Donne illustri/Donne illustri/Irene da Spilimbergo

Irene da Spilimbergo

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IRENE DA SPILIMBERGO







CCrene nacque nel 1541 in Spilimbergo, castello del Friuli, di Adriano, gentiluomo versatissimo così nelle lingue come nelle scienze, e di Giulia da Ponte, figlia al patrizio Giampaolo, ch’egli aveva sposata in Venezia, donna di elevato spirito, perita in musica e di molta lettura. Fu allevata parte ove nacque e parte in Venezia. D’ingegno vivace, non stette contenta ai lavori d’ago e di ricami, ove assai valse, ma attese con profitto alle lettere.

Leggeva attentamente, notando ne’ margini, od estraendo quello che a lei pareva degno d’osservazione. Tra i libri più cari aveva l’Opere morali di Plutarco, l’Instituzione del Piccolomini, Il Cortigiano del Castiglione, gli Asolani del [p. 98 modifica] Bembo, ed il Canzoniere del Petrarca. — Nella musica si avanzò tanto, ch’ella, dopo non lunghi studii, cantava sicuramente a libro (a prima vista) ogni cosa. Seguiva i migliori maestri, secondo narra Dionigi Atanagi da Cagli, «imparando infiniti madrigali, in liuto, e ode, ed altri versi latini.» Spiccò molto nel canto e nel suono, non solo di liuto, ma d’arpicordo e di viola.

Si diede con l’Emilia, sua maggior sorella, al dipingere, ed ebbe per iscorta e maestra una valente e costumata giovane per nome Campaspe. Nel disegno prendeva esempio dalle cose più perfette di Tiziano, e riceveva aiuto dall’arte del ricamare, nella quale era eccellente. Pare che quel gran maestro si compiacesse della sua ingegnosa imitatrice, e che col suo indirizzo ella si ponesse al colorito.

Era nemica mortale dell’ozio. Aveva preso il costume di levarsi il verno due o tre ore innanzi al giorno, e con poca sollecitudine della sua salute, che soffriva dal troppo vegliare e dal freddo. Quando le era detto di aversi cura, ella rispondeva: «A che aver tanto riguardo a questo corpicciuolo, ch’altro non è che vil fango e poca polvere?»

Era bella di corpo, e tanto amabile e graziosa nel volto e in tutti i movimenti della persona, che era quasi impossibile che uomo l'incontrasse per istrada e non si fermasse a contemplarla. Era di statura mediocre, ma formatissima di tutto il corpo. Aveva il volto ben misurato, pieno d’una certa venustà, e d’un sangue così dolce e benigno, che era soavissimo a contemplare. Gli occhi poi, erano per grandezza, per colore, per vivacità, per dolcezza di spiriti, per incassamento, e così per ombra, procedente dalla lunghezza delle [p. 99 modifica] palpebre, tanto ben elementati e posti, che da loro scendeva meraviglioso diletto; da’ quali mandando, quasi da accesa face, alcuni raggi amorosi ne’ cuori de’ riguardanti, gli eccitava, e li rendeva disposti a ricevere e conservar per lungo tempo l’imagine del volto suo: onde spesso l’era detto che ella aveva gli occhi maghi.

La forza degli occhi suoi era molto ben conosciuta da lei, perchè quasi sempre li teneva ben aperti, e accompagnandoli con certo suo dolce riso procedente da bellissima bocca, li reggeva con maestà insieme onesta e soave.

Questa era l’unica civetteria a cui si lasciasse andare: civetteria assai pudica; e veramente ella fu gelosa oltre ogni dire dell’onestà. Si narra che avendole un giorno un gentiluomo di casa sua, fatto segno di voler darle un bacio, essendo ella ancor in età molto puerile, fece di ciò risentimento grande, tenendosi a biasimo che le fosse fatto un tale atto; ed essendole detto che ciò non importava niente, per essere così fanciulla, rispose in questo senso: che nel baciare non si dovrebbe avere rispetto all’età, ma baciar quelle che non sanno ancora quanto importi un bacio a una donzella.

Sdegnava, segue l’Atanagi, ragionamenti bassi e da donnicciuole. Pronta nel motteggiare, acuta nel rispondere, e riservata nel punger altrui con le parole. Fu nemica mortale della maldicenza, in modo che, tra per questo, e perchè credeva le altre donne simili a sè, era difficile ad esser persuasa che una donna fosse inonesta; ma, come se ne chiariva per testimoni degni di fede, non l’avrebbe voluta conoscere, nè voleva sentirla più ricordare.

Stimava quei gentiluomini che, oltre alla nobiltà, avevano [p. 100 modifica] qualità rare, o che erano riguardevoli per professione d’arme o di lettere. Quelli poi che erano di mediocre virtù, benché in altro favoriti dalla natura e dalla fortuna, erano poco graditi da essa.

Riveriva con termini di suprema umiltà, così in atti come in parole, i singolari in lettere, e sopra gli altri gli scrittori di poesia, e insieme i musici, i pittori e gli scultori. Avea vaghezza che le virtù sue fossero conosciute e gustate da persone pur singolari e non comuni: e però intendeva nell’apprenderle a quel segno di perfezione che meritasse lode da questi tali, e sopra tutti da’ poeti, aspettando da loro quella lode e gloria ne’ loro poemi che conveniva alle sue virtù. Teneva similmente fisso il pensiero ad esser tale che sulle cose, che ella prendeva per impresa, non le fosse alcuna donna superiore. Laonde, con virtuosa invidia sentiva le lodi altrui. E veramente, principal incentivo a’ suoi progressi nella, pittura fu l’aver veduto un ritratto di Sofonisba Anguissola, fatto di sua mano e presentato al re Filippo II e il sentire le lodi che si levavan di lei.

Si dilettava molto di far imprese negli abiti che ella portava e ne’ lavori e in altre cose che spesso donava. Per le quali con ingegnosa invenzione ad alcuno scopriva, ad alcuno nascondeva le sue intenzioni e i suoi pensieri o sotto forma di animali, che avessero da qualche loro natural qualità significato di seguire la virtù e di fuggire il vizio; o sotto la vaghezza d’alcun fiore, o sotto la vista di vari colori, o altra cosa trovata da lei, aiutando quello che non potevano esprimere interamente le cose sole con poche e brevi parolette, le quali trovava da sé o voleva che fosser composte da’ primi letterati della città. [p. 101 modifica]

In ispazio d’un mese e mezzo trasse copia di alcune pitture del Tiziano, con tanti particolari avvertimenti alle misure, a’ lumi, alle ombre, e così agli scorci e a’ nervi, alle ossature, alla tenerezza e dolcezza delle carni, e non meno alle pieghe de’ panni, che fece stupire coloro che questa soprannatural forza videro.

D’Irene il Lanzi cita un Baccanale e tre quadretti di sacre storie, condotti, egli dice, con poca perizia di disegno, ma coloriti con una maestria degna del miglior secolo.

Fin da’suoi primi e più teneri anni fu presaga d’avere a morir giovane; e soleva dire spesse volte di sapere fermamente ch’ella non passerebbe i vent’anni della sua età. Credeva che nelle cose umane d’importanza, come nel morir più in questo tempo che in quello, e nel maritarsi più in uno che in altro e in cose di simil momento, v’entrasse l’opera del destino; e spesso diceva parole che dinotavano questa ferma risoluzione dell’animo suo. Onde aveva posto per insegna alla porta della camera delle pitture queste parole:


Quel che destina il ciel non può fallire.


al qual motto, dice il Carrer, sembra far eco l’altro nella base laterale al ritratto dipintole dal Tiziano: Si fata tulissent.

Pochi giorni appresso a quel gran lavoro delle copie del Tiziano, essendosi ella per l’addietro faticata alcun mese nel disegno e nel colorito con fissa applicazione degli occhi e dell’animo alle cose che faceva, levando la mattina per [p. 102 modifica] tempo, e passando da una stanza temperata, ove dormiva, in un’altra esposta al freddo ed al vento, e molto spesso aprendo la finestra nel cominciare ad apparir l’alba, e non essendosi dalla mattina insino alla sera levata da quella fissa intenzione di copiar alcune cose, acciocché l’esempio (la copia) non fosse di niuna parte lontano dall’esemplare, infermò di un’ardentissima febbre accompagnata da acutissimo dolor di testa. Questa infermità fu chiamata da alcuni medici petecchie, da altri semplice febbre, da alcuni postema generata nella testa. Or, fosse qual si volesse la pestifera qualità del suo male, ella nello spazio di ventidue giorni, come virtuosamente era vissuta, così religiosamente morì.

Così fu presto reciso questo bellissimo fiore, quando spiegava tutta la pompa della sua bellezza, la soavità del suo costume, e la felicità del suo ingegno: ristorata in qualche parte della maggior gloria che le fu invidiata da morte, per la bellissima vita che ne scrisse l’Atanagi e fu come riconsacrata all’immortalità da quel sicuro e fine giudizio di Pietro Giordani.