Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo XXXI
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XXXI.
Trattasi di molte e molto importanti cose.
Tra questi ragionamenti, che furono piacevoli a tutti, salirono al nobile appartamento, ed assegnarono a don Chisciotte una sala ricchissima, tutta parata di drappi d’oro e di broccato. Sei donzelle lo disarmarono, servendogli da paggi, tutte avvertite e ammaestrate dal duca e dalla duchessa di ciò che dovessero fare, e del modo con cui dovevano assistere don Chisciotte, affinchè vedesse che lo trattavano da cavaliere errante. Deposta l’armatura, restò mezzo spoglio coi suoi calzoncini stretti e col suo giubbone di camozza, secco, alto, lungo, con le ganasce che per di dentro si baciavano l’una con l’altra: figura che avrebbe fatto scoppiar dalle risa le donzelle che lo corteggiavano, se non avessero dovuto astenersene per preciso comando dei loro padroni. Rimasto poi solo con Sancio, così prese a parlargli: — Dimmi, bufalo moderno e pezzo di asino antico, ti par egli ben fatto il disonorare e il fare affronto a matrona venerabile e degna di ogni riguardo com’era quella? ti parve quello il tempo opportuno da risovvenirti del tuo leardo? ti paiono questi signori da dimenticar le bestie quando accolgono tanto allegramente i padroni? Ti prego, Sancio, per quanto so e posso, che tu voglia serbare più decoroso contegno, e non lasciare scoprire le fila in maniera che qua si accorgano che sei tessuto di tela rustica e grossolana. Pensa, povero ignorante, che in tanto maggior conto è tenuto il padrone quanto più onorevoli e ben nati sono i servi che ha al suo comando, e che uno dei più speziosi vantaggi che hanno i principi sopra gli altri uomini si è quello che si valgono di servitori quasi tanto ben educati quanto essi medesimi. Non consideri, o te meschino e me malavventurato! che se veggono che tu se’ un villano zotico od uno scimunito grazioso, penseranno tosto che io sia qualche giramondo o qualche cavaliere scroccone? Per carità, amico Sancio, fuggi fuggi questi inconvenienti, chè chi inciampa nell’essere ciarlone e sputasentenze, presto pericola e va a riuscire sguaiato buffone: raffrena la tua lingua, considera e rumina bene le parole prima che ti escano di bocca, e pensa che siamo giunti in luogo di dove col favore del cielo, e mercè della gagliardia del mio braccio dobbiamo uscire con miglioramento notabilissimo di fama e di sostanze„.
Sancio promise e giurò che si sarebbe cucita la bocca e morsicata la lingua prima di proferire parola mal a proposito o non pesata a dovere siccome gli comandava, e che se ne stesse per questo conto sicurissimo che mai per colpa sua non si scoprirebbe il netto dell’esser loro. Don Chisciotte si vestì, si pose il suo armacollo, cinse la spada, si mise addosso un largo manto di scarlatto ed una montiera di raso verde datagli dalle donzelle, e con la nuova attillatura si recò nella grande sala dove trovò le donzelle messe in ala tanto da una parte quanto dall’altra, e tutte apparecchiate a dargli l’acqua alle mani: ciò che fecero dopo molte riverenze e cerimonie. Sopraggiunsero poi dodici paggi collo scalco per condurlo alla mensa, dov’era dai padroni aspettato. Lo attorniarono dunque e pomposamente e con maestà lo condussero in altra sala dove stava apparecchiata ricchissima tavola con soli quattro serviti. La duchessa ed il duca furono alla porta della sala a riceverlo; ed era con essi un grave ecclesiastico di quelli che governano le case dei principi; di quelli, che, non essendo nati grandi, mal possono consigliare veri signori, e spesso, in vece di parchi, li fanno apparir miserabili. Seguirono allora molti cortesi e gentili offizii, e circondato don Chisciotte con riverenza, passarono a sedere alla mensa. Il duca gli offerì il capo di tavola, e tuttochè egli vi si rifiutasse, tante furono le sollecite e gentili insistenze che gli fu forza accettarlo. L’ecclesiastico si pose dirimpetto, ed il duca e la duchessa ai due lati Presente a tutto questo era Sancio attonito e colla bocca aperta in vedere di quale alto onore andava il suo padrone fregiato per cortesia di quei principi; ed osservando i molti complimenti e prieghi che passarono fra il duca e don Chisciotte per farlo stare a capo di tavola, si fece a dire: — Se mi permettono le signorie loro io racconterò una cosa accaduta nel mio paese in proposito delle preferenze di posto„. Non avea egli dette appena queste parole che tremò don Chisciotte, immaginandosi che avrebbe dato in alcuna delle sue scappate. Sancio lo guardò, lo intese, e soggiunse: — La signoria vostra non dubiti ch’io sia per trasgredire ai suoi comandi, oppure ch’io non dica cosa che non venga a pelo, chè non mi son mica dimenticato dei consigli che poco fa vossignoria mi ha dati intorno al parlare molto o poco, bene o male. — Sancio caro, io non mi ricordo di nulla, rispose don Chisciotte; narra ciò che vuoi, purchè te ne sbrighi. — Quello che voglio dire, soggiunse Sancio, è tanto vero che non mi darà una mentita il mio signor don Chisciotte ch’è qua presente. — Quanto a me, replicò questi, non ismentirò che che tu dica, ma guarda bene a quello che dici. — Ho tanto guardato e riguardato, rispose Sancio, che sono sicuro di non proferire cosa che possa esser contraddetta, e l’effetto lo farà vedere. — Sarebbe migliore avviso, disse allora don Chisciotte rivolto al duca e alla duchessa, che le grandezze vostre facessero scostar di qua questo balordo, il quale potrebbe prorompere in mille scimunitaggini. — Per la vita del duca, disse la duchessa, che Sancio non deve scostarsi da me di un punto solo; egli mi è assai caro, perchè so ch’è molto discreto. — Discreti giorni, soggiunse Sancio, viva la santità vostra per lo buono concetto che tiene di me, quantunque io sappia di non meritarlo: ma intanto vengo alla istoria che io voglio raccontare.
“Un cittadino del mio paese, dei principali e dei più ricchi perchè proveniva dagli Alami di Medina del Campo, che si maritò con donna Mencia di Chignones, che fu figlia di don Alonso di Malagnone cavaliere dell’abito di san Jacopo, che si annegò nella Herradura, per cui nacque, or sono molti anni, nella nostra terra quella quistione alla quale, per quanto intesi, si trovò presente il mio signor don Chisciotte, e nella quale rimase ferito Tommasiglio lo Scapigliato, figliuolo di Balaustro il Fabbro... Non è egli vero tutto questo, signor mio padrone? Lo affermi per vita sua, perchè questi signori non mi tengano per qualche ciarlone bugiardo. Questo cittadino dunque convitò... — Sin qui, proruppe allora l’ecclesiastico, Sancio si dimostra bugiardo, no, ma ciarlone; vedremo poi in che conto si avrà a tenere. — Tu metti a campo tante testimonianze e tanti contrassegni, o Sancio, disse don Chisciotte, che non posso dispensarmi dall’asserire che ti esce di bocca la verità: ora tira innanzi, ma accorcia il racconto perchè tu hai ciera di non la finire in tre giorni. — Non lo accorciate no, soggiunse la duchessa, per fare piacere a me, mentre io anzi mi diletto assai in sapere la storia come la narrate, e se la finirete in sei giorni tanto più ne avrò gradimento. — Dunque io dico, signori miei, seguitò Sancio, che questo tal cittadino che io conosco come le mie mani, perchè dalla mia casa alla sua non vi è un tiro di balestra, convitò un contadino povero ma onorato. — Avanti, fratello, disse l’ecclesiastico, chè vi siete posto in un viaggio da non uscirne sino al dì del giudizio. — Piacendo a Dio, lo terminerò la metà prima, rispose Sancio. Dico dunque che giunto il tal contadino a casa del detto cittadino convitatore, che il signore dia riposo all’anima sua mentre è già morto, e per più contrassegni assicurano che fece una morte da angelo, alla quale io non era presente, trovandomi in quel tempo a segare a Temblecche... — Per vita vostra, figliuolo, replicò l’ecclesiastico, accelerate il vostro ritorno da Temblecche e senza dare sepoltura al cittadino (se non ne avete altri da sotterrare) mettete fine al vostro racconto. — La conclusione dunque è questa, continuò Sancio, che stando ambedue per mettersi a tavola, chè mi pare in questo momento di vederli più che mai..„. Non è da dirsi quanto si divertissero i duchi del fastidio in cui mostrava di esser l’ecclesiastico per tante dilazioni e pause che andava Sancio facendo, e della bile e della rabbia in cui vedeasi che don Chisciotte si consumava. — Dico dunque, riprese Sancio, che stando quei due, come ho già detto, per mettersi a tavola, il contadino perfidiava col cittadino perchè si mettesse in capo della tavola, ed il cittadino dal canto suo perfidiava perchè l’altro si sedesse egli in quel posto, adducendo che era padrone di comandare le feste in casa sua. Il contadino, che si presumeva di essere cortese e bene creato, non volea consentirvi, sicchè stizzito il cittadino, e postegli ambe le mani sopra le spalle, lo fece sedere per forza, dicendogli: Siedi, ignorantone, chè in qualunque posto io mi metta, io sarò sempre il solo capo di tavola. Questo è il racconto che spero certo di non avere fatto fuori di proposito„. Don Chisciotte diventò di mille colori, e sino anche sopra la bruna sua tinta naturale tralucevano e campeggiavano. I commensali dissimularono le risa perchè egli non montasse in collera, compresa avendo la malizia di Sancio. A fine pertanto di cambiar discorso e impedire a Sancio di tirare innanzi coi suoi spropositi, domandò la duchessa a don Chisciotte che nuove egli recasse della signora Dulcinea, e se in quei giorni le avesse mandato qualche presente di giganti o di malandrini, dei quali egli aveva vinto e soggiogato così gran numero. Cui don Chisciotte rispose: — Signora mia, le sventure cominciarono pur troppo a percuotermi, e vi ha apparenza che non avranno mai fine. E giganti domati e maliardi e malandrini ho inviati a lei; ma dove l’avevano mai a trovare se stassi incantata e trasformata nella più schifosa contadina che possa mai pensarsi? — Non lo direi io, soggiunse Sancio, e quanto a me mi pare la più bella creatura del mondo, almeno nella lestezza e nel saltare particolarmente che non la cederebbe al più lesto saltatore della Spagna; e mi creda, signora duchessa, in fede mia che salta dalla terra sopra la sua asina come se fosse un gatto. — L’avete voi veduta incantata, o Sancio? domandò il duca. — E come che la ho veduta, rispose: e chi altri fuori di me si è accorto per la prima volta del suo vero incantamento? È incantata come mio padre„.
L’ecclesiastico che senti parlare di giganti, di gaglioffi, di malandrini, d’incantamenti, immaginò che si trattasse di don Chisciotte della Mancia, la cui istoria era stata letta dal duca, ed avealo egli stesso le molte volte ripreso, dicendogli ch’era uno sproposito perdere il tempo nel legger tali frascherie. Assicuratosi poscia che non s’ingannava, contegnoso e con isdegno disse al duca medesimo: — Vostra eccellenza, signor mio, renderà conto al Signore delle azioni fatte da quest’uomo dabbene. Questo don Chisciotte o don balordo, o come si chiami, io credo che non sia tanto menteccato quanto vostra eccellenza suppone; e non approvo che se gli mettano occasioni per confermarsi e procedere nelle sue follie e nelle sue balordaggini. Volto poscia il discorso a don Chisciotte, gli disse: — E a voi, cervello stravolto, chi vi ha fitto in testa che siate cavaliere errante; che vinciate giganti, soggioghiate malandrini? Andate in buon’ora, che tal sia per voi; andate a casa vostra, educate i vostri figliuoli, se ne avete, prendete cura della vostra roba, e finitela di andare vagando per lo mondo poppando vento e dando di che ridere a quanti vi conoscono e non conoscono. Dove avete voi trovato che fossero mai nel mondo o che vi siano adesso cavalieri erranti? Dove sono eglino i giganti di Spagna, i malandrini della Mancia, le Dulcinee incantate e tutta la caterva della simplicità e scempiaggini che escono dal vostro pazzo cervello? Stette don Chisciotte attentissimo a tutte le parole del venerabile uomo, e accortosi che stava già per finire, senza portare rispetto ai duchi, con sembiante sdegnato e con perturbamento di tutta la persona, rizzatosi in piedi disse:... ma quello che disse merita un capitolo a parte.