Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo XX
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XX.
Nozze di Camaccio il ricco, ed avvenimento di Basilio il povero.
Obbedì Sancio, e messa la sella a Ronzinante e la bardella al leardo, si avviarono ambedue passo passo, ed entrarono nel frascato. La prima cosa che si offerse alla vista di Sancio fu un vitello intero infilzato in uno schidione di olmo. Nel luogo in cui si doveva arrostire, ardeva una buona catasta di legna, e stavano sei grandi pignatte d’intorno al fuoco. Non erano queste della solita forma, ma piuttosto sei mezzi orci, capace ognuno di contenere una beccheria di carni; e basti il dire che ingoiavano castrati interi, i quali o non si conosceva che vi fossero od era come se vi fossero tanti piccioncini. Le lepri senza pelle, le galline senza penne che attaccate stavan agli alberi per esser poi sepolte nelle pignatte, erano innumerabili; gli uccelletti, le salvaggine, le cacciagioni che giacevano apprestate, movevano a maraviglia. Contò Sancio più di sessanta otri, ognuno dei quali capiva in sè più di due barili, e tutti (per quanto poi si vide) erano pieni di vini generosi. Il pane bianchissimo era a cataste, come suole nelle aie esser a monti il grano; i caci formavano in apparenza altrettante muraglie di ben commessi mattoni; e due caldaie di olio, più vaste di quelle che si usano nelle tintorie, servivano a frigger pastumi, che con due grandissime pale si cavavano cotti, e si tuffavano poi in altra caldaia di mele che stava accanto. Erano oltre a cinquanta i cuochi, e tutti netti come candidi armellini, tutti diligenti e festosi tutti. Nel dilatato ventre di un vitello stavano riposti dodici piccioli porchetti che servivano a dargli sapore e tenerezza. Le spezierie di varie sorti non parevano comperate a libbre, ma a botti, e stavano tutte riposte in ampii cassoni. Finalmente l’apparato delle nozze era bensì rustico, ma così abbondante che avrebbe potuto bastare per un esercito.
Sancio Panza adocchiava ogni cosa, e a tutto si affezionava. Sulle prime restò imprigionato e vinto dalle pignatte, dalle quali avrebbe di buona voglia staccato un pignattino; la volontà passeggiava poi su quegli otri, nè era ritenuto rispetto alle paste fritte nelle padelle, se però poteansi chiamar padelle quelle enormi caldaie. Non potendo più resistere, nè stando in lui di fare altrimenti, si accostò ad uno di que’ tanti affaccendati cuochi, e con cortesi ed affamate espressioni pregollo che gli concedesse di poter intingere un tozzo di pane in una di quelle pignatte. Al che il cuoco rispose: — Fratello, in questo giorno la fame non passeggia da queste bande, grazie al ricco Camaccio; accostatevi pure allegramente, e guardate là che troverete qualche mestola, e schiumatevi pure una gallina o due, che buon pro vi faccia. — Non ne vedo nemmeno una, rispose Sancio. — Aspettate, disse il cuoco: oh poveraccio me! che schizzinoso e dappoco uomo che dovete essere!„ E ciò detto, prese una caldaia, e postala in uno di quei mezzi orci, ne cavò due paperi e tre galline, e disse a Sancio: — Mangiate, amico, e rompete il digiuno con questa schiuma intanto che si fa ora di desinare. — Non so dove mettere tutta questa roba, soggiunse Sancio. — E voi portate via, rispose il cuoco, la mestola ed ogni cosa; chè la ricchezza e il contento di Camaccio suppliscono a tutto„.
Nel tempo che Sancio aveva queste occupazioni, stava don Chisciotte guardando da una parte del frascato, dov’egli scoprì intorno a dodici contadini sopra dodici bellissime cavalle con ricchi e sfarzosi fornimenti da campagna e con molti sonagli nei pettorali, tutti vestiti da giorno di festa: e questa truppa si mise a fare non una, ma più carriere su per lo prato, con allegre voci e grida dicendo: “Vivano Camaccio e Chilteria; egli è tanto ricco quanto ella è bella e la più bella del mondo„. Don Chisciotte ciò udito; disse tra sè: — Conviene dire che non abbiano costoro veduto mai la mia Dulcinea del Toboso, chè se ciò fosse andrebbero più a rilento nel lodare questa loro Chilteria„. Di lì a poco cominciarono ad entrare per diverse parti del frascato molte bande di danzatori, fra le quali una eravi di schermitori di spade alla moresca, formata da ventiquattro belli e graziosi pastori vestiti di sottile e candida tela, con sciugatoi lavorati di varii colori di fina seta. Uno di quelli che guidava le cavalle dimandò a certo snello garzone, se fosse rimasto ferito alcuno dei danzatori. — Nessuno sin ora, quegli rispose, e siamo ancor tutti sani: e subito cominciò ad intrecciarsi con gli altri compagni, con tanti giri e con tanta destrezza che quantunque don Chisciotte fosse avvezzo a veder simili danze, nessuna come quella eragli tanto piaciuta. Trovò molto sollazzevole un’altra danza fetta tra bellissime donzelle sì giovani da doverle giudicare tra i quattordici e i diciotto anni, vestite tutte di verdi palme, coi capelli parte intrecciati, parte sciolti, ma tutti sì biondi che gareggiar poteano con quelli del sole, e tutti inghirlandati di gelsomini, di rose, di amaranti e di madreselve. Erano guidate da venerabile vecchio e da attempata matrona, e l’una e l’altro molto più svelti e leggieri di qoello che promettesse la loro età. Si servivano per lo suono di una piva zamorana; portando elleno negli tacchi l’onestà, e la leggerezza nei piedi, si mostravano danzatrici senza pari. Venne dopo questa un’altra danza di quelle che soglionsi chiamare danze parlanti. Era formata di otto ninfe in due schiere, una delle quali era diretta dal dio Cupido, e da Interesse l’altra; quegli adorno di ali ed arco e faretra e frecce; questi vestito di varii e ricchi colori d’oro e di seta Le ninfe che seguitavano Amore, portavano dietro le spalle su bianche pergamene scritto i loro nomi: Poesia era il titolo della prima, Discrezione quello della seconda, quello della terza Buon Lignaggio, quello della quarta Bravura. Nella stessa guisa andavano contrassegnate quelle che seguitavano l’Interesse: dicea Liberalità il titolo della prima, Dono quello della seconda, Tesoro quello della terza, e quello della quarta Pacifico Possesso. Erano preceduti tutti da un castello di legno tirato da quattro Satiri, tutti ricoperti di ellera e di canapa tinta di verde, sì al naturale che per poco non ispaventarono Sancio. In fronte e ai quattro lati del castello stava scritto: Castello di buona guardia; e vi stavano d’intorno quattro valenti suonatori di tamburino e di flauto. Cupido cominciava la danza, e, fatte due mutanze, alzava gli occhi e drizzava l’arco contro una donzella che ponevasi tra i merli del castello, ed alla quale egli diceva:
“Son io il Nume onnipossente nell’aria, sulla terra, nel profondo del mare, e su tutto quello che l’abisso racchiude in orribili bolge.
“Cosa ignota m’è la paura; e posso tutto quello ch’io voglio, quand’anche mi venisse talento dell’impossibile. In tutto ciò poi che possibile è, io aggiungo o levo, comando o proibisco„.
Terminata la canzoncina egli scoccò una freccia dall’alto del castello, e si ritirò al suo posto. Uscì poi Interesse e fece altre due mutanze: tacquero i tamburini, ed egli disse:
“Io son colui che posso più dell’Amore; pur è l’amor che mi guida. Io appartengo alla migliore schiatta che il cielo mantenga sulla terra, alla più nota e più illustre.
“Io son l’Interesse: per me pochi tra gli uomini operano virtuosamente; ed operar senza me sarebbe gran miracolo: ma quel ch’io sono mi consacro a te, per sempre„.
Si ritirò Interesse e si avanzò Poesia, la quale dopo avere danzato a foggia degli altri, posti gli occhi sulla donzella del castello, disse:
“In dolcissime parole e in eletti pensieri gravi e spiritosi, la Poesia ti manda, o mia Donna, la sua anima ravvolta in mille sonetti.
“Se la mia servitù non ti piace, la tua sorte invidiata da molte altre donne sarà portata da me al di sopra della luna„.
Si appartò Poesia, e dal lato d’Interesse uscì Liberalità, che fatte le sue mutanze, così si espresse:
“Chiamasi Liberalità il donare che tiensi usualmente lontano e dalla prodigalità e dall’estremo contrario, ch’è indizio di bassa affezione all’avere.
“Ma d’ora innanzi, per farti grande, voglio essere prodigo anzi che no: è questo un vizio per certo, ma un vizio nobile e proprio di un cuore amoroso che si manifesta coi doni„.
Uscirono coll’ordine descritto e ritiraronsi tutte le figure delle due squadre, e ciascheduna fece sue mutanze, e recitò suoi versi, quali eleganti, quali ridicoli, ma don Chisciotte ritenne soltanto nella sua benchè grande memoria i già riferiti. Unironsi di poi tutti facendo intrecci fra loro con gentil garbo e lestezza; e passando Amore davanti al castello scoccava all’alto le sue freccie, e Interesse vi lanciava le sue palle dorate. Finalmente dopo lunga danza Interesse cavò di tasca un borsone, fatto della pelle di un gatto d’Angora, e che parea pieno di danari, e gettandolo contro al castello coll’urto ne sconnesse le tavole, le quali caddero perciò, e restò la donzella scoperta del tutto e senza difesa. Le si accostò Interesse colle figure della sua fazione, e mettendole al collo una gran catena d’oro, fecero vista di prenderla, d’assoggettarla e d’incatenarla: il che veduto da Amore e dai suoi confederati si mossero come per volere levargliela. Ogni azione seguiva al suono di tamburini, ballando e facendo danze regolari. Mossero in fine i Satiri rappacificati, e con somma velocità ricomposero le tavole del castello; la donzella vi si rinserrò di nuovo, e con questo ebbe fine la danza con grande universale contento.
Dimandò don Chisciotte ad una delle ninfe chi fosse stato di quella danza il compositore. Ella gli rispose che fu un benefiziato del suo paese, il quale aveva singolar talento per siffatte invenzioni. — Sarei per iscommettere, soggiunse don Chisciotte, che questo tal baccelliere o beneficiato porta maggiore affezione a Camaccio che a Basilio, e che dee avere più del satirico che del comico. Egli vi ha innestato con bell’artifizio le virtù di Basilio e le ricchezze di Camaccio„. Sancio Panza, che stava ad ascoltare ogni cosa, disse: — Prendo le parti della ricchezza, e sto con Camaccio. — In sostanza, disse don Chisciotte, tu fai conoscere, Sancio, che sei un villano, e di quelli che dicono: viva chi vince. — Sarò quello che si vuole, rispose Sancio, ma intanto io so che dalle pignatte di Basilio non caverò mai spuma tanto saporita come quella che ho cavata da quelle di Camaccio:„ e indicando una caldaia piena di paperi e di galline, e togliendone fuori una, cominciò a mandarla giù nello stomaco con bella disinvoltura assaporandola, e borbottando così: — Alla barba della virtù di Basilio, chè tanto vali quanto tieni, e tanto tieni quanto vali: due schiatte sole vi sono al mondo, diceva mia nonna, e sono l’avere e il non avere; ed ella si atteneva all’avere: ed al dì d’oggi, signor don Chisciotte mio, prima si tocca il polso alla fortuna e poi alla sapienza: un asino d’oro pare meglio di un cavallo con bardatura: sì, tomo a dirlo, io sto con Camaccio che ha pignatte piene di schiume, di paperi, di galline, di lepri e di conigli, mentre m’immagino che quelle di Basilio non conterranno altro che brodo magro. — Hai tu finito, Sancio, la tua cicalata? disse don Chisciotte. — La ho finita pur troppo, rispose Sancio, poichè vedo che la signoria vostra se ne prende fastidio: chè se ciò non fosse, avrei materia di parlare per tre giorni interi. — Faccia Dio, replicò don Chisciotte, che tu diventi muto prima che la morte mi colga. Col tenore di vita che conduciamo, rispose Sancio, prima che vossignoria muoia io sarò ridotto a masticare la sabbia, e così non potrò più parlare sino alla fine del mondo, o sino al dì del giudizio. — Quand’anche fosse così, replicò don Chisciotte, il tuo silenzio non potrà mai uguagliare le chiacchiere che hai sinora fatte, e fai e farai, e tanto più che per ordine naturale dee terminar prima la mia che la tua vita: ma intanto io sono di opinione di non poterti vedere muto nemmeno quando ti stai bevendo e dormendo, ch’è quanto mai posso dire. — In verità, rispose Sancio, che non è da fidarsi della Scarnata, voglio dire della Morte, la quale mangia tanto un agnello quanto un castrato; ed ho inteso dire dal nostro curato che con piede uguale essa batte alle alte torri dei re, come alle umili capanne dei poveretti: questa signora è più possente che schizzinosa, non ha niente a nausea, si pasce di tutto, con tutto si confà ed empie le bisacce di ogni razza di gente, età e preminenze: non è di que’ segatori che dormono al meriggio, anzi ad ogni ora sega e taglia tanto la secca come l’erba verde, e non pare già che mastichi, ma sì bene che inghiottisca ciò che le si para davanti, avendo una fame canina di cui mai non si sazia: e quantunque sia priva di ventre pare sempre idropica e sitibonda delle vite di quanti vivono, come se beesse un boccale di acqua fresca. — Basta, basta, o Sancio, disse don Chisciotte a questo passo: tienti in riputazione, e non ti lasciar cadere, chè certo quello che hai detto intorno alla Morte coi tuoi rustici termini, è quanto di meglio potrebbe dirne un predicatore: ti assicuro, Sancio mio, che se tu avessi tanta discrezione quanto hai talento, potresti aspirare ad un pergamo e andartene per lo mondo predicando con riuscita. — Predica bene chi vive bene, rispose Sancio, ed io non so di altre teologie. — Nè altra ne hai di bisogno, disse don Chisciotte: io però non posso intendere o concepire come essendo il timor di Dio il principio di ogni sapienza, tu abbia più paura di una lucertola che di Domeneddio. — Giudichi la signoria vostra, disse Sancio, delle sue cavallerie, nè si metta a dare sentenza sui timori o sulle bravure altrui, chè io sono tanto timorato di Dio quanto ogni altro, e mi lasci vossignoria pappare questa schiuma, che del resto sono tutte parole oziose delle quali dovremo dare conto nell’altra vita„. E detto questo, tornò all’assalto della caldaia con appetito sì grande che svegliò anche quello di don Chisciotte, il quale gli avrebbe fuori di dubbio tenuto buona compagnia se non fosse stato impedito da quello che sarò costretto di far sapere qui appresso.