio, al contrario, non è molto grande, la sua iride è color grigio castagno; ma a fior di testa; lo sguardo aperto, franco, vivo e soave, coronato d’un sopracciglio nero come i capelli, e ben disegnato, varia la sua espressione, come l’anima affettuosa, di cui pinge i moti; grave ed altero, mette alcuna volta stupore, ma accarezza assai più e desta sempre. Il naso mi dava un po’ noia; lo trovava alquanto grosso nella punta; ma, considerato nel tutto insieme, e specialmente di profilo, non guastava. La fronte ampia, nuda, poco coperta a quell’età, retta dall’orbita molto elevata dell’occhio, e nel cui mezzo delle vene in forma d’Ypsilon si dilatavano alla più lieve emozione, facea un effetto rarissimo. Il mento, un po’ volto all’insù ha precisamente i caratteri che i fisonomisti assegnano alla voluttuosità. Veramente nessuno nacque più a gustarla, e la gustò meno di me. La carnagione vivace anzi che bianchissima, colorito smagliante ricresciuto spesso dal subito rossore di un sangue fervido, eccitato dai nervi squisitamente sensibili; la pelle soave, il braccio rotondo, la mano garbata senza esser piccola, perchè le sue dita lunghe e sottili significano la destrezza e serban grazia; denti freschi e ben posti; la carnosità di una salute perfetta: tali [p. 139 modifica] sono i tesori che la natura m’avea dato. Ne ho perduti molti, specialmente di quelli che appartengono alla grassezza ed alla freschezza; quelli che mi sono rimasti nascondono ancora, senza che io vi metta verun’arte, cinque o sei dei miei anni, e le persone stesse che mi vedono ogni giorno se non dico loro la mia età me ne danno trentadue o trentatrè. Solo dopo le mie perdite conosco quanto io fossi ricca.»

Narrare com’ella nascesse d’un incisore il 18 marzo 1754, come si educasse da sè, e nella lettura di Plutarco diventasse repubblicana, sarebbe vanissimo, perchè a tutti è noto.

Com’è notissimo ch’ella sposò Jean-Marie Roland de la Plàtrière nel 1780, che aveva allora quarantotto anni, e che ella pure stimò ed amò grandemente. Roland, uomo saggio ed onesto, divenne ministro degli affari interni nel marzo del 1793; fu presto licenziato dal re; tornò ministro dopo l’insurrezione del 10 agosto; ma non sapendo dar nel sangue come i terroristi della Montagna, dovè rinunziare al suo posto; e poi fu proscritto coi girondini.

Ella passò per tre prigioni; l’Abbaye, Sainte-Pélagie e la Conciergérie avanti di andare al patibolo. Trovò rispetto e riguardi dalla gente più incallita alle umane sventure, i carcerieri. Fuori però l’ignobile Père Duchene, che si rinnovò con le sue buffonerie sanguinarie e le sue stupide bestemmie in questi giorni, l’andava bandendo per vecchia, laida, impudica, e gridavano cotali infamie sotto alle finestre della sua carcere. Ella in faccia alla morte si consolava con le memorie ingenue della sua giovinezza; e da queste dolcezze, che avrebbero affievolita ogni altra donna, si elevava [p. 140 modifica] all’ira contro i tiranni della Francia, che avean fatto zimbello della libertà, e trovò parole incancellabili per suggellarli d’infamia. Scrisse le sue Memorie in ventidue giorni; e se l’esempio di Rousseau la trasse ad alcuni ignudi d’animo e di vita che in persona men casta sarebbero uno stomachevole cinismo, lo spettacolo di uno spirito di donna che rifiuta di scampare dal carcere per non far male a’ suoi custodi, che non accetta la generosa offerta di Enrichetta Cannet di pigliare il suo posto, che scherza con la morte e lotta con gli omicidi, che non pensa a sè, ma al marito profugo, agli amici in pericolo, alla Francia che prevede già presta a passare dalle convulsioni dell’anarchia nel letargo del despotismo; questo spettacolo manda in dileguo ogni trista impressione e commuove ed esalta. I teneri della fama di lei e gelosi della purezza degli eroismi della rivoluzione, vorrebbero tener per apocrife le Memorie, come altri prima vollero mutilarle; ma l’autenticità è fuor di dubbio, e il loro carattere intrinseco smentisce ogni contraffazione. Le dispute se ella amasse castamente il bel Barbaroux o Buzot sono finite, dacché nel 1863 si trovò il ritratto ond’ella si consolava nella sua prigionia con scrittovi intorno l’elogio di Buzot, e quattro lettere di lei a lui, ove con misto sublime di tenerezza femminile, di virtù stoica confessa il suo amore, e si rallegra della prigione che le fa conciliare l’amore e il dovere.

Il 22 giugno gli scriveva:

«Io ho il mio Thompson (m’è caro per più conti) Shaftesbury, un dizionario inglese, Tacito e Plutarco; io qui fo la vita che io faceva a casa nel mio studio, all’albergo o [p. 141 modifica] altrove; non vi ha gran divario. Mi sarei fatto portare un istrumento (sonava benissimo il violino e la chitarra) se non avessi temuto di dare scandalo; io abito una stanza di circa dieci piedi in quadro; quivi dietro le inferriate e i chiavistelli godo dell’indipendenza del pensiero, richiamo gli oggetti che mi son cari, e vivo più quieta con la mia coscienza che i miei oppressori con la loro signoria.

«No oso dirti, e tu sei il solo al mondo che possa apprezzarlo, che io non sono stata troppo dolente del mio arresto. Così avranno, pensava tra me, meno ira e furia contro Roland; se tentano alcun processo, io saprò sostenerlo in modo che gioverà alla gloria di lui; mi pareva di dargli così un compenso debito a’ suoi dispiaceri. Ma non vedi altresì che, stando sola, io vivo con te? — Così prigioniera, mi sagrifico al mio marito, mi serbo al mio amico; e i miei carnefici mi fanno conciliare il dovere e l’amore. Non mi compiangere.»

E il 3 luglio:

«Altera d’essere perseguitata in questo tempo che si proscrivono gli uomini probi e di carattere, io avrei, anche senza te, sostenuto con dignità la mia prigionia; ma tu me la rendi dolce e cara. I malvagi credono abbattermi tenendomi in ferri. Insensati! che m’importa abitare qua o là? Non vado dappertutto col mio cuore? E chiudermi in una prigione, non è darmi a lui in tutto?... — Mi son rimessa al disegno, studio l’inglese, leggo gli antichi, medito assai, e sento ancor più.»

E il 6 luglio:

«Io mi son fatto portare, or son quattro giorni, this [p. 142 modifica] dear picture, che per una specie di superstizione io non voleva mettere nel mio carcere; ma perchè negare a me stessa questa soave imagine, debole e prezioso compenso della presenza dell’oggetto? Essa è sul mio cuore, celata a tutti gli occhi, sentita a tutti i momenti, e spesso bagnata dal mio pianto. Sì, io sono compresa del tuo coraggio, onorata del tuo affetto, e gloriosa di tutto quello che l’uno e l’altro possono inspirare alla tua anima altera e sensibile.»

La Roland dopo un processo irrisorio fu condannata al patibolo. Nella lunga via che fece per giungervi fu, non solo animosa, ma ilare. Con le sue graziose parole fece sorridere alcuna volta il Lamarche, che l’era compagno alla morte, abbattuto e invilito. Ella ottenne dal carnefice di potergli cedere la mano; e ucciso lui, mentre la adattavano alla ghigliottina, scorse un’imagine colossale della libertà, statua di gesso e di terra, messa su per la festa del 10 agosto, e sclamò: «O Liberté! comme on t’a jouée.» Quando il coltello dice il Bertin, testimone di veduta, le ebbe tagliato il capo, due getti di sangue enormi rampollarono dal tronco mutilato; il che non soleva accadere; le più volte la testa cadeva scolorata, e il sangue, cui l’emozione di quel momento terribile aveva fatto rifluire verso il cuore, sgorgava debolmente o a goccia a goccia, ond’ella morì nell’esaltazione della vita. Così i pittori, dice il Dantan, fanno morire i martiri; il sangue s’avventa verso il cielo col loro ultimo pensiero.

Il supplizio seguì l’8 novembre 1793.

Ella lasciò una figlia, per nome Eudora, maritata a Champagneaux, che morì intorno al 1846. [p. 143 modifica]

Roland, dopo avere deluso per cinque mesi la sete di coloro che lo cercavano a morte, sentito il supplizio della moglie, si uccise.

Buzot, nato ad Evreux nel 1760, proscritto il 31 maggio 1793, tentò di sollevare invano il Calvados. Rifuggì nella Gironda, e fu trovato morto con Pétion in un campo presso a Saint-Emilion.